Amaro Freitas: «Rasif»

di Pietro Scaramuzzo

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Il giovane pianista di Recife, talento jazzistico di livello assoluto, destinato al grande successo internazionale, ha pubblicato il suo secondo disco, «Rasif»

Tra i volti più rappresentativi del jazz brasiliano va riconosciuto senza ombra di dubbio quello di Amaro Freitas. Giovane pianista pernambucano da tempo impegnato nel rinnovamento estetico della musica strumentale del suo Paese, di recente ha pubblicato il suo secondo disco con la britannica FarOut Recordings. «Rasif», questo il titolo, arriva a distanza di due anni anni dal precedente «Sangue Negro» con cui l’artista era già riuscito a distinguersi per la raffinata complessità ritmico-armonica. In «Rasif», Freitas affina il suo linguaggio musicale descrivendo in maniera definitiva il dualismo culturale cui si ispira; da un lato, il jazz nordamericano di Thelonious Monk, Chick Corea e Herbie Hancock, dall’altro le radici afro-brasiliane che si sublimano nelle ritmiche convulse del maracatu. Quello che sorprende, in questo mirabolante processo creativo, è la grande maturità dell’artista che, nonostante la giovane età, è in grado di conciliare elementi così diversi in un caleidoscopio espressivo del tutto personale che risulta costantemente equilibrato e mai stucchevole.

Quando ti sei avvicinato per la prima volta alla musica?
Il mio rapporto con la musica inizia nella chiesa evangelica grazie a mio padre che, quand’ero bambino, mi ha insegnato a suonare la batteria. La tastiera è arrivata solo in un secondo momento perché, durante le funzioni religiose, c’era bisogno di uno strumento che fungesse da accompagnamento. Ricordo che all’inizio ho avuto molte difficoltà nel coordinare le due mani, ma col tempo mi sono innamorato così tanto della musica che ho iniziato a studiare sul serio.

A quali artisti ti ispiri?
A tutti quelli che mi hanno reso colui che sono oggi. Tra questi, Chick Corea occupa senz’altro un posto privilegiato. A quindici anni mi regalarono un dvd della Akoustic Band e e per me fu uno shock. Fino ad allora avevo avuto contatti soltanto con la musica religiosa. Ascoltare il jazz di Corea mi ha stimolato a studiare la musica strumentale. Oltre a lui, gli artisti che più mi hanno influenzato sono Oscar Peterson, Thelonious Monk, Herbie Hancock, Moacir Santos, Capiba, Brad Mehldau, Craig Taborn, Gonzalo Rubalcaba, Stefano Bollani, la Spok Frevo Orquestra, Chico Science, Naná Vasconcelos.

Amaro Freitas - Rasif
Amaro Freitas (foto: Helder Tavares/Divulgação)

«Sangue Negro», il tuo primo disco, è carico di riferimenti musicali al mondo nero, all’ancestralità della tua terra. Come è avvenuto il processo creativo?
Verso i diciotto anni ho iniziato ad interessarmi ai ritmi come il frevo, il maracatu, il coco, il baião che, col tempo, sono entrati a far parte delle mie composizioni. Nel mio lavoro, però, non mancano brani che fuggono da ogni tentativo di etichettatura. Penso, ad esempio a Norte o a Estudo 0, entrambe scritte dal mio batterista Hugo Medeiros. Tornando alla tua domanda, è vero che sono io l’autore di Encruzilhada, Subindo o Morro, Norte, Samba de César e Sangue Negro, ma il lavoro con i musicisti che mi accompagnano è stato fondamentale. Abbiamo lavorato intensamente al disco per due mesi. Presentavo composizioni che si adattavano all’estro di ogni musicista, con l’obiettivo di avere così il brano finito.

Qual è il tuo rapporto con la tua terra? In che modo influenza la tua musica?
È un rapporto che si consolida ogni giorno. Il Pernambuco è una terra che ha molto da insegnare. Il carnevale di Recife e Olinda e la festa di São João in Arcoverde sono esempi di come le feste popolari mantengano viva la nostra tradizione culturale. E poi abbiamo un litorale meraviglioso, come Recife, Arrecifes, Marco Zero, Praça do Arsenal, Paço do Frevo. Sono profondamente innamorato della mia terra e questo è completamente legato alla musica.

Molti sostengono che tu abbia rinnovato il jazz brasiliano. Come ti senti in relazione a questa responsabilità?
La prima volta che ho incontrato Lenine, un famoso cantante anche lui di Recife, è stato in un concerto al Blue Note di Rio de Janeiro. Alla fine del concerto lui mi ha detto: «La tua musica è assolutamente originale. Si basa su un’architettura matematica e, allo stesso tempo, è ricca di elementi culturali tipici della nostra terra. Come pernambucano e brasiliano mi sento rappresentato dalla tua arte.» Ho così avuto la conferma di essere in grado di tradurre in musica ciò che sento nel modo più genuino e universale. Sono molto orgoglioso di poter contribuire al rinnovamento della musica brasiliana attraverso una nuova forma di costruzione melodica e armonica che passa per la valorizzazione percussiva e per il work in progress collettivo che si realizza durante i concerti.

Affermi di voler mostrare la semplicità della musica e rompere la presunta convinzione che il piano sia uno strumento per pochi. Credi di esserci già riuscito?
Il pianoforte è ancora uno strumento per pochi. Per quanto io mi sia avvicinato alla musica a dodici anni, ho iniziato a suonare il piano solo quando ne avevo diciotto. Sono nato nella periferia di Recife, e le opportunità di entrare in contatto con l’arte non erano certo molte. Eppure ce l’ho fatta, e adesso cerco di essere ambasciatore di questo messaggio di rivincita Possiamo aiutare le prossime generazioni diventando noi stessi il simbolo del superamento, di rivincita. Di essere un esempio, una fonte d’ispirazione. A parte questo, ho ideato il progetto «Piano Andarilho» che ha il principale obiettivo di portare il pianoforte nelle periferie del Pernambuco, in quei posti dove probabilmente lo strumento non arriverebbe mai.

Amaro Freitas
Amaro Freitas «Rasif»

Il tuo ultimo disco, «Rasif», è stato prodotto da un’etichetta inglese. Come stai vivendo questa esperienza internazionale?
Sì, «Rasif» è prodotto dalla Far Our Recordings. Però, in questo nuovo momento della mia carriera musicale voglio confermare il mio legame con la 78 Rotações, la casa di produzione che mi rappresenta. I rapporti con gli inglesi sono ottimi e questo è tutto nuovo per me. Chi lavora per la Far Out è molto ben preparato e motivato. Collaboriamo tutti in un clima sereno. Tra l’altro la Far Out sta facendo un grosso lavoro di informazione a livello internazionale. Lo trovo incredibile.

Hai trovato delle differenze nel modo di produrre musica nel Brasile e all’estero?
Credo che in Europa esista un mercato molto ben segmentato e che funziona molto bene: teatri per i concerti, festival, etichette, uffici, produzioni. Me ne rendo conto da quando sto con la Far Out. Qui in Brasile, invece, abbiamo eccellenti festival, teatri meravigliosi, istituzioni no-profit come il SESC (Serviço Social do Comércio), ma non abbiamo un mercato forte nè un’organizzazione ben strutturata che possano consentire ai musicisti di esprimersi al meglio.

L’ispirazione di «Rasif»?
Rasif, oltre che il titolo del disco, è anche quello di un brano. Le composizioni sono ispirate ad alcuni momenti della mia vita, come l’incontro con Coco Raízes de Arcoverde che faceva casino coi sandali di legno su un palco, oppure la volta che ho mangiato il baião de dois (un piatto tipico del Nordeste) di Dona Eni, una signora del Ceará che ci ospita ogni volta che suoniamo lì. E poi mi ha ispirato uno dei nostri principali musei, il Paço do Frevo, o ancora il semplice stare vicino alla poesia e alla letteratura cercando di capire e di trasmettere attraverso il suono la stagioni di un giorno come avviene in Aurora, A Pino, Ocaso e Plenilúnio.

Il brani di «Rasif» sono molto articolati, ricchi di suoni, riff, sperimentazioni musicali. In che modo i musicisti del gruppo sono coinvolti nella fase di scrittura?
Jean Elton (basso) e Hugo Medeiros (batteria) sono incredibili. Le nostre prove settimanali sono dense di sperimentazioni e studi. Nei mesi più tranquilli proviamo circa tre ore a settimana. In questo tempo ci prendiamo delle pause per discutere di nuovi suoni, di nuove possibilità di interpretazione musicale, di estetica sonora. Tutto questo processo ci permette di creare un feeling molto intenso che, senza ombra di dubbio, influenza le composizioni e gli arrangiamenti. Considero i miei musicisti come l’estensione del mio corpo. Insieme formiamo un un triangolo, con tre vertici e un unico obiettivo.

Qual è lo spazio che il Brasile offre alla musica strumentale?
Posso dire di non essere solo. Oggi abbiamo una nuova generazione brasiliana in grado di offrire una proposta musicale in linea con le tendenze mondiali. E di certo non mancano grandi festival per esibirsi. Quello che dobbiamo migliorare è il lato legato alla produzione. Se riuscissimo a migliorarlo, ce ne gioveremmo tutti.

Nonostante la varietà di ritmi, all’estero il Brasile è spesso considerato soltanto il Paese del samba e della bossa nova. Tu rappresenti, in un certo senso, un ambasciatore in grado di cambiare questo stereotipo.
Il Brasile è ricco di stili e generi musicali, ma credo che i compositori brasiliani siano più concentrati sull’arte in sé piuttosto che sull’arte come oggetto di esportazione. Probabilmente è questo il motivo per cui per questo motivo, la maggior parte di gran parte di questi artisti non esce dai confini nazionali. Siamo conosciuti per il samba e la bossa nova, che pure io amo, ma abbiamo molti altri ritmi che dobbiamo imparare ad esportare. È importante che la creatività e l’arte vadano di pari passo con gli affari.

Questo disco ti proietta nell’olimpo dei grandi musicisti brasiliani. Probabilmente è ancora presto per chiederlo, ma cosa dobbiamo aspettarci per il futuro?
Voglio fare molti altri dischi legati al tempo che vivo, al mio rapporto con il pianoforte, al dialogo verbale e musicale con i miei musicisti. Non posso dire molto del futuro perché appartiene a Dio, ma posso dirti che pubblicheremo presto un nuovo lavoro che farà parte di questa trilogia insieme a «Sangue Negro» e «Rasif». È un sogno che si trasforma in realtà.

Pietro Scaramuzzo

[da Musica Jazz, gennaio 2019]

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