Da qualche giorno è stato pubblicato il tuo nuovo disco dal titolo «Y’Y». Devo dire che quando l’ho ascoltato ne sono rimasto completamente rapito. Ho l’impressione che ci troviamo di fronte a una tua nuova fase musicale. è davvero così?
Prima di tutto devo dirti che sono davvero felice che il disco ti sia piaciuto. Per rispondere alla tua domanda, credo che questo disco offre un nuovo Amaro e un nuovo momento artistico. I miei tre precedenti album possono essere considerati come una sorta di trilogia che ruota intorno a quello che oggi potremmo definire come il nuovo jazz brasiliano, che mescola tradizione, cultura Afro e radici pernambucane alle influenze poliritmiche internazionali…
Effettivamente questa cosa della trilogia ce l’eravamo detta nella nostra ultima intervista per Musica Jazz a proposito del disco «Sankofà». Spiegaci meglio, allora, come definiresti questa nuova fase artistica.
È il risultato di un percorso iniziato anni fa. Quando stavo lavorando a «Rasif», ho iniziato a togliere le mani dalla tastiera del pianoforte per avvicinarmi alle sue viscere. Volevo capire come modificarne il suono, imparare a sfruttare le potenzialità dell›arpa. Insomma, ho iniziato a lavorare al piano preparato che, ovviamente, prende ispirazione dall›esperienza di John Cage. Per quel che mi riguarda, però, non volevo lavorare con il metallo, che caratterizza il piano preparato di Cage.
Come sei arrivato, allora, al tuo personale pianoforte preparato?
Avevo bisogno di utilizzare oggetti che non danneggiassero il pianoforte, soprattutto in vista dei concerti. Così ho iniziato a pensare alle tessere del domino, alle mollette per i panni, alle corde di chitarra, ai semi della foresta amazzonica. Ho passato tutti questi anni sperimentando. Per esempio, all’inizio piazzavo la molletta su una corda ma, quando suonavo, quella saltava. Ho capito allora che dovevo fissarla con del nastro adesivo. Per caso ho scoperto che se la posizionavo su certe corde, a un’altezza ben precisa, riuscivo a ottenere il suono del tamburo. La stessa cosa è avvenuta con i semi amazzonici. Ho piazzato uno di questi grandi semi sulle corde gravi del pianoforte e mi sono reso conto che se suonavo forte, si produceva una vibrazione incredibile. Ho sperimentato molto, ma non volevo che la mia musica apparisse come un mero esperimento. Volevo che il disco raccontasse una storia.
Spiegati meglio.
Ti faccio un esempio. Quando ho iniziato a lavorare al brano Dança dos Martelos, ho inviato una registrazione al mio manager Laercio per capire cosa ne pensava. La sua risposta mi ha sorpreso. Ricordo che mi ha detto: «Amaro, questa roba è bella per i primi due minuti, poi diventa noiosa». Questa cosa è stata illuminante. Sai, ora è facile parlare del procedimento di ricerca, ma quando ci sei dentro non sai veramente dove stai andando e hai sempre bisogno di confrontarti con qualcuno.
E allora in che momento questo lavoro ha smesso di essere un esperimento per diventare una storia?
In una delle ultime date della tournée di «Rasif», mi sono esibito a Manaus, in Amazzonia. Per me è stata l’occasione per scoprire un Brasile che non conoscevo e che probabilmente né il nord-est brasiliano né il sud-est conoscono. L’Amazzonia è un luogo dove la gente assomia molto di più ai venezuelani e ai boliviani che allo stereotipo della mistura brasiliana. Ci sono molti discendenti indios e l’architettura è un commistione di quella europea e di quella indigena. E Manaus è una sorta di grande distopia, un gran territorio con un porto gigante dove tutto funziona attraverso l’acqua. E sull’acqua tu vedi queste chiatte che traportano centinaia di persone e soono tutti distesi su delle amache. Non ci sono sedie o poltrone, ma decine e decine di amache. è una cosa che fa parte del loro quotidinao. Nello stesso territorio assisti all’incontro delle acque, quelle dei fiumi Negro e Solimões, che pur scorrendo nello stesso letto non si miscelano. Sono stato testimone di questo spettacolo ma, ancora più importante, ho avuto la possibilità di visitare una comunità indigena, sono andato nella foresta, ho visto quegli alberi giganti attraverso i quali cui gli indigeni comunicano. È davvero un’esperienza incredibile e diversa da tutte le altre che avevo vissuto in Brasile. Quando ho suonato all’Amazonas Green Jazz Festival 2023 ho avuto la possibilità di avere un momento di scambio più intimo con la comunità indigena. Sono stato presentato a Eron, un maestro indigeno della comunità Sateré-Mawé, che mi ha portato nel loro villaggio dove ho potuto prendere parte a un loro rituale bevendo il puro Guaraná dell’Amazzonia, mangiando carne di coccodrillo, e assistendo al rito di passaggio dei giovani alla vita adulta.
Come si svolge questo rituale?
Ci si siede tutti in cerchio. Il pajé, il guaritore, parla dell’importanza dell’esistenza, della connessione con le proprie radici, si beve il guaranà dell’Amazzonia dalla stessa tazza e poi i giovani di dodici anni si sottopongono al rito della tucandeira, che è una formica il cui addome termina in un pungiglione che provoca dolore, gonfiore, arrossamento, febbre e brividi. I ragazzini devono infilare dentro questo guanto pieno di formiche la loro mano e resistere il più possibile. La sfida con la tucandeira rappresenta un momento di forza e coraggio per il giovane che si prepara a entrare nell’età adulta. Attraverso questo rito, un membro della tribù Sateré Mawé riconosce le sue radici, leggi e tradizioni. Allo stesso tempo, si tratta di un rituale propiziatorio che permette all’indigeno di acquisire abilità di pesca e caccia, ottenere fortuna nella vita e nel lavoro, e crescere come uomo forte e coraggioso. Per me è stata un’esperienza trasformatrice.
Quando ho ascoltato per la prima volta il tuo disco mi sono subito accorto che i due primi brani sono avvolti da un’atmosfera onirica, magica, e mi sono chiesto se fossero stati ispirati da immagini reali. Questo tuo racconto, in un certo senso risponde alla mia domanda…
È esattamente quello che sto per raccontarti. Gli indigeni mi hanno permesso di comprendere quanto la mia musica fosse legata a questa cultura e alla terra in cui sono cresciuto. Durante quei giorni a Manaus ho chiesto al guaritore il permesso di usare alcuni nomi indigeni che potessero aiutarmi a rendere omaggio alla foresta e all›acqua del fiume.
La prima parola che mi hanno offerto è mapinguari ed è il titolo del primo brano del disco. Il mapinguari, nella cultura indigena, è un animale, un essere mitico e mistico, nonché un Incantato della foresta, che ha una bocca sullo stomaco e odia i cacciatori tanto che quando ne vede uno, lo trascina nella foresta e lo divora. Per questo brano volevo ricreare, ricorrendo ai pifferi, fischietti, pianoforte, un suono che evocasse un’immagine della foresta oscura, volevo dare all’ascoltatore la sensazione di essere catturato dal mapinguari, di essere divorato dalla magia della foresta.
La seconda parola è stata uiara, che è una sirena importante tanto nella tradizione del Maranhão quanto in quella dell’Amazzonia. Uiara intona una melodia meravigliosa attraverso la quale ti invita a vivere l’esperienza del fiume.
Questa rapporto con la natura che emerge forte nella prima parte del disco mi riporta alla mente un altro artista pernambucano che proprio ai suoni della natura ha dedicato gran parte della sua carriera: Naná Vasconcelos. Nel disco gli dedichi una canzone, Viva Naná, che sembra composta a quattro mani con lui. Cosa rappresenta questo genio brasiliano per te?
Purtroppo non ho mai conosciuto Naná. Quando lui era attivo, io ero immerso nell’universo evangelico e ogni contatto con la cultura Afro-brasiliana mi era negato. Mi sono innamorato di Naná Vasconcelos anni più tardi, quando sono entrato all’università e ho lasciato la chiesa evangelica. è lo stesos periodo in cui ho imparato a conoscere Lia de Itamaracá, il movimento manguebeat, Moacir Santos. Per tornare a Naná…è stato eletto dalla rivista DownBeat come il miglior percussionista del mondo per otto anni, ha vinto nove Grammy ed è di grande importanza per il nostro riconoscimento. È un orgoglio per il Pernambuco, un orgoglio per il Brasile. E quest’anno, il carnevale di Recife rende omaggio a questa figura sorprendente con un ensemble di 650 percussionisti. Ci sono anch’io, e questo mi riempie d’orgoglio.
Sono contento che Recife torni a rendere omaggio al genio di Naná. Qualche anno fa, proprio sulle pagine di Musica Jazz, avevamo intervistato la moglie di Naná che ci raccontava di come il Pernambuco avesse dimenticato il valore di suo marito. E c’è una frase che mi ha colpito molto che Naná era solito dire: «Io sono il Brasile che il Brasile non conosce». è ancora così?
Credo che il Brasile abbia un problema che non riguarda solo Naná Vasconcelos. Il Brasile ha la memoria corta. Se chiedi a un brasiliano di raccontarti cos’è successo durante l’ultimo governo di Dilma Rousseff, probabilmente non saprà cosa dirti. Ho l’impressione che qui si metta in campo ogni forza per indebolire la memoria della gente. Pensa agli Stati Uniti, all’Europa e a come a nord dell’equatore si faccia di tutto per preservare la memoria storica. A Varsavia si suona ancora Chopin in piazza. Qui molti non sanno chi siano Tom Jobim, Heitor Villa-Lobos, Johnny Alf, e quindi figurati se sanno chi è Naná Vasconcelos. Ti faccio un altro esempio. Il museo del frevo ha da poco compiuto dieci anni, ma questo genere musicale squisitamente pernambucano ha più di cent’anni. Perchè ci hanno messo così tanto tempo a dedicargli un museo? È un problema strutturale.
Oggi il Brasile ha un ministro della cultura, Margareth Menezes, che è prima di tutto un’artista. Credi che, in questo senso, le cose possano cambiare?
Direi che le cose sono già cambiate. Ogni volta che Lula è stato al potere, il suo governo è sempre stato vicino agli artisti. Qui in Brasile ci sono leggi di incentivo alla cultura, come la legge Rouanet, bandi, aiuti finanziari… Insomma, il governo gioca un ruolo in portante nella produzione artistica del Paese. Io, per esempio, sto partecipando al bando della Caixa Econômica. Ebbene, questo bando era stato chiuso da quattro anni, ovvero da quando Bolsonaro è salito al potere. Sono bastati la nomina di Margareth Menezes e il governo Lula per ridare forza alla nostra cultura, sostegno alla nostra produzione artistica. Prima il Carnevale durava cinque giorni e adesso ne dura otto, così da permettere a più artisti di esibirsi. Le cose stanno cambiando, davvero.
Torniamo al disco. Il titolo è assai criptico… Prima di tutto, come si pronuncia?
Nella lingua sateré-mawé “«Y’Y» si pronuncia con un suono gutturale. In portoghese, e quindi anche in italiano, potremmo pronunciarlo come iê iê.
E cosa significa?
Significa acqua o fiume e, in un certo senso, questo disco è molto legato a questo elemento naturale. è un tema che mi sta a cuore da molto tempo. Da dove viene l’acqua? Dove va? Insomma mi sono reso conto che non potevo scegliere parola migliore per dare un titolo a questo disco.
Sin dagli esordi, il tuo lavoro è permeato dal concetto di ancestralità. In questo disco in particolare, questo concetto, però, è ambivalente. Mi spiego. Nel disco possiamo individuare una prima parte in stile ouverture dedicata alla natura e una seconda parte dedicata all’eredità culturale. Il brano Mar de Cirandeiras, ad esempio, celebra la tradizione delle cirandas ed Encanto la diaspora africana. In che modo hai tracciato la narrazione di questo disco?
Vivo in un Paese che è a dodici ore di distanza dal resto del mondo. Sono dodici ore di volo per l’Europa, dodici dal Giappone, eccetera. Siamo lontani da tutto, ma allo stesso tempo oggi abbiamo la possibilità di raggiungere questi posti facilmente. Il mio ultimo viaggio in Europa è stato illuminante. Ho incontrato molta gente, ho vissuto molte esperiene, ho visto spettacoli diversi, ho visto persone emozionarsi in modi diversi. Ho assisstito ad altri tipi di narrazioni sonore. In questo dell’album volevo celebrare questi incontri, senza che il disco perdesse unità. La prima parte del disco celebra la natura, il nostro pianeta, la sua importanza. La seconda parte celebra l’uomo, il popolo nero e la diaspora africana. Nel disco ci sono ospiti importanti: il britannico Shabaka Hutchings, gli americani Brandee Younger, Jeff Parker e Hamid Drake e il cubano Aniel Someillan. Ognuno di loro carica la storia delle proprie origini e del proprio Paese. Nella musica abbiamo trovato un punto di connessione che ci ha riportato a un momento anteriore alla diaspora, in un luogo comune.
Dicci di più di queste collaborazioni.
Con Brandee Younger ho registrato il brano Gloriosa che è dedicato a mia madre. Quando ero bambino mia madre mi cantava canzoni quando andavo a letto, ma anche quando era l’ora di svegliami. A Brandee ho chiesto di suonare l’arpa seguendo il suo cuore, senza preoccuparsi di cosa avrei fatto al pianoforte. Quando porto questa canzone sul palco, questo è il momento in cui chiesd al pubblico di cantare con me. Ed è un momento molto emozionante, perchè mi riporta indietro a quell’atmosfera della mia infanzia, quando ero in chiesa. Riesco a rivedermi da piccolo mentre canto con mia madre.Con Jeff Parker è stata una sorpresa straordinaria, perché nonostante già conoscessi il suo lavoro, non conoscevo lui di persona. Jeff ha registrato sul brano Mar de Cirandeiras. Nonostante il titolo, non suoniamo una vera ciranda ma piuttosto interpretiamo le mie emozioni dinanzi a una ciranda. E, ovviamente, questo brano è un mio personale omaggio a una delle figure più importanti della cultura pernambucana, Lia de Itamaracá. Il contributo di Jeff è stato impeccabile, ha messo le note giuste nel punto giusto ed è stato bellissimo nonostante abbiamo lavorato a distanza. Shabaka, Hamid e Aniel hanno registrato con me il brano che dà il titolo al disco. è stato un momento incredibile. Ci siamo ritrovati in studio e abbiamo fatto le prove… C’era un’energia incredibile e così ho detto: ragazzi, registriamola adesso che abbiamo già capito le dinamiche del brano e questa prima take sarà quello che andrà nell’album.
Curioso, perchè quando hai registrato un brano per il disco di Shabaka le cose sono andate più o meno nella stessa maniera…
Esatto, ne avevamo parlato tempo fa. Però quella volta eravamo tutti nella stessa stanza. Questa volta io e Daniel eravamo nella stessa sala, Shabaka in un’altra e Hamid in un’altra ancora. Inoltre quando ho registrato per il disco di Shabaka non avevamo un brano di partenza, e abbiamo improvvisato partendo da zero. Questa volta avevamo un brano e una linea da seguire.
Questo è probabilmente il tuo disco più sperimentale. Nonostante questo, però, riesci a mantenerti legato alla cultura musicale popolare. Penso, ad esempio, alla collaborazione con Sandy. In che contesto ti trovi più a tuo agio?
Credo di trovarmi bene ovunque. C’è una frase che Lenine mi ha insegnato, e che trovo molto interessante. Una volta stavamo chiacchierando e lui mi ha detto «Non sono un essere umano perfetto, ma cerco sempre di fare del mio meglio. Sono sempre in transito, ma sono sempre ben accompagnato.» Lenine dice delle cose che ti fanno riflettere. Non mi preoccupo se dovrò suonare jazz o pop… mi basta suonare. Mi piace approfittare di ogni momento e rendere questa esistenza divertente, creare un punto di connessione con gli altri. A proposito di Sandy, non ci crederai ma è una super esperta di jazz. Mi ha raccontato cose che nemmeno io sapevo. Ma il punto non è questo. Sandy è un’artista che crede davvero nella musica e in quello che fa. E questo è molto importante per me. è stato uno scambio artistico intenso e indimenticabile.
Di recente hai suonato in Oceania, in Asia, in America e in Europa. Non ti resta che l’Africa. Conti di fare concerti nel continente africano?
Muoio dalla voglia di suonare in Africa. Penso che quando ci metterò piede, mi piegherò sulle ginocchia e bacerò la terra. Mi rotolerò nella polvere, mi sporcherò. Qualche tempo fa era spuntata una possibilità ma non è andata a buon fine. Per ora non ho altre proposte. È molto difficile andarci a suonare, ma voglio impegnarmi per provare a realizzare questo sogno.
«Y’Y» è appena stato pubblicato e in queste settimane sei in Italia per presentarlo. Cosa dovrà aspettarsi il pubblico da questo concerto?
Ho suonato qualcuno dei brani del disco in Australia, in modo del tutto estemporaneo, e devo dirti che il pubblico mi è parso entusiasta. Lo spettacolo è stato molto emozionante e tutti se ne sono andati davvero colpiti dal livello di scambio che abbiamo avuto. Lo spettacolo sarà molto dinamico, e si modulerà in diversi momenti. Nella prima parte, presento il mio pianoforte al pubblico. Nella seconda parte dello spettacolo, invece, invito il pubblico a seguirmi in un viaggio musicale attraverso la foresta e il fiume. è il momento in cui porto in scena il mio pianoforte preparato. La terza parte del concerto inizia quando inizio a suonare melodie liriche e invito il pubblico a cantare con me. Lo show si conclude nell’incontro tra il pianoforte e la mbira e con me che passeggio tra il pubblico suonando questo tipico strumento africano. Credimi… Sarà un concerto meraviglioso.