Il jazz frenetico di Amaro Freitas

di Pietro Scaramuzzo

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Amaro Freitas Trio
Amaro Freitas Trio (foto: Helder Tavares/Divulgação)

Il 25 maggio scorso, al Festival Santa Jazz di Santa Tereza, nello Stato dello Spirito Santo, in Brasile, la scaletta aveva previsto l’esibizione di Amaro Freitas prima di quella del grande e famoso João Donato. Quest’ultimo aveva assistito in silenzio all’intera performance. Poco più tardi, quando gli avevano chiesto un’opinione sull’esibizione del giovane jazzista, aveva risposto con un unico aggettivo: frenetico. In quell’occasione João Donato era riuscito a condensare in un’unica parola la complessità musicale di un artista che, seppur giovane, sembra essere destinato a occupare un posto nell’olimpo dei grandi jazzisti internazionali.

Amaro Freitas
Amaro Freitas

Lo stesso aggettivo, frenetico, può riassumere un altro concerto. Quello del BariInJazz lo scorso 5 luglio, per la sua prima data italiana. Nello spazio suggestivo del Castello Caracciolo di Sammichele di Bari, quasi due ore di grande jazz –- o sarebbe meglio dire, senza timore di esagerare, frenetico jazz – hanno stuzzicato un pubblico attento e partecipe. Amaro Freitas, come sempre accompagnato da Jean Elton al contrabbasso e Hugo Medeiros alla batteria, ha dato sfoggio della sua grande propensione all’improvvisazione, oltre che della sua particolare predilezione per ritmi che vanno dal jazz classico all’Afro-jazz più nero. Più di tutto, però, quello che sorprende è il suo linguaggio univoco, personale, autentico, al quale ci ha abituati sin da «Sangue Negro», suo primo disco, che si è consolidato in «Rasif», lavoro dello scorso anno, e che si rinnova in modo sorprendente durante il live. Così, un celeberrimo brano di Moacir Santos come Coisa n.4 si veste di nuove forme sonore sotto i colpi secchi delle dita di Amaro. La stessa cosa accade con Luiza di Jobim – in cui Amaro rimane da solo sul palco – che si dilunga in progressioni armoniche sorprendenti prima di lasciarsi andare alla bellissima Rasif, seguita in un’escalation ritmica da Aurora prima e da Mantra poi.

A chiudere il concerto, per il consueto bis, Encruzilhada (tratta da «Sangue Negro») è una conferma. Un ciclo che si chiude, un riassunto che ancora una volta sembra ricondurci alla stessa parola. È tachicardica, convulsa, irrequieta. Frenetica! E, ad ascoltarla, viene voglia di ricominciare dall’inizio.

Pietro Scaramuzzo