MUSICA E POLITICA NELL’ITALIA UNITA. INTERVISTA A LORENZO SANTORO (2/2)

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Musica e politica nell’Italia unita (dall’Illuminismo alla repubblica dei partiti) è il nuovo libro di Lorenzo Santoro, docente di storia contemporanea, che ha dato ampio spazio all’influenza del jazz sull’evoluzione politica italiana e viceversa. Questa è la seconda parte dell’intervista.

Il jazz attirò anche l’attenzione di Luigi Sturzo. Quali aspetti lo interessarono di questa musica?

Sicuramente Sturzo riconobbe il jazz come uno dei grandi cambiamenti propri della cultura nella società di massa, ma cercò di elaborare una estetica musicale molto diversa rivolta alla sfera religiosa, a suo giudizio importante anche in politica, impregnata di wagnerismo e che trovò realizzazione nella scrittura di un libretto per una composizione per coro di Darius Milhaud.

Un altro momento importante dedicato al jazz del suo libro è quello relativo alla politica musicale del comunismo. Inizialmente, i dirigenti non nutrivano una grande passione per la musica in generale. Per quali motivi?

Gramsci aveva espresso un giudizio negativo riguardo l’opera ottocentesca, in quanto retorica e melodrammatica, peraltro lo stalinismo imponeva i termini di un realismo fermo e assoluto che portava a condannare ogni novità formale come contraria alle ragioni della cultura comunista. Peraltro il disco, la musica leggera e la musica americana venivano rifiutate in quanto prodotto di evidente influenza capitalista sulla cultura nazionale. Nonostante ciò il partito nuovo di Togliatti era impegnato ad avvicinare diverse classi sociali corteggiando la cultura di massa. Anche Sanremo e il giovane rock italiano trovò qualche spiraglio nelle feste dell’unità, anche se fu condannato nelle riviste del partito.

Togliatti era fermamente contrario al jazz, perché «prodotto culturale esotico e alieno dal contesto europeo». A parte questa descrizione, perché il jazz non rientrava nelle grazie dei dirigenti del partito comunista e, inoltre, cosa o chi riuscì a far cambiare idea?

Gramsci era convinto che il jazz fosse una moda parigina, la sua diffusione attraverso il disco era per i comunisti la dimostrazione di un legame indissolubile tra jazz e capitalismo, fino alla seconda metà degli anni Sessanta i dirigenti comunisti consideravano il mercato discografico come un pericolo per la cultura delle masse, lentamente poi la situazione mutò grazie e soprattutto al ruolo della organizzazione comunista la quale era declinata, in parte sul modello dello stato fascista, ad avvicinare diversi strati sociali e proporre diverse ideologie e culture. Con gli anni settanta  e le regioni le diverse organizzazioni comuniste locali si impegnarono a lungo sulla musica favorendo il diffondersi di una cultura più aperta alla cultura di massa, alle multinazionali della musica, specie per le feste dell’unità.

Nel 1973 il Pci preparò un convegno a Bologna sul tema: «L’impegno dei comunisti per il rinnovamento della vita musicale», e si discusse delle norme relative all’insegnamento della musica nella scuola pubblica, all’ordinamento dei conservatori, corsi universitari di musica. Insomma, a distanza di quarantuno anni ancora se ne parla: non le sembra che nulla sia stato risolto?

I conservatori diffusi in ogni provincia, spesso nei piccoli centri, sono stati una grande novità, che credo abbia incoraggiato la fioritura di eccellenti musicisti di ricerca e non, liberi dalla schiavitù della performance quale unica occasione di guadagno. Certamente il sistema dei conservatori ha mille altri difetti, nonostante la diffusione e il numero di studenti non ha, ad esempio, aiutato la formazione di un pubblico maturo come esiste, ad esempio, in altri paesi europei.

Qual è il momento in cui cambia l’atteggiamento del Pci nei confronti del jazz e per quali motivi?

Ritengo sia da individuare con il 1970 e l’inizio dell’esperienza delle regioni; infatti maggiore autonomia del partito in sede locale ha permesso un certo attivismo organizzativo apparentemente eterodosso rispetto all’ideologia ufficiale, ancora nel 1975 una lettera di Giorgio Napolitano sull’incidente a Nono al Palasport dimostra l’incomprensione del ruolo della musica come motivo di appartenenza generazionale e fattore determinante della ritualità politica della sinistra.

Ritiene che l’apparentamento tra jazz e Pci abbia influito sul primo?

Sicuramente in un certo periodo ha generato entusiasmi e impegno organizzativo, anche la rete dei festival estivi italiani è nata in quel frangente, poi naturalmente ha avuto vita autonoma. Non bisogna certo sottovalutare la forza della cultura giovanile degli anni settanta e la sua esplosione ben oltre i confini del partito. Fenomeni come Gaslini, Schiano, Perigeo, Area, si muovevano indifferentemente in diversi settori della accesa vita sociale del paese.

Il suo excursus si ferma agli anni Ottanta. Oggi non vi sono più legami tra musica e politica?

Non mancano tentativi come ad esempio il discorso degli inni. Dettato da tecniche di marketing quello di Forza Italia, debole il tentativo della sinistra di adottare la canzone popolare di Fossati alla ricerca di una nuova retorica dell’unità. Per un certo periodo il rap italiano aveva contraddistinto l’impegno politico dei centri sociali,  mentre oggi un partito politico vagamente destrorso richiama impropriamente nel suo nome l’inno di Mameli, ignorando gli effettivi ideali politici del poeta.

Quanto è durato il suo lavoro di ricerca per questo libro e quali sono state le maggiori difficoltà?

Ho lavorato circa nove anni a questa ricerca. Penso il lavoro più impegnativo sia stato quello relativo al giacobinismo, sicuramente erede della cultura illuminista in un momento di grandi cambiamenti, in cui effettivamente i riti politici e la cultura tutta giocarono un ruolo di primo piano per le più diverse classi sociali. Anche individuare il discorso sul controllo delle passioni in Mazzini e la sua rilevanza per la musica ha richiesto un discreto lavoro di analisi, peraltro reso ancora più sfaccettato dall’impegno verso la musica folk delle società mazziniane alla fine dell’ottocento. Ho ancora il sogno che un ottimo musicista italiano interpreti il «canone italiano», i pezzi musicali che ritengo importanti nella vicenda politica italiana dal Settecento ad oggi; ad esempio un eccellente pianista romano molto noto all’estero, secondo me potrebbe farlo con risultati degni di nota.

All’interno della grande forbice dei periodi storici trattati, quale ritiene sia stato il momento più felice per la musica? E quello meno fausto, più scuro?

L’Italia è certamente nota per l’Opera, per l’originalità del jazz italiano negli anni Settanta ma anche per originalissime declinazioni dell’improvvisazione da parte di compositori “colti” come Giacinto Scelsi, le manipolazioni di Luigi Nono, il gruppo di nuova consonanza di Franco Evangelisti con il sempre ottimo e straordinariamente versatile Giancarlo Schiaffini. Ci sono stati anche periodi di intensi cambiamenti politici in cui la musica non ha prodotto novità fondamentali come ad esempio il Giacobinismo  e il periodo napoleonico, forse anche i primi decenni dell’unità d’Italia in cui la Scapigliatura ha proposto un importante tentativo di rivalutazione della musica folclorica in senso antiborghese.

Alceste Ayroldi

(seconda parte)