Pianeta Rosso. Intervista a Rick Wakeman

Torna il leggendario tastierista inglese con un nuovo concept album dedicato alle sabbie di Marte.

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Rick Wakeman, se sei d’accordo potremmo iniziare dal suo ultimo disco. Perché hai deciso di dedicare un intero disco al «Pianeta rosso»?
E’ un posto eccezionale. E pensare che alcuni miliardi di anni fa era come la Terra: aveva oceani, fiumi e quasi sicuramente vita di qualche genere (vedi che David Bowie diceva bene!?). L’atmosfera aveva meno ossigeno e ciò non sarebbe giustificato, ma succedeva qualcosa che, lentamente, stiamo riuscendo a scoprire. Le tre missioni in arrivo a febbraio potrebbero svelarci molti misteri. Penso che tutto ciò sia molto emozionante, eccitante: come il pianeta blu sia diventato il pianeta rosso.

C’è un sentito ritorno al prog rock da parte tua, sicuramente in maggior misura lo si ascolta in questo disco.
Il tempo era quello giusto e ho trovato anche il giusto concetto, quello che cercavo, per avere l’ispirazione per creare un concept album. Quindi, la musica è venuta di conseguenza.

Quindi, è un concept album. Come hai agito dal punto di vista compositivo?
Ho guardato, letteralmente, centinaia di fantastiche foto del pianeta, immaginando come fosse visitare le sue differenti aree e spazi. Sono state queste la mia fonte di ispirazione: mi sono seduto al pianoforte circondato da queste foto e la musica fluiva, senza doverci pensare troppo.

Hai un sistema di composizione musicale ben definito?
Devo essere ispirato da qualcosa che mi parla di musica. Non posso scrivere un brano e, dopo, affibbiargli un titolo. Sarebbe per me qualcosa priva di significato.

Per questo disco, che tipo di tastiere hai utilizzato?
I suoni del pianoforte sono stati modificati dal Synthology’s Ivory Libraries e pianoforti aggiuntivi utilizzati da Hard Synths, Kronu, Fantom e Montage. Le principali tastiere utilizzate nell’album sono dei mini moog dello D: ne ho utilizzato quattro differenti in quanto ognuno ha una propria caratteristica. Poi, ho usato il Manikin Memotron, il Korg Kronus, un Roland Fantom G8, lo Studiologic Sledge, un Hammond Xk5 e un Yamaha Montage 7. Poi, ho utilizzato anche dei soft synth come il G-media, lo Spectrasonics e altri ancora.

Colpiscono la bellezza e l’energia di tre brani, in particolare: Arsia Mons, Pavonis Mons e Valles Marineris. Il loro corso è sempre vario, sia nella struttura armonica che in quella ritmica. Sembra tornare al passato, ma senti qualcosa di completamente nuovo. Fondamentalmente, si ascolta tutto ciò che hai fatto in passato, ma con nuovi suoni. Cosa è cambiato nel tempo?
Hai assolutamente ragione! Voglio usare dei suoni classici: amo portarli con me e adattarli al XXI secolo. Con la tecnologia a disposizione oggi ho la possibilità di fare cose che non potevo fare quaranta-cinquanta anni fa. Un grande suono, sarà sempre grande indipendentemente da quanto sia vecchio.

Vorresti dirci qualcosa sui musicisti che ti accompagnano?
Ho scelto dei musicisti che sapevo che avrebbero capito ciò che intendevo realizzare. Quindi, Lee Pomeroy, che è il mio migliore musicista e che, al momento e senza timore di smentite, è il migliore bassista prog-rock al mondo. Dave Colqhoun è semplicemente un musicista incredibile ed è anche uno dei preferiti di Brian May: e ciò la dice lunga. Ash Soan è un musicista eccezionale e un batterista meditativo, che mi ricorda moltissimo Bill Bruford dal punto di vista tecnico. E’ stata una gioia lavorare con loro!

Passiamo a parlare di qualche momento saliente della tua carriera. Quando hai iniziato la sua carriera di musicista, quali risultati si era prefisso di raggiungere?
Semplicemente volevo fare il meglio che potevo realizzare. E questo principio che ritengo etico mi accompagna ancora ora, ogni giorno. Volevo imparare tutto sulla storia della musica. Sono nato nel 1949. Mio padre era un pianista, non era un professionista, ma è stato fantastico e mi ha incoraggiato. Quando ero un giovane adolescente facevo parte di gruppi jazz, blues, country e western, rock, folk: ho suonato un po’ di tutto. Suonavo ovunque anche senza paga, solo per fare esperienza.

I tuoi obiettivi come artista sono cambiati rispetto all’inizio della sua carriera?
La musica è la mia vita e qualsiasi strada questa scelga, per me va bene. Sebbene io cerchi di influenzarla come posso, ma è lei la regina.

Quando scrivi la musica pensi anche al pubblico, alle vendite dei dischi e al mercato dei live?
Ai concerti e al pubblico, sicuramente. Ascolto sempre ciò che i fan e gli amici mi dicono. «The Red Planet» non sarebbe mai nato se non avessi ascoltato la gente. Sono loro che hanno voluto questo disco e mi hanno fatto capire che anche io volevo realizzarlo.

Qualche tempo fa abbiamo intervistato Carl Palmer, che ci ha detto che, a suo avviso, la morte del prog rock è stata decretata dalle emittenti radiofoniche, perché i brani erano troppo lunghi e, di conseguenza, le inserzioni pubblicitarie erano di meno. Sei d’accordo con questo punto di vista?
C’è molta verità in quello che dice Carl Palmer. Ma, per dirla tutta, alle emittenti radiofoniche non è mai piaciuto il prog-rock. Non sono d’accordo sul fatto che sia morto, anzi penso che sia parecchio vivo. E ciò è dovuto alla considerevole base di fan di questo genere musicale, che si arricchisce di nuovi e giovani membri, minuto dopo minuto.

Gli Yes hanno proseguito la tradizione del rock progressive o ne hanno cambiato la direzione?
Quando ho iniziato a suonare con gli Yes era il 1971. Alle due del mattino ricevetti una telefonata da Chris Squire. Gli chiesi di chiamare più tardi, ma lui non mi ascoltò. Mi disse che il gruppo voleva intraprendere una nuova strada, con più tastiere e, secondo lui, ero l’uomo giusto. Accettai subito. Un artista deve sempre essere pronto al cambiamento. Per rispondere meglio alla tua domanda, la musica degli Yes, successivamente, è cambiata: in particolare negli anni Ottanta, perché c’era il bisogno di rimanere in vita. Così, l’hit single Owner Of A Lonely Heart divenne un crossover progressive e salvò la band dall’estinzione…

Cosa puoi dirci del suo primo incontro con David Bowie?
L’ho incontrato la prima volta nel 1968 al Regal Zonophone, che era l’ufficio di Denny Cordell in Oxford Street a Londra. Era lì con i produttori Tony Visconti e Gus Dudgeon. Io avevo diciotto anni. È stato Gus Dudgeon a presentarci e io mi sono limitato a rispondere: «Piacere di conoscerti». Poi, mi hanno chiamato per registrare con lui «Space Oddity». In realtà, ero parecchio occupato con una band che si chiamava Junior’s Eyes. Registrammo l’album e il nostro rapporto ingranò del tutto. Mi chiese anche di registrare «Ziggy Stardust», ma fu lo stesso giorno in cui avevo accettato l’offerta di far parte degli Yes. Mi manca molto David. L’aver collaborato con lui ha influenzato parecchio il mio modo di concepire la musica. E continua a farlo anche oggi.

Ci parleresti del The English Rock Ensemble?
Nel corso degli anni si sono succeduti molti componenti. Questo perché io seleziono i musicisti che voglio utilizzare in base al progetto al quale sto lavorando. Dovrei fare un elenco di tutti i musicisti, ma sarebbe troppo lungo!

All’epoca fu per me una grande sorpresa sapere che avresti collaborato con Ozzy Osburne e con i Black Sabbath.
Sono dei miei grandi amici e lo sono sempre stati. Ho suonato nell’album «Sabbath Bloody Sabbath» e «Osmosis». Il brano Perry Mason è uno delle mie canzoni preferite di tutti i tempi. Ozzie cantò anche in un mio brano, Buried Alive che fa parte dell’album «The Return To The Centre Of The Earth». Mio figlio Adam suona con con Ozzy da oltre vent’anni.

Hai mai collaborato con jazzisti?
In realtà, no. Ho suonato blues quando ero ragazzo, ma anche jazz con una band di miei coetanei.

Cosa ne pensi del jazz?
La musica è dare e prendere. Devi essere in grado di dare qualcosa alla musica per poter ottenere qualcosa da essa. La mia mentalità musicale non è cablata per il jazz, sebbene lo amo e alcuni jazzisti sono straordinari. Sono molto legato al dixieland e al jazz tradizionale, così come quando suonavo con la band di cui ti dicevo.

Nei primi anni Ottanta in radio passavano Heat Of The Moment degli Asia e Owner of a Lonely Heart” degli Yes. I tuoi ex compagni di band avevano tirato fuori questi successi pop. Qual è stata la tua reazione a questo dato che non eri coinvolto in nulla di tutto ciò?
Semplicemente pensai che tutto ciò era grandioso! Perché avrei dovuto pensare il contrario? Auguro solo il meglio, il successo ai miei amici.

Nel panorama musicale attuale, c’è qualcuno che ti interessa in modo particolare?
Penso che Amy Winehouse fosse un talento mostruoso ma, purtroppo, è tragicamente morta giovanissima. Dovrebbe essere ancora viva! Penso che Ed Sheeran sia un eccellente cantautore, molto dotato. Non sono appassionato del rap attuale, preferisco quello degli anni Sessanta come Pigmeat Martin e la sua formidabile hot Here Come The Judge: gran bella cosa!

Secondo le, quali sono state le rivoluzioni musicali del ventesimo secolo?
Penso che il tempo metterà davvero in luce l’importanza della popular music degli anni Sessanta e anche del rock progressive degli anni Settanta. Certamente ci sarà anche tanta altra musica che vivrà per sempre, ma questi due momenti sono per me inestricabilmente collegati, in un modo piuttosto strano.

Negli anni Sessanta e Settanta la c.d. lotta tra la musica britannica e quella americana era evidente e diede i suoi frutti. Oggi, invece, con la globalizzazione musicale, ci abbiamo guadagnato o perso?
Penso che ci abbiamo sempre guadagnato. Certo, sono due differenti percorsi ma con una sola destinazione finale. E questa è per me la vera storia della musica.

Quali sono i tuoi progetti futuri?
Ho almeno tre anni di progetti davanti a me, più tanti tour e concerti per compensare quello che abbiamo perso nel 2020 a causa della crisi pandemica non voluta, non necessaria e, a mio avviso, evitabile.
Alceste Ayroldi

Intervista pubblicata su Musica Jazz di ottobre 2020

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