«L’astronauta», Filippo Cosentino

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Uscirà a settembre «L’astronauta» il nuovo disco da leader di Filippo Cosentino (Emme Record, distribuito Ird). Ne parliamo con lui.

Tra i nove brani del tuo disco, hai scelto L’astronauta come titolo dell’album. Una scelta musicale, letteraria o ti senti un po’ fuori da questo mondo musicale?

L’astronauta è mia figlia Prisca: il disco è dedicato a lei. Prima di essere il titolo del cd è stata una parola utilizzata durante una chiacchierata amichevole tra me e Andrea Marcelli, un’immagine che ci è venuta in mente pensando alla piccola nella pancia della mamma come se fosse un’astronauta che piroetta non sapendo con precisione quale sia la sua meta. Sul finire del mese di luglio dello scorso anno mi sono quindi seduto al pianoforte e ho scritto la melodia del brano che poi avrebbe dato il titolo al disco. Nel libretto auguro anche a mia figlia di essere una persona curiosa, proprio come se ancora adesso che è nata fosse un’astronauta che va alla scoperta di qualcosa di nuovo. Il titolo è anche per me comunque una novità perché gli altri lavori avevano sempre un titolo in inglese, al di là del significato ho scelto «L’astronauta» anziché «The Spaceman» (anche se poi i titoli sono quasi tutti in lingua inglese) perché sono molto attaccato alla mia lingua madre, alla mia terra, e alle mie origini: per certi versi abbiamo una grande fortuna con la globalizzazione, di poter fare conoscere al mondo le nostre ricchezze e/o creare delle contaminazioni con altre culture ma forse ogni tanto di questo ce ne dimentichiamo a scapito della nostra storia. Per rispondere all’ultima parte della domanda no, non mi sento fuori da questo mondo musicale perché probabilmente – da un punto di vista storico – dopo l’umanesimo e il barocco musicale, questo che stiamo vivendo dalla metà dello scorso secolo ad oggi è secondo me il periodo più interessante per fare musica (intendo per scrivere musica, mentre per fare imprenditoria dovremmo affrontare discorsi diversi). La musica non è mai stata divisa in compartimenti stagni, altrimenti non avremmo avuto le melodie che conosciamo di Schubert, Chopin, Verdi, Wagner e autori più moderni come Maderna, Berio, tutti autori che hanno tradotto in musica la loro vita, il proprio vissuto. Così anche ascoltare la musica jazz è fantastico se si pensa alle differenze tra un autore ed un altro e da un musicista ad un altro anche solo nella riproposizione di uno standard; questo mi insegna il jazz ogni giorno: che posso prendere la mia vita, i miei pensieri e tradurli in note, tensioni, colori, armonie e melodie come per dipingere un quadro. E’ un’epoca difficile questa, per tutti, mica solo per i musicisti, e allora abbiamo a disposizione una grande fortuna ovvero quella possibilità offerta dall’arte della sintesi che permette di analizzare tutte le influenze esterne e di concentrarle in un lavoro che sia letterario, musicale o pittorico. No, non mi sento al di fuori di questo mondo musicale, non so in che punto io sia se tangente, al centro o periferico al centro ma sicuramente non ne sono fuori!

«L’astronauta» rappresenta la tua natura di musicista: una fusione di jazz, rock, pop, blues. Sicuramente non è mainstream. Se tu dovessi presentare il tuo lavoro, come lo spiegheresti?

Penso sempre a delle immagini quando scrivo e/o lavoro ad una melodia che diventerà un mio brano originale: evoco colori, gusti, odori, immagini che hanno fatto e fanno parte dei miei interessi culturali e così, avendo avuto la fortuna di frequentare i repertori dei genieri musicali che bene hai individuato nella domanda, non devo per forza ragionare a compartimenti stagni; mi sento più libero di scrivere quello che sento e penso in un determinato momento. Inoltre fino a questo momento ho trovato che il mio modo di esprimermi passa dal suono acustico, sul quale ho lavorato molto nei primi due dischi e sul quale sto ancora lavorando, migliorando e perfezionando.

Decisi nel 2011 con «Lanes»di intraprendere la strada del sound acustico e cercai già all’epoca di tradurre in musica le mie esperienze musicali. I brani che ebbero più successo dal vivo furono Lanes, River Avon e Spring Mood, tutte composizioni nelle quali misi qualcosa della mia vita. Da lì ho iniziato a lavorare su «Human Being» che però, per come lo avevo pensato, non poteva essere un disco solista ma nel quale pensavo il trio come un piccolo ensemble che a seconda dei brani e delle atmosfere si ricomponeva sempre in formazioni diverse (così si ha il guitar trio classico ma anche trio chitarra batteria e sax, o chitarre e sax). Tutto questo per arrivare a scrivere L’astronauta, disco per il quale ho dedicato molto tempo alla composizione e ideazione delle melodie e dei colori, alle atmosfere da evocare in funzione di determinate immagini. Come avrebbero detto a metà Ottocento, scrivo «musica a programma», narrando con mezzi musicali immagini, storie e racconti. Alla fine di questi due lavori ho capito che quando scrivo non mi metto paletti ma penso a colori o se vogliamo a come colorare le melodie che scrivo.

Prediligi le chitarre acustica e classica. Ritieni fuori contesto, rispetto alla tua musica, gli strumenti elettrici?

Assolutamente no, infatti sto già pensando ad un lavoro dove oltre l’acustica inserisco l’elettrica. La chitarra è un mondo assai complesso e ho sempre pensato che forse con troppa facilità quando si pensa alla chitarra si pensa o alla classica o alla elettrica. L’acustica mi contraddistingue a livello sonoro, mi rende originale nelle scelte e mi costringe a pensare diversamente le armonie, così non posso sovrappormi a suoni simili. Purtroppo è passata un po’ inosservata alla storia della musica e viene associata solamente alle tecniche fingerstyle ma invece l’acustica è una chitarra che ha tantissimo da comunicare e che in maniera maggiore rispetto all’elettrica può definire un musicista caratterizzandone le composizioni. Basti pensare a cosa sta facendo Ulf Wakenius e a cosa ha scritto Pat Metheny con l’acustica, baritona o tradizionale.

Il tuo tocco è calmo, rilassato, con le note ben scandite. Chi è la tua «musa ispiratrice»?

Sono mia moglie Adriana e mia figlia Prisca: a loro ho dedicato brani e dischi. Contemporaneamente è anche il mio modo di vivere, in maniera rilassata e non di corsa, anche perché già il lavoro stesso e i tempi moderni ci portano ad essere sempre di corsa pur contro la nostra volontà. Non penso che suonare sia una gara a chi infila più note in un quarto, e al tempo stesso credo che oggi, tranne in casi rarissimi, nessun musicista viva condizioni sociali tanto estreme da dover attingere a un linguaggio che appartiene ad altre epoche. In anni addietro anch’io sono stato attratto da questi percorsi (sia nel rock che nel jazz e nel blues) perché la voglia di misurarsi è altissima ma oggi è facile percorrere la strada della frenesia; io voglio vivere con calma e vorrei che la mia musica fosse per chi la ascolta un momento di pausa dai ritmi della giornata, l’occasione per fare un viaggio con la propria mente e i propri pensieri. Ci serve tempo per riflettere, non per dimostrare la nostra bravura.

Così facendo, hai lasciato molto più spazio ai tuoi compagni, in particolare agli assolo di Antonio Zambrini. Quando scrivi la musica pensi sempre ai tuoi sodali?

Penso sempre al bene della composizione e della musica, all’effetto generale che si può creare tutti insieme. Un assolo mica ti cambia la vita, lo fa un pezzo suonato bene, ben scritto, ben arrangiato. Sia in «Lanes», mio primo disco solista, che in «Human Being», primo disco in trio, ho avuto modo di dare tantissimo spazio alla chitarra. Ho avuto la grande occasione di conoscere Andrea Marcelli con il quale ho condiviso la produzione artistica: è musicista che mi ha e mi sta insegnando moltissimo, e da subito il pensiero è stato quello di creare un disco a livello sonoro e di scrittura musicale diverso dai miei precedenti, anche perché sentivo l’esigenza di incidere un lavoro più completo e maturo. Così mi sono  concentrato maggiormente sulla composizione, sulla scrittura che è diventata più matura. Ho poi condiviso i giorni delle registrazioni anche con Jesper Bodilsen e Antonio Zambrini: tutti e tre sono stati splendidi con me, hanno suonato in maniera divina e non sono mancati i consigli. E’ stata un’esperienza sia di vita che musicale molto importante.

A proposito dei tuoi musicisti. Rispetto al tuo precedente lavoro hai cambiato tutto. Cosa è successo?

I primi due lavori, «Lanes» e «Human Being», solista il primo e del mio trio il secondo, sono dischi diversi. «Lanes» mi ha permesso di presentarmi a pubblico e critica del mondo del jazz; allora pensai che il modo migliore per farlo fosse di scrivere brani miei e arrangiamenti di standard, e di dialogare in diverse modalità con alcuni musicisti. Rimane comunque un lavoro solista nel quale a volte suono da solo, a volte duetto con la tromba di Fabrizio Bosso, altre ancora suono in trio. Con «Human Being» proseguo in qualche modo questo discorso ma in maniera più organica, ovvero ho scritto e arrangiato il disco con un certo pensiero, con una scaletta ben precisa e pensato il trio in maniera molto ampia ovvero come se fosse una piccola orchestra nella quale gli strumenti dialogano tra di loro. Sono due dischi molto simili, ma «Human Being» – inciso in trio – per certi versi completa il discorso iniziato con il precedente, inciso con diversi musicisti e formazioni. Senza questi due dischi non avrei mai potuto avvicinare tre fantastici musicisti come Bodilsen, Marcelli e Zambrini e incidere «L’astronauta», per me il disco più importante e bello. Andrea inoltre ha curato insieme a me la produzione artistica e molte scelte sono state condivise ovviamente. Ho una scrittura musicale fatta di colori, accordi e melodie, quasi come se anziché pensare alla chitarra pensassi al pianoforte e così insieme ad Andrea abbiamo pensato ai musicisti ideali per produrre il suono che entrambi avevamo in mente; inoltre per il tipo di scrittura che sto portando avanti in questa fase e che ho adottato per questo progetto servivano musicisti molto versatili e infatti nel disco ci sono ballad (Inside The Blue, L’astronauta, 17:03, Seven Days), brani ritmici (More Than Times e Nessie), brani free (Momento e More Than Times, dalla duplice veste) ma anche latin (Villero) e Mediterranean Clouds, quest’ultimo uno dei miei brani preferiti perché per scriverlo ho attinto dalla musica mediterranea alla quale sono intimamente legato.

Ora parliamo di un quartetto, prima era un trio con ospiti. Quel trio è da ritenersi in soffitta?

No, come formazione il trio mi attira sempre e sto già iniziando a pensare alcune nuove composizioni da eseguire in trio. La promozione di «Human Being» mi ha impegnato per due anni; due anni intensi nei quali oltre che produrre il disco ho prodotto anche le tournée che ne sono seguite. Per me è importante l’alternanza, così dopo un disco solista ed uno in trio eccone un altro solista con un quartetto veramente speciale. Adesso voglio concentrarmi nella promozione di questo lavoro, e con calma pensare a cosa seguirà; quello che è sicuro è che con Andrea c’è un ottimo feeling sia umano che musicale e per questo disco abbiamo fatto un grande lavoro di team: Jesper, Andrea e Antonio sono stati fantastici, hanno suonato benissimo e anche il risultato sonoro è ottimo (abbiamo registrato al Tube Recording Studio per Erl). Se poi pensiamo al percorso dei chitarristi, è decisamente più a zig-zag rispetto a quello di un pianista: la chitarra è uno strumento particolare e come chitarrista sono sempre attratto da nuovi linguaggi e possibilità, così anche la mia scrittura è sempre in evoluzione.

La circostanza che ti abbiano paragonato dal punto di vista compositivo a Pat Metheny ti imbarazza oppure non ti trova d’accordo o, semplicemente, ti fa felice?

Quando l’ho letto mi ha fatto felice: è stata una recensione molto positiva del primo disco da solista. Imbarazzato no, perché ho sempre avuto e ho la semplicità di sapere cosa posso fare e cosa non posso fare, chi sono e chi non sono, e ho sempre vissuto queste occasioni come fonte di stimolo. Ovviamente nella musica di qualsiasi musicista e compositore ci sono dei rimandi a qualche artista che ne ha segnato l’adolescenza e/o il percorso; così è stato per me con Metheny ma anche con Sting, Donald Fagen, Bill Evans, Gil Evans, Youn Sun Nah, Ulf Wakenius, Noa, la musica popolare siciliana, per citarne alcuni. E’ stato un paragone interessante e il sentimento che potevo provare non poteva che essere di felicità; poi vado per la mia strada consapevole che il mio percorso è diverso e che ogni giorno devo lavorare sodo per fare quello che desidero.

Dai precedenza alla melodia rispetto a tutto il resto. Se manca quella, manca tutto?

Sì. La melodia è la chiave della mia musica, le armonie sono per me i colori che servono ad arricchire le melodie. Per altri versi ho sempre ascoltato musica molto melodica, classica, jazz o popolare che fosse senza distinzione e ho capito che la melodia italiana è sempre stata al centro dei pensieri di molti musicisti. Non riesco a pensare un brano senza una melodia, magari è un mio limite o forse è una mia caratteristica; ho sempre l’esigenza prima o poi di ricondurre tutto il discorso ad una idea melodica che sia all’inizio, in mezzo o alla fine del brano.

Al di là della tua appartenenza geografica, pensi che le tue composizioni risentano più della matrice europea o di quella americana?

In questo lavoro decisamente della matrice europea: il jazz europeo è oramai un genere ben definito con canoni molto chiari. Si attinge molte volte dal tessuto della musica folkloristica, altre volte da idee e stimolazioni sonore della vita di tutti i giorni. Inoltre da italiano non posso che attingere al repertorio della melodia italiana e più in generale guardare alle musica del mediterraneo, in particolar modo a quelle del Medio-Oriente (Mediteranean Clouds è proprio pensata su queste caratteristiche). Il jazz europeo si sta quindi definendo per caratteristiche proprie, se vogliamo anche differenti da quelle americane ma anche questa volta non penso a compartimenti stagni e trovo interessante la possibilità di muoversi tra questi due grandi mondi musicali con libertà; così ad esempio Nessie, che fa parte del nuovo disco è un brano decisamente di influenza americana, non mainstream, ma che non può essere europeo a differenza di altre ballad come Inside The Blue, Seven Days, L’astronauta e Mediterranean Clouds, che invece sono nel solco della musica acustica jazz europea.

Tutti i brani recano il tuo sigillo, tranne Momento, che è un momento di improvvisazione collettiva. Sempre moderata e con una linea melodica accennata. L’improvvisazione vera e propria è fuori dalle tue corde?

Abbiamo catturato un momento, un attimo di libera improvvisazione nel quale dialoghiamo, ci accavalliamo tra chitarra e pianoforte. E’ l’inizio di qualcosa, chissà! Prima dello scorso anno non suonavo affatto free jazz; sto imparando a frequentare un mondo musicale che non pensavo mi appartenesse. Quando si suonano questi brani è già improvvisazione pura, si coglie l’attimo e questa volta l’attimo aveva questo suono. Nel disco ho utilizzato Momento come interludio tra una ballad e un’altra.

Rispetto a «Lanes», oltre che a «Human Being» la tua musica manifesta un deciso cambiamento. E’ un momento evolutivo oppure è questa la direzione che hai intrapreso?

Potrebbe essere entrambe le cose, perché un momento evolutivo è fisiologico in ogni musicista ma al tempo stesso una evoluzione segna una rotta sulla quale continuerò a esplorare mondi musicali nuovi e che mi affascinano. Penso che la direzione che ognuno di noi prende indichi solo il modo con il quale rileggiamo gli avvenimenti ed eventi esterni.

Filippo, qual è stata la tua formazione?

Ho iniziato a studiare chitarra classica verso i sette anni e mezzo, successivamente al regalo di una chitarra classica 3/4 da parte dei miei genitori. Ho studiato classica per otto anni per poi passare alla chitarra elettrica, strumento che non ho mai abbandonato, affrontando prima il repertorio della musica rock, hard rock e successivamente quello blues, funk e jazz. Nel frattempo ho iniziato ad essere ingaggiato per i primi lavori professionali. Contemporaneamente ho continuato a studiare chitarra privatamente e dopo le lauree triennale e specialistica in Dams e discipline della musica ho conseguito la laurea cum laude al Conservatorio Martini sotto la guida di Tomaso Lama. La mia formazione musicale è anche frutto delle collaborazioni che ho avuto e che ho tuttora con grandi musicisti e cantanti.

Chi è il tuo musicista di riferimento e (salvo che non coincida) il tuo chitarrista di riferimento?

Attualmente il chitarrista che ascolto di più è Ulf Wakenius, secondo me l’esponente di maggior spicco per tecnica e innovazione del linguaggio che la chitarra abbia avuto negli ultimi anni. Contestualmente apprezzo moltissimo Youn Sun Nah, anche lei secondo me una innovatrice dello strumento voce. I musicisti di riferimento sono molti, attualmente direi Lyle Mays e Pat Metheny, Ralph Towner, Gil Dor, Vijay Iyer, Noa, Mira Awad, Sting, Andy Summers, Paco de Lucia, Al di Meola, Wayne Shorter, Ornette Coleman. Ascolto tantissima musica, cerco di essere il più aperto possibile verso tutti i linguaggi o almeno verso quelli che penso possano influenzare positivamente il mio.

Sei anche ideatore e direttore artistico del Roero Festival. Ce ne parleresti? Quali sono le difficoltà che incontri nel gestire il festival?

Il Roero Music Fest è nato nel 2014 da una mia idea; sono coadiuvato nel progetto dall’associazione e scuola di musica moderna e jazz che ho ideato e fondato, l’associazione Milleunanota, e con la collaborazione dall’associazione Anforianus di Santa Vittoria d’Alba. L’idea è stata quella di unire un territorio, il Roero, affascinante per ricchezza di paesaggi, cultura e prodotti enogastronomici. Il festival ha luogo principalmente a Santa Vittoria d’Alba, dove disponiamo di un anfiteatro stupendo con un palco, ideato da Maurizio Sartore, che è unico nel suo genere, perché ha come sfondo una vela che si apre sulle colline del Roero e delle Langhe, da poco divenute patrimonio dell’umanità Unesco. Ci muoviamo poi per alcune date in borghi caratteristici del territorio. Siamo un team affiatato e in due anni abbiamo realizzato qualcosa di incredibile se pensiamo che nel territorio Roero non era mai stato fatto nulla del genere. Faccio un lungo lavoro di ricerca delle proposte artistiche da portare al festival, perché così intendo il compito di operatore culturale: sento di avere la responsabilità di far conoscere tutte le sfaccettature della musica jazz di oggi e così non siamo un festival tematico mono-genere ma siamo aperti ad ospitare ottimi musicisti di estrazione jazzistica e musicale differenti. La stessa politica culturale ma con una attenzione dedicata alla jazz di produzione italiana la adotto nella rassegna Jazz&Co, che si svolge nel mese di ottobre. Il Roero Music Fest è quindi sin dalla sua fondazione un festival internazionale, aperto ai linguaggi del jazz europeo e americano, e vedere l’anfiteatro pieno tutte le sere, con affezionati che ritornano e portano nuovi amici come pubblico è qualcosa di incredibile e fantastico. Stiamo crescendo, abbiamo molte cosse da imparare ancora ma sappiamo che abbiamo tracciato una buona rotta; il paese di Santa Vittoria d’Alba è stupendo ed è da visitare. L’edizione del 2016, la terza, sarà tutta da vedere e da sentire! Non sono abituato a vedere il bicchiere mezzo vuoto, quindi nonostante sia evidente che ci sono delle difficoltà, trovo che se i preventivi di spesa sono in linea con i consuntivi reali, se si crea un ottimo team di lavoro, se si agisce in un territorio dove la parola collaborazione non è una parola vuota, dove tutti i musicisti, collaboratori e cittadini sono disposti a creare qualcosa di incredibile, allora questo avviene al di là delle difficoltà che si possono incontrare: sarei un ipocrita a dire che non ci sono momenti complessi o difficili nella gestione di un festival grande, importante e che coinvolge e mette in gioco un territorio; ma se da un lato sono convinto che necessiti volgere in positivo ogni pensiero e azione, dall’altro penso che dobbiamo giocare con le regole che ci sono in questo momento, attivandoci con i mezzi comunicativi, politici e culturali che abbiamo per cambiare eventualmente quello che pensiamo funzioni male o meno bene di altro.

Secondo quali criteri selezioni gli artisti?

Ovviamente cadiamo nel discorso della soggettività ma cerco il più possibile di essere equidistante da quello che mi piace. Così i criteri più oggettivi che ho individuato sono l’originalità del progetto e l’innovazione che il progetto che mi interessa porta al festival di cui sono direttore artistico. Ho individuato queste due strade pensando e credendo che siano le caratteristiche migliori per le rassegne jazz di cui sono direttore artistico: Jazz&Co è dedicato alla produzione jazz italiana acustica, e il Roero Music Fest ai linguaggi jazz internazionali.

A quali altri progetti stai lavorando e quali sono i tuoi prossimi impegni?

Sarò impegnato nella promozione del disco «L’astronauta» con alcune date di presentazione in Italia e all’estero. A fine settembre sarò in Germania, a Berlino, per alcuni concerti, poi il 28 ottobre presenterò il disco ufficialmente all’auditorium di Settimo Milanese per la rassegna Dancing On The String ideata da Antonio Ribatti. In estate continuerò a scrivere nuove idee; da settembre definiremo meglio i tempi e le modalità ma sarà pubblicato il mio metodo di chitarra acustica baritona per fingerpicking, e sto contemporaneamente pensando a un disco in chitarra sola.

In veste di musicista, invece, quanto è difficile riuscire a suonare in Italia?

Lo dico con molta tranquillità: non più difficile che suonare in altri posti. Ovviamente ci sono paesi dove la collaborazione e la concessione di spazi è più semplice ma non dobbiamo pensare che il problema della musica dal vivo sia solo italiano. Secondo me le questioni sono due: da un lato chi gestisce gli spazi e dall’altra chi degli spazi ha bisogno per promuovere il proprio lavoro. Trovo che a volte manchi il giusto peso e la conoscenza culturale e la responsabilità di fare delle scelte coraggiose e non scontate da parte di chi ha la possibilità di offrire spazi; così, progetti molto interessanti a volte non riescono a trovare le giuste occasioni per fare promozione. Ogni giorno trovo qualche ostacolo ma cerco sempre di pensare a un modo per superarlo, e giorno dopo giorno vedo che la situazione migliora; ci vuole tempo ma il proprio circuito prima o poi arriva e il proprio pubblico anche. Da un altro punto di vista siamo noi nuove generazioni a dover capire come relazionarci con un mondo musicale in cambiamento, comprendendo che il nostro lavoro ora è anche e soprattutto fare imprenditoria.

Alceste Ayroldi