Bill Frisell Trio

Bill Frisell con Thomas Morgan e Rudy Royston alla Casa del Jazz di Roma, 19 luglio 2021.

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Il concerto del trio di Bill Frisell – che si annunciava come uno dei più attesi dell’intera rassegna estiva di Villa Osio – ha rischiato di essere irrimediabilmente rovinato da un violento acquazzone nel tardo pomeriggio che, senza portare un reale sollievo alla calura soffocante, ha aggiunto l’imprevisto assai poco gradevole dell’acqua un po’ ovunque e, nell’umidità divenuta fattore di assoluto dominio ambientale, ha creato un’atmosfera elettrica e straniata, nella quale la prima parte del concerto si è trovata come impigliata, catturata in una bolla. Tutto estremamente corretto e gradevole, e come da programma (quello in gran parte tratto da «Valentine», l’album del 2020 che ha segnato l’esordio discografico del trio), in una dimensione molto raccolta, nel pieno della privateness friselliana, ma con un suono un po’ trattenuto e «piccolo», che faticava a squarciare l’aria spessa della serata. Dopo la mezz’ora, però, una frustata di alta tensione direttamente dagli anni Ottanta ha invertito la tendenza, irrobustendo la condotta dei tre e scuotendoli dal camerismo assorto («Una preghiera a Sankt Manfred funziona sempre», qualcuno ha detto ironicamente dopo): così la Musica si è impadronita del terreno, decollando. Sono emerse le qualità del gruppo, la comprovata dimensione di interplay che lega i tre compagni di viaggio, non soltanto frutto della profonda relazione che intercorre tra il leader e Morgan, cementata in tanti contesti, ma anche della perfetta rispondenza che le melodie del chitarrista trovano con l’elastico beat di Royston, che sa esprimere un radicamento terragno e rurale naturalmente accordato alla «americanità» di Frisell e dei suoi progetti musicali. La Musica, alfine, rimane la cosa più importante e conferma come la specifica cifra autoriale del chitarrista – maturata in oltre quarant’anni di magnifica carriera che ne hanno fatto un’icona – sia esattamente nella fitta congerie di materiali e suoni eterogenei (jazz, rock, country, Americana music, avanguardia) che popolano il suo baule di artista, in una sorta di bulimica totalità. Così è pure per gli stili, che sono stati offerti tutti, al pubblico: la dolcezza melodica di un mondo (apparentemente) spostato altrove, le suggestioni cinematografiche e quelle monkiane, l’evocazione di spazi assolati, uno sguardo che cade sempre malinconico e introspettivo sulle cose, l’idea di un tempo sospeso. Tutto è ricondotto ad unità dalla gigantesca statura artistica del leader e dall’encomiabile modo in cui i tre riescono a stare insieme: Morgan, con la capacità ampiamente sviluppata nel tempo di suonare con Frisell (filtrando persino negli interstizi della sua musica, assecondando con la propria stralunatezza quella del leader, ma in qualche modo ricomponendola con la sua cantabilità sempre intonatissima) e Royston, con doti non comuni di raffinatezza, unite al costante vigore di una potente grazia. Sui tre si può soltanto osservare, ammirati, che travalicano ampiamente la nozione di interplay, suonando sempre come un solo musicista, e proprio in questo modo, senza inutile affettazione, hanno offerto al pubblico, tra l’altro, belle versioni di  Levees, Ghost Town, Winter Always Turn To Spring, Rambler, Resistor, Baba Drame (uno dei vertici emotivi del concerto), You Only Live Twice (il «James Bond Theme» della serata, reso, come spesso avviene, in una versione scarnificata e astratta), oltre all’incanto sempre coinvolgente, proposto giusto in chiusura, di We Shall Overcome e What The World Needs Now Is Love.

Sandro Cerini