Cagliari, al “Fpj” le “Connections” di Bosso e Giuliani e la luminosa stella di Matteo Mancuso

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Fabrizio Bosso con Rosario Giuliani, Gurrisi e Valeri al festival di Cagliari (foto Agostino Mela)

E’ un incontro che genera autentiche scintille, quello tra due primedonne del jazz italiano, il trombettista Fabrizio Bosso, in questo momento dotato di un particolare stato di grazia, e una certezza assoluta come il sassofonista Rosario Giuliani. Assieme sul palco ne fanno di tutti i colori e il live scorre via come un bicchiere d’acqua fresca in una giornata d’estate, scaldando gli animi e facendo il botto grazie a swing e melodia prodotti in quantità industriale in virtù di una intesa ad alti livelli. Forse una delle più accattivanti ed eccitanti del momento in Italia. Il connubio tra i due musicisti è datato da tempo, corroborato da una solida amicizia, eppure ogni volta i due riescono a sorprendere per l’energia e la potenza di fuoco messa in campo: pura dinamite. Splendido sigillo esplosivo quindi per la ventitreesima edizione di Forma e Poesia nel jazz, organizzata a Cagliari dall’omonima cooperativa, conclusasi nei giorni scorsi con singolari appuntamenti a contatto con la natura e luoghi archeologici.

Fabrizio Bosso e Rosario Giuliani in un duetto al festival “Forma e poesia nel jazz” di Cagliari (Foto Agostino Mela)

“Connections”, questo il titolo dello show dal vivo di Bosso e Giuliani è costruito su una scaletta ben oliata dove entrambi i jazzisti imbandiscono feelings e abilità strumentali coadiuvati da due partner di livello come Alberto Gurrisi, un virtuoso dell’organo Hammond che ha regalato al concerto dei colori seventy, e il batterista Marco Valeri, macchina del ritmo. Il concerto è un percorso fatto di emozioni diverse, un saliscendi continuo, costruito da momenti euforici proposte a ritmo sostenuto accanto a nostalgie liriche con i due impegnati ad alternarsi con brani di loro composizione in cui trovano ampio spazio lgli inserimenti dell’organista Gurrisi che impreziosisce le architetture musicali spesso incalzando i due solisti con trovate originali e fuori schema.

Alberto Gurrisi all’organo Hammond è stato protagonista di una grintosa performance con Bosso e Giuliani (foto Agostino Mela)

Bosso dà tutto se stesso in funambolici e potenti assolo dove a tratti sembra inseguire la lezione del grande Freddie Hubbard di cui in chiusura ha offerto una bella versione di “Little Sunflower”. Fraseggio fluido, lirico e a tratti intimista il sassofono di Giuliani dove in controluce si legge la lezione dei suoi maestri, da Pepper ad Adderley, ma a tratti, improvvisi appaiono anche i debiti con Phil Woods. Apertura del set nel segno di Giuliani con il quartetto che propone in successione: “Fabrizio’s Mood” verosimilmente dedicata proprio a Bosso, “A Winter Day” e “More Than Ever”. Dal canto suo Bosso rilancia con “Dubai” e “Good News” seguiti da “Walkin Around” e “Coffee Shop” di Giuliani. Omaggio molto sentito a Zawinul in una intensa riproposizione molto funky di “74 Miles Away” (il brano diede il titolo all’album live del quintetto dell’altosassofonista Cannonball Adderley inciso per la Capitol nel 1967) con Bosso e Giuliani in grande spolvero che producono un bel flusso sonoro d’insieme in grado di revocare l’atmosfera di certe jazz session degli anni tra i Sessanta e Settanta. Davvero un grande set di cui probabilmente resterà traccia in un album previsto per il prossimo anno.

Il pianista Danilo Rea in trio con Massimo Moriconi e Alfredo a “Fpj”  in un intenso omaggio a Mina (foto Agostino Mela)

A proposito di affiatamento, quasi leggendario quello tra il pianista Danilo Rea, il bassista Massimo Moriconi e il batterista Alfredo Golino che per il programma di “Forma e poesia nel jazz” hanno offerto il loro ineccepibile set dedicato alla musica italiana e in particolare un omaggio sontuoso alla immensa Mina in “Tre per una” composito puzzle di brani cantanti dalla più importante vocalist italiana in momenti diversi della sua lunga carriera. Non è un caso che questo progetto sia stato partorito da tre jazzisti che hanno suonato a lungo con la vocalist. Il concerto è così, sia uno scintillante omaggio per gli ottanta anni all’artista cremonese come un amarcord di motivi che hanno fatto grande la canzone italiana degli anni Settanta. Spiccano tra tutti i brani del geniale Lucio Battisti, compositore amatissimo da Mina. Iniziando da “Non credere” reso in modo drammaticamente teatrale dal trio, “Insieme” e l’immensa “Amor mio”, trasformati in godibile e raffinato jazz. E le atmosfere “jazzy” dipingono un successo evergreen come “Grande Grande Grande” di Tony Renis, l’intrigante motivo di Bruno Canfora, “Vorrei che fosse amore”, l’indimenticabile “Parole Parole” di Gianni Ferrio che Mina portò al successo in duo con l’attore Alberto Lupo. Coda finale con la canzone d’autore italiana. Quella del grande Luigi Tenco,Un giorno dopo l’altro” e ancora un grande Battisti, “Il tempo di morire”Ma oltre ai set di jazzisti dalla fama consolidata come Bosso e Giuliani, e il trio Rea, Moriconi, Golino, “Fpj”, come tradizione ha regalato delle belle sorprese con l’esibizione di due giovani di sicuro successo come il sassofonista sardo Elias Lapia e il chitarrista siciliano Matteo Mancuso.

Il sassofonista sardo Elias Lapia ha presentato al festival “Fpj” di Cagliari il suo album “The Acid Sound”

Il primo, a cui è andato lo scorso anno il Premio intitolato a Massimo Urbani, alla guida di un quartetto di buona intesa costituito dall’ottimo pianista Mariano Tedde assieme al contrabbassista Salvatore Maltana e il batterista Massimo Russino, ha evidenziato in apertura di rassegna la buona tecnica e il fraseggio armonioso e fluente del giovane leader. Il concerto era anche l’occasione per la presentazione del debut album battezzato “The Acid Sound” inciso per la Emme record dove il sassofonista venticinquenne mostra una interessante capacità compositiva di originals sciorinando dal vivo un suono acido, spigolosamente essenziale. Lapia costruisce impalcature di swing come luoghi dell’anima che a momenti evocano Sonny Stitt come Joe Henderson. Il set dal vivo ha offerto così una scaletta all’insegna del buon ritmo ed energia. Dalla swingante “Pumpin at Blackgate” che apre anche il disco alle successive “Girl’s Mood”, intima e delicatamente bluesy, “One Night at the “Pierre””, notturna e dall’incedere incalzante, “King’s Day”, una gradevole bossa nova. Il set continua con un trascinante “Blues Song for Mental Health”, le intriganti “Out of Samsara” e “The House” per chiudersi infine con il sassofono in bella evidenza, nervosamente a tutto swing in “Doctor S”.

Il chitarrista siciliano Matteo Mancuso in azione con il batterista Giuseppe Bruno a Cagliari (Foto Agostino Mela)

Autentica rivelazione è quella di Matteo Mancuso chitarrista virtuoso, figlio d’arte (il padre è Vincenzo) già da tempo conosciuto in ambiente rock, di recente stabilmente planato verso territori jazz fusion dove la sua maestria nel padroneggiare suoni e arpeggi ha trovato modo di risplendere di luce propria. Dotato di una tecnica molto particolare (Mancuso non usa il plettro ma le dita con cui produce dei “pinch harmonies”) riesce immediatamente a suscitare in chi ascolta stupore non solo per il virtuosismo abbinato alla giovane età (ha iniziato a suonare all’età di dieci anni) ma anche per la vasta ed enciclopedica conoscenza della musica, così come quella dei guitar heroes che hanno influenzato i suoi percorsi musicali: dall’onnipresente Eddie Van Halen, da sempre punto di riferimento per neofiti della chitarra rock a Wes Montgomery, Django Reinhardt e Scott Henderson per il jazz. Mancuso si è presentato sul palcoscenico dell’Auditorium di Cagliari per il live programmato al “FPJ” in trio assieme a due giovani e validissimi partners _ Stefano India al basso e Giuseppe Bruno alla batteria _ aprendo molto significativamente con “Fred”, un brano del chitarrista inglese Allan Holdsworth, uno dei più influenti e importanti della musica jazz rock (ha fatto parte dei gruppi tra i più sperimentali del “prog” britannico, dai Soft Machine ai Gong) per le sue idee e soluzioni musicali.

Matteo Mancuso durante il live all’Auditorio di Cagliari per il festival “Fpj” (Foto Agostino Mela)

Mancuso rilegge il tune con una fedeltà impressionante e allo stesso tempo ne interpreta in modo attuale suoni e arditi cambi di atmosfera del pezzo originale. Stessa sensazione provata per il successivo “Footprints”, un classico del jazz rock, opera del geniale Wayne Shorter che testimonia anche l’interesse di Mancuso nel confrontarsi e prendere ispirazione dai sassofonisti come Lovano o Shorter stesso. E occorre dire che qualsiasi sia il brano prescelto è incredibile la resa dal vivo delle riscritture in diretta orchestrate da Mancuso. E’ così per un altro mostro sacro della chitarra, il geniale Jaco Pastorius di cui il musicista siculo propone una esaltante versione di “Havona” e lo stesso accade con un altro pezzo da leggenda del blues rock, “Led Boots” di Jeff Beck. Matteo Mancuso è un vero leone della chitarra. Concentrato e preciso, muove le mani sulla tastiera a velocità supersonica, scegliendo sempre con oculatezza effetti e cambi di tono. Ama sorprendere pure in modalità soul come accade con il brano di un altro sassofonista, “The Chicken” di Pee Wee Ellis, un pezzo da novanta per gli appassionati del funky jazz. E trova anche il modo di rendere tributo al suo vero primo maestro, il padre Vincenzo di cui propone “Campagne siciliane”, “Blues for John”, “Polifemo” e “Corde libere”.

Matteo Mancuso, il giovane chitarrista ha mostrato bella tecnica e capacità improvvisata (Foto Agostino Mela)

Ultima “cover” di lusso una trascinante “Black Market” dei Weather Report dove Mancuso espone classe da vendere. Da chi ha preso questo nuovo talento? Un po’ da tutti per quanto riguarda i chitarristi contemporanei: dallo stesso Holdsworth a Pat Metheny. Da tutti ma da nessuno in particolare _ anche se volendo qualche riferimento si potrebbe trovare con John McLaughlin, quello più ricercato e sperimentale della prima Mahavishnu Orchestra _ anche perchè questo straordinario chitarrista siciliano che conta già schiere di fans in America come in Russia nei fatti ha elaborato un proprio personalissimo stile fatto di tecnica sapiente, fluidità magistrale negli arpeggi e bella capacità improvvisativa. Ne sentiremo parlare ben presto. Fpj, come di consueto ha dato ampio spazio ai musicisti locali mostrando interessanti proposte di giovani talenti come la vocalist Carla Giulia Striano esibitasi sia con l’Interplay trio assieme ad Andrea Schirru alle tastiere e Francesco Oppes alla batteria che con il chitarrista Rubens Massidda in un singolare concerto al chiaro di luna al termine di una passeggiata ecologica. Ma spazio è stato dato anche a protagonisti storici del jazz regionale come il bravissimo chitarrista Massimo Ferra e il contrabbassista Alessandro Atzori esibitisi in trio con Marco Cocco cantante dal bel piglio “crooner”.

Il trio di Matteo Mancuso, Stefano India e Giuseppe Bruno al termine del loro applaudito live a Cagliari (foto Agostino Mela)