E già, perché se i primi due libri di cui ci apprestiamo a parlare narrano l’affascinante vissuto di due grandi musicisti: Stéphane Grappelli e Giovanni Tommaso (ovviamente, storie vere), il terzo scritto ci racconta le bizzarre vicende di un Louis Armstrong tra il vero e il faceto.
Iniziamo da quest’ultimo, «Una faccia già vista» di Roddy Doyle (Guanda, Milano, 2021, pagine 441; euro 14), il cui protagonista è Henry Smart, un irlandese che emigra negli Stati Uniti. Anzi, no: il protagonista è Louis Armstrong, che fa di Smart il suo fido valletto. In realtà, i protagonisti sono entrambi: sicuramente Satchmo è il coprotagonista di questa storia che, prima facie, sembrerebbe strampalata, ma è ricca di particolari storici significativi, di suspence, di violenza e sesso al punto giusto. Henry Smart arriva a New York con un bastimento carico di immigrati alle soglie degli anni Venti del Novecento. Qui deve fare i conti con la malavita italiana, quella dei suoi connazionali, con il proibizionismo, con la dilagante corruzione, con la povertà. Scappa da New York inseguito da dei malfattori per trovare rifugio a Chicago dove, per mano di una seducente high yellow, conosce Armstrong, il quale rimane folgorato dalla personalità di Smart e lo recluta, affibbiandoli il nomignolo O’ Pops. Due terzi di questo intrigante romanzo suonano jazz per mano di Satchmo, ma anche di Lil Arlin, di Earl Hines, degli Hot Five. Si sente la puzza del razzismo di quegli anni, ma non sventolato: si intuisce, si percepisce a chiare lettere. Citazioni (o presunte tali) storiche fanno bella mostra e ottimamente contestualizzate. Doyle è bravo anche nel dipingere la genesi dei brani nelle esecuzioni dal vivo di Armstrong; d’altro canto il suo legame con la musica lo si legge già da The Commitments, che ha avuto anche una decisa fortuna cinematografica. Insomma, un bel libro dalla narrativa avvincente, scritto con competenza, professionalità e profondo rispetto della storia e del jazz. La prima stampa italiana di questo libro è del 2005.
Le storie vere, invece, sono quelle che hanno macinato chilometri e chilometri di musica. Iniziamo dal glorioso passato di chi ha forgiato un nuovo linguaggio jazzistico insieme al suo compagno d’armi Django Reinhardt: messieur Stephane Grappelli, autore di In viaggio con il mio violino, scritto da Grappelli con la collaborazione di Joseph Oldenhove e Jean-Marc Bramy (Ottotipi associazione Gottifredo, Noventa Padovana, 2020. Pagine 188; euro 20). Il più grande violinista della storia del jazz, ma anche eccellente pianista e ottimo sassofonista. Stéphane Grappelli è tutto questo. E tanto altro, tutto condensato in poco più di centottanta pagine che scivolano via con gustosa semplicità. Aneddoti a profusione, illuminanti situazioni che ci lasciano capire come nascevano i gruppi (il leggendario Hot Club de France); come si consumavano le amicizie. Qui c’è tutta la storia della Francia: dalla Prima Guerra Mondiale agli anni Novanta. Ma c’è anche la storia di una bella fetta di mondo (Italia compresa), perché Grappelli amava girare il globo in lungo e in largo, non si tirava mai dietro alla proposta di viaggiare per fare musica. C’è lo splendore di Grappelli in coppia con Django Reinhardt, e la tragedia della morte di un amico; e l’altra faccia della medaglia: i tempi grami e cupi in cui Grappelli suonava per lo più il pianoforte, lì dove capitava. Ci sono gli incontri straordinari dell’autore con George Gershwin, Jean Cocteau, Lucky Luciano, Bing Crosby, per il quale – inconsapevole di chi fosse – fece da cicerone nella Parigi alcolica. C’è spazio per il soggiorno italiano di Grappelli, tra Firenze, Napoli e Roma; nella capitale incontrò l’attivissima Bricktop (con lei già in amicizia dai tempi parigini) che aveva aperto un locale in via Veneto. A Firenze suonò come pianista all’hotel Excelsior, anche per il matrimonio tra Linda Christian e Tyron Power e qui suonò anche per Clark Gable. I passaggi letterari sono ben torniti dai curatori Oldenhove e Bramy, che sottolineano ogni epifania dell’autore, anche per mano di interventi spontanei a firma di Martial Solal, Claude Charpentier, Jean Sablon, Frank Tenot, Evelyne Grappelli, George Shearing (con il quale ha condiviso musica e amicizia), Lucienne Gély, Jean-Luc Ponty, Marc Hemmeler, Sacha Distel, Michel Chouanard (suo agente dal 1972). E sono tante le avventure che questo signore di poco più di ottant’anni (tanti all’epoca della stesura del testo) racconta con un fluire letterario pari a quello delle immarcescibili note che ha dispensato nella sua carriera. La coda è riservata alla sua Alatri, terra d’origine della famiglia di Grappelli: una famiglia ben in vista, tanto che il nonno (e altri ascendenti) avevano ricoperto anche l’incarico di primo cittadino. La chiusura è della giornalista Paola Rolletta, alla quale spetta il merito di aver portato in Italia un libro prezioso, da ogni punto di vista.
Chiude il trittico la bella e consistente opera di uno dei maestri del contrabbasso jazz, con tutta la spontaneità che lo caratterizza da sempre: Giovanni Tommaso. «Ho intitolato il mio libro Abbiamo tutti un blues da piangere, perché mi piace e anche perché, ripensando a certi episodi della mia vita, ricordo bene quanto abbia sofferto vivendoli. Fortunatamente, posso dire che si è trattato di episodi sporadici. E comunque, con il blues si può anche ridere.». Ecco le parole di Giovanni Tommaso che chiudono la sua prefazione (l’altra è a firma di Barbara Alberti) e spiegano l’arcano del titolo. E’ un libro che tutti devono leggere: in reparti anagrafici. Gli âgée per spolverare la memoria; i giovani per capire quali sono i percorsi che i veri musicisti hanno dovuto intraprendere prima di diventare ciò che oggi sono. Il modo scanzonato e colloquiale del contrabbassista lucchese ci conduce attraverso un buon spaccato della storia d’Italia, con le abitudini e i fatti nostrani dal 1941 a oggi, compresi i ricordi della guerra. Scopriamo che i genitori di Giovanni Tommaso erano dei musicisti in incognito: il padre, dietro la severità dell’essere intendente di finanza, nascondeva un talento pianistico, mentre la madre si dilettava nel canto. E così il Nostro ci lascia entrare nell’oratorio San Marco e nel Bar Livorno, ci fa imbarcare nelle navi da crociera e provare l’ebbrezza di essere un musicista per crocieristi, ci fa giungere negli Stati Uniti, ci lascia entrare nel Quintetto di Lucca e salutare Antonello Vannucchi e soci; ci presenta Chet Baker e conoscere la genesi dei Perigeo. Così anche la nascita dei seminari-corsi Berklee Umbria Jazz Clinics, che Tommaso dirige dalla nascita: ovvero da trentacinque anni. Ma, storia e storie a parte, ci sono tante riflessioni, tanti spunti vitali, come il capitolo X dal titolo Jazz e Classica: convergenze parallele? In questo libro c’è tutto, c’è tanto. E la lettura è sempre piacevole: scorre e fa riflettere sempre con il sorriso sulle labbra.
Alceste Ayroldi
Libri: Tre storie quasi vere
Firmate da Roddy Doyle, Stéphane Grappelli, Giovanni Tommaso.