Bergamo Jazz 2024: la cronaca

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Bobby Watson Quintet. © Luciano Rossetti / Fondazione Teatro Donizetti.

Siamo in pieno ventunesimo secolo, e indicare o intravedere una tendenza evolutiva nel jazz oppure decidere fino a che punto la sua creatività possa sostenere o influenzare altre arti, com’è avvenuto nel Novecento, si è fatto particolarmente difficile. Da diverso tempo, oramai, nel pentolone dell’idioma afro-americano può essere inserito di tutto; e la crisi dei linguaggi ha coinvolto anche il jazz. Le singole espressività e i guizzi creativi individuali hanno preso il sopravvento sui fenomeni collettivi, scomparsi forse definitivamente, e quello che ancora ci ostiniamo a chiamare jazz è appannaggio di individualità che – per fortuna – mantengono inalterata la capacità di ibridare costantemente differenti culture; approccio, questo, indispensabile a chiunque voglia utilizzare questa musica come veicolo della propria comunicazione. Anche grazie a queste individualità il jazz, e tutto ciò che gli ruota attorno, è ancora vivo e se la passa ragionevolmente bene. Così oggi l’improvvisazione radicale può convivere con il modern mainstream, le ricerche di certa classica contemporanea con il romanticismo introspettivo alla Brad Mehldau, l’hip-hop metafisico di Steve Coleman può dividere gli stessi ambiti della world music o dell’elettronica.

Foto di Elena Carminati

È questo il motivo per cui i festival di jazz hanno da tempo aperto le porte alle presenze più disparate, al punto che spesso il jazz, o almeno quello che siamo abituati a considerare tale nella sua accezione più classica, rappresenta semplicemente un passaporto attorno al quale ruota di tutto. Lo sanno molto bene gli organizzatori di Bergamo Jazz che, giunto alla quarantacinquesima edizione e affidato da quest’anno alla direzione artistica di Joe Lovano, continua a mantenere alto il livello delle proposte cercando di rappresentare al meglio – e in soli quattro giorni – quell’intreccio di mondi e di sensibilità che caratterizzano la musica che tanto ci appassiona.

Moor Mother e Dudu Kouaté. Foto di Elena Carminati.

Proviamo quindi a stendere un resoconto, più o meno dettagliato, di quanto è successo a Bergamo Jazz 2024. Il festival in realtà è iniziato domenica 17 marzo con la proiezione del film di Roger Vadim Sait-On-Jamais (in inglese No Sun in Venice, in italiano Un colpo da due miliardi), modesta pellicola che oggi è praticamente ricordata solo per la splendida colonna sonora scritta da John Lewis e incisa dal Modern Jazz Quartet. Mercoledì 20, poi, si è potuto vedere Lovano Supreme, il docufilm di Franco Maresco sul sassofonista presentato fuori concorso al Festival del Cinema di Locarno lo scorso anno. Ma il fiato alle trombe è stato dato giovedì 21 al Teatro S. Andrea con l’ottantatreenne pianista Dave Burrell, in splendida forma e alle prese con un piano solo in cui gli agganci alla grande tradizione della musica afro-americana erano evidenti e frequenti. Un fraseggio inquieto, il suo, assai articolato e con la tipica disinvoltura del grande performer.

Dave Burrell. © Giorgia Corti.

La sera, al Teatro Sociale, un eccezionale concerto del trio composto da Danilo Pérez al pianoforte, John Patitucci al basso elettrico e Adam Cruz alla batteria: un intreccio di Latin jazz e poliritmie groovy al servizio di una modernità piena di sfumature e colori che hanno riempito una tavolozza timbrica davvero ben disegnata. È seguita l’ottima performance di Fabrizio Bosso che, in quartetto con Julian Oliver Mazzariello al pianoforte, Jacopo Ferrazza al contrabbasso e Nicola Angelucci alla batteria, e alle prese con un modern mainstream di elevata qualità, ha ancora una volta dimostrato di essere un solista di livello internazionale e di non avere proprio nulla da invidiare a nessuno. Il suo fraseggio è ancora pulito, preciso, coinvolgente e, soprattutto, sempre più godibile.

John Patitucci, Danilo Pèrez, Adam Cruz. Foto di Elena Carminati.

Venerdì 22, all’Auditorium, il duo formato dalla poetessa-rapper Moor Mother (al secolo Camae Ayewa) e dal percussionista senegalese (ma bergamasco d’adozione) Dudu Kouaté ha mostrato di saper attraversare con disinvoltura il confine tra avanguardia e slam poetry producendosi in un happening in cui territori sonori che strizzano l’occhio all’afro-futurismo – oggi di gran moda – hanno preso il sopravvento. La serata al Teatro Donizetti è stata invece aperta da John Scofield con il suo progetto «Yankee Go Home», che rivisita in modalità jazzistica alcuni classici del cantautorato folk-rock (Old Man di Neil Young, Mr. Tambourine Man di Bob Dylan) e di un certo blue-eyed soul (I Can’t Go for That di Hall & Oates). Concerto che ha però dimostrato, se ce ne fosse ancora bisogno, che a certe cose i musicisti di jazz – anche i maestri come Scofield – dovrebbero accostarsi con estrema cautela perché corrono il fortissimo rischio di fare un capitombolo. Ovviamente nulla da dire sull’abilità strumentale degli esecutori: oltre a Scofield, c’erano sul palco Jon Cowherd al pianoforte, il richiestissimo Vicente Archer al contrabbasso e Josh Dion alla batteria: ma l’esito ci è parso quasi sempre sfocato e, troppo spesso, inutilmente sopra le righe.

Tutt’altra musica, per fortuna, con il set di Miguel Zenón (con lui Luis Perdomo al pianoforte, Hans Glawischnig al contrabbasso e Dan Weiss, al posto del consueto Henry Cole, alla batteria): un’esibizione nervosa, fluida, frenetica, completamente moderna e priva della benché minima  sbavatura. Un gruppo di autentici fuoriclasse.

John Scofield e Joe Lovano. Foto di Elena Carminati.

Sabato mattina, all’Accademia Carrara, la flautista Naïssam Jalal – accompagnata dal contrabbassista Claude Tchamitchian – ci ha deliziato con la sua mistura di misticismo e tradizione medio-orientale: Jalal sa anche essere una fascinosa cantante, ma purtroppo quel giorno era alle prese con una fastidiosa raucedine e il pubblico di Bergamo non ha potuto godere delle sue acrobazie vocali. È stata poi una piacevole sorpresa constatare che non mancano le giovani leve in grado di mettersi in evidenza per uno stile fresco e inconsueto, e il giovane altosassofonista Raffaele Fiengo è una di queste. Nella costola «Scintille di jazz» curata da Tino Tracanna la sua esibizione è stata una ventata di novità e ha dimostrato che il jazz è un linguaggio che vale ancora la pena frequentare. Con Fiengo c’erano Thomas Umbaca al pianoforte, Enrico Palmieri al contrabbasso e Antonio Marmora alla batteria, tutti usciti da una vera fucina di talenti qual è il Conservatorio di Milano.

Louis Sclavis, Salvatore Maiore, Federica Michisanti, Michele Rabbia. © Giorgia Corti.

La sera del sabato, al Donizetti, abbiamo assistito a uno dei momenti più emozionanti del festival con il quintetto guidato dal veterano Bobby Watson, il quale è stato forse un po’ sottotono dal punto di vista strumentale rispetto ai suoi consueti ed elevatissimi standard ma resta comunque molto efficace e coinvolgente. Si è ascoltato un magistrale hard bop venato di soul con il trombettista (nonché figlio d’arte) Wallace Roney Jr, il pianista Jordan Williams, Curtis Lundy al contrabbasso e Victor Jones alla batteria. Una certa delusione l’ha lasciata invece il progetto di Don Moye dedicato alla musica dell’Art Ensemble of Chicago, in celebrazione del cinquantenario dello storico concerto che gli alfieri della Great Black Music tennero proprio al Donizetti nel 1974. C’era grande attesa per questo concerto, ma la performance ci è parsa davvero sfilacciata e priva di mordente, e ci ha procurato in più un’inquietante sensazione di revival che non rende giustizia alla portata innovativa di quella musica, la quale tutto avrebbe voluto tranne che lasciare il sapore di déjà entendu che si è avvertito sabato sera. Soprattutto irrilevante ci è parsa la presenza di Moor Mother che, quantomeno sulla carta, avrebbe dovuto invece fornire un contributo di forte contemporaneità.

Don Moye: Omaggio all’AEoC. © Luciano Rossetti / Fondazione Teatro Donizetti.

Ma la grande musica è tornata la domenica. Dapprima al Teatro S. Andrea, con Emanuele Cisi al sax tenore e Salvatore Bonafede al pianoforte: un gioco di rimandi e di dialoghi davvero emozionanti che sono culminati in una stratosferica esecuzione di My One and Only Love, mentre Joe Lovano (che è anche salito sul palco a duettare con Cisi), gongolava con visibile soddisfazione. Il pomeriggio la contrabbassista Federica Michisanti (recente vincitrice del nostro Top Jazz) con Louis Sclavis al clarinetto, Salvatore Maiore al violoncello e Michele Rabbia alle percussioni ha tenuto fede alle aspettative, con il suo jazz cameristico e dalle forti venature contemporanee. La sera si è aperta in bellezza – lo sottolineiamo con tutto l’incanto che può comprendere questa parola – grazie ad Abdullah Ibrahim, che ha mostrato una profondità e un’intensità emotiva davvero fuori dal comune: niente virtuosismi, semplicemente note suonate con la consapevolezza dei giganti. Il piano solo di Ibrahim, quella sera, ci ha riconciliato con la grandezza della musica, e i continui rimandi al suo For Coltrane sono stati una vera e propria delizia per le orecchie.

Abdullah Ibrahim. Foto di Elena Carminati.

Dopo i magic moments distillati da Ibrahim, invece, l’esibizione del Modern Standards Supergroup con Ernie Watts ai sassofoni, Niels Lan Doky al pianoforte, Felix Pastorius (figlio di cotanto padre) al basso elettrico e Harvey Mason alla batteria è stata una sorta di doccia scozzese: la modesta – a nostro avviso – performance di quattro supermusicisti alle prese con un manierismo superdatato. Ma qui c’entrano in qualche modo i gusti del vostro cronista, per il quale siffatti tentativi di fusion fuori tempo massimo sono come il fumo negli occhi.

Salvatore Bonafede, Emanuele Cisi, Joe Lovano. © Luciano Rossetti / Fondazione Teatro Donizetti.

In conclusione, Bergamo Jazz merita le nostre lodi sia per la qualità della musica proposta sia per l’efficienza della macchina organizzativa, grazie a Roberto Valentino e al suo indispensabile sostegno alla direzione artistica. Si è avuta fin dal primo istante la sensazione di trovarsi di fronte a una manifestazione studiata fin nei minimi dettagli e organizzata in maniera puntuale e precisa. La sfida era quella di mettere assieme i vari tasselli di un complicatissimo puzzle che potesse rappresentare il jazz nella sua dimensione più variegata. È stata vinta con successo; e, al giorno d’oggi, riuscire a far tutto questo con il criterio e con l’eleganza mostrati da Bergamo Jazz non è affatto semplice.

Nicola Gaeta