James Brown e il grande schermo

Nella serie di film polizieschi dominati da eroi afroamericani come Shaft e Superfly, o – in una chiave serio-comica – dai due irresistibili detective di Harlem usciti dalla fantasia di Chester Himes, trovò spazio anche la musica di James Brown

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Non sorprende che nella serie di film polizieschi dominati da eroi afroamericani come Shaft e Superfly, o – in una chiave serio-comica – i due irresistibili detective di Harlem usciti dalla fantasia di Chester Himes e sepolcralmente chiamati Gravedigger Jones e Coffin Ed Johnson, trovasse spazio – dopo quella di Isaac Hayes o Curtis Mayfield, Donny Hathaway o Marvin Gaye – anche la musica di James Brown. Al di là del prestigio di cui godeva in quei primi anni Settanta il visionario fantasista georgiano, c’era – nella danzante muscolarità del suo funk, nel suo rovente e sudato abbandono emotivo, nel gioco di ipnotici contrasti e stridori, nella sua angolare elasticità – uno specchio mirabile delle tensioni di Harlem e degli altri quartieri che facevano da scenario insieme torbido e vibrante per i blaxploitation movies e la violenta dinamica dei loro intrecci, per lo più giocati su conflitti tra mafia e vendicatori neri.

J.B. fu chiamato a commentare due significativi episodi del ciclo, entrambi del 1973. Nel secondo, Slaughter’s Big Rip Off ovvero Un duro al servizio della polizia, la musica del Godfather of Soul si adatta con pulsante e vigorosa grazia al frenetico andamento della vicenda dell’ex berretto verde (Slaughter, «massacro», alla sua seconda apparizione dopo Uomo mitra dell’anno precedente) interpretato dal quasi omonimo Jim Brown: nerboruto asso del football statunitense con un già cospicuo curriculum cinematografico, compreso Quella sporca dozzina del grande Robert Aldrich.

james brown
Slaughter’s Big Rip Off (1973)

La iniziale, lenta scorrazzata in auto di Slaughter tra le luci abbaglianti di Hollywood Boulevard è ben chiosata dall’organo e dai fiati dell’orchestra (popolata, per l’occasione, da illustri musicisti di studio) e dal suo respiro funky, che si associa perfettamente alle movenze, alla vistosa mise blu e alla voce dall’accento sudista del magnaccia Creole Joe, la cui verace esclamazione gergale – «Out of sight!» – evoca il titolo di un classico di J.B. del 1964; mentre la scena erotica in bianco e nero con l’esplosiva Judy Brown (e Slaughter che, senza particolare ironia, si autodefinisce «the baddest cat that ever walked the earth») trova nel blues e nella chitarra wah wah di David T. Walker l’ideale complemento sonoro.

Pochi mesi prima, sempre con la preziosa collaborazione del trombonista e arrangiatore Fred Wesley (e sempre con una stellare orchestra di studio), J.B. aveva prestato musica e voce a un film altrettanto brutale ma più tragico e tormentato nella figura del protagonista: Black Caesar (Il padrino nero), diretto dall’estroso Larry Cohen e lontano remake del classico pre-noir Little Caesar con Edward G. Robinson. Ascesa e caduta (e, nel frattempo, vendetta) di uno sciuscià di Harlem che riesce a strappare il territorio ai potenti del sindacato criminale, la pellicola ha un convincente interprete in un’altra ex stella del football, Fred «The Hammer» Williamson, a bad motherfucker il cui aspro groviglio di ambizioni ed emozioni viene amplificato dalle canzoni di Brown, con le sue magnetiche cornici strumentali e la sua vocalità torrida e carnosa, dalla grana spessa e dall’enunciazione slabbrata e lacerante.

Esemplare è il pezzo intitolato The Boss, un gioiello di funk dal respiro cauto ed elastico in cui il canto specchia l’orgoglio del personaggio per la conquistata notorietà (lo vediamo passeggiare lungo la Centoventicinquesima strada, sotto il marquee dell’Apollo, dove sono annunciati Wilson Pickett e i Chairmen of the Board), vantandosi di «aver pagato il prezzo per diventare il capo» (c’è l’evocazione, in una chiave distinta, del B.B. King di pochi anni prima) e magnetizzando l’attenzione sulla sua aura di antieroe («guardatemi bene, I’m a bad motherfucker»).

Linguaggio blues e immagine erotica vengono anche qui sapientemente combinati: mentre nella scena al cimitero che rivela la morte della madre del protagonista (profondamente onesta e religiosa, incapace di comprendere la frenesia di conquista ed emancipazione del figlio), su un pedale largo e ossessivo la voce di Brown si alza e dilata in un colore ambiguo, di creta bollente – «Mama’s dead, never no more to call my name» – suggerendo il senso di disperato smarrimento che si cela dietro il volto spietato del Cesare Nero.

James Brown
James Brown nel documentario The Tami Show, girato nel 1964

La presenza di Mr Dynamite sul grande schermo risaliva a un decennio prima, in contesti adolescenziali in cui la sua voce e la sua musica, cariche di blues e gospel, spiccavano per una qualità singolarmente adulta. Nel documentario The Tami Show, girato nell’autunno del 1964 al Civic Auditorium di Santa Monica di fronte a una vasta platea di adolescenti frementi e strillanti, il trentenne Brown demolisce con swingante ferocia emozionale la concorrenza in bianco e nero di rockers statunitensi e inglesi (dal maturo Chuck Berry agli acerbi Stones) e di giovani artisti Motown attorniati da go go dancers dalle movenze un po’ inutilmente frenetiche.

Presentato dai biondi surfers Jan & Dean come «the wildest guy in the business today», appare sul palcoscenico in giacca e panciotto a quadri, con un fittissimo pompadour che raddoppia le dimensioni della sua testa: i passi di danza sono lesti e dinamici, dalla strana grazia insieme controllata e posseduta, specchiati da quelli dei Famous Flames e stimolati dal pulsare della band.

Proprio Out Of Sight, celebrazione di una donna eccitante nelle forme e nei modi, apre il suo intenso concerto dando agli Stati Uniti una prima definizione bluesy del funk; segue un’appassionata quanto veemente versione di Prisoner Of Love, l’antica ballad legata al crooning ora soave ora rilassato di Russ Columbo, Perry Como, Billy Eckstine e tradotta in un arduo screaming da pulpito profano, lo stesso, fatto sanguinare in gola, che colora e dilania la classica, infuocata supplica d’amore, Please Please Please, strabordante e perfettamente coreografata con i tre Flames e culminante nell’invasamento erotico-spirituale: Brown che in pieno grido, microfono e asta in mano, il volto una maschera di sudore e tormento, cade drammaticamente in ginocchio e viene aiutato a rialzarsi e confortato con una mantella, un po’ da pugile suonato un po’ da principe ferito.

james brown
Locandina del film Sky party, commedia americana del 1965

Il finale è un ipnotico e incalzante invito al treno della notte, pretesto per il formidabile gioco di gambe del leader (e dei coristi), uno slipping and sliding dalla irresistibile, slittante fluidità di marionetta. Qualche mese più tardi, nell’estate del 1965, mentre Papa’s Got A Brand New Bag esplodeva dalle radio del ghetto, Brown appariva nel pastoso technicolor di Ski Party, eccentrica commediola studentesca con Frankie Avalon, girata tra le nevi dell’Idaho.

La scena è esilarante, quasi surreale: un infagottato J.B. entra con gli sci ai piedi nell’hotel di montagna, seguito dai Famous Flames che trascinano il corpo semicongelato dell’albergatore. Una delle studentesse gli chiede se davvero faccia parte del soccorso alpino e lui replica sorridendo: «Chi ti aspettavi? Rock Hudson?». Poi, sfoggiando un vistoso maglione natalizio, si scatena nel magnetico e febbrile I Got You (I Feel Good), che di lì a breve avrebbe dominato le classifiche rhythm’n’blues e introdotto la grande stagione del funky soul, commento agli umori più positivi dell’orgoglio nero, con l’orgia ritmica di Let Yourself Go, Cold Sweat, Say It Loud I’m Black & Proud.

Luciano Federighi

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