Fred Wesley: ora suono solo jazz, musica che mi stimola a percorrere sentieri nuovi

Da James Brown e George Clinton a Count Basie e al jazz: le mille facce di un maestro del trombone che ancora oggi, a 72 anni, continua a girare il mondo

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Fred Wesley foto di Roberto Cifarelli

È tornata da un po’ di tempo la moda dell’organ trio e l’Hammond ha ripreso il suo ruolo da protagonista come ai tempi del soul jazz di Jimmy Smith. Forse la crisi economica ha provocato l’esigenza di contrarre i costi, oppure si tratta semplicemente di un revival?
Non ne ho la minima idea Per quanto mi riguarda ho avuto l’occasione di conoscere un organista straordinario come Leonardo Corradi e un incredibile batterista, Tony Match. Assieme riusciamo a creare un suono originale, che non si era mai sentito prima semplicemente per il fatto che io suono il trombone. Di solito l’organ trio prevede l’utilizzo di un sassofono o di una tromba o di una chitarra. Usare un trombonista è assolutamente poco comune. Ma questo alla gente piace. Non avevo mai pensato al fatto che, essendo solo in tre, i costi sono ridotti e che in tempi di crisi come quelli che viviamo ciò possa rappresentare un vantaggio. Ma non giurerei che sia questa la ragione principale per cui l’organ trio ha ripreso il suo fascino nel jazz.

A proposito di jazz: assistendo alla sua serata si avverte che i brani funk sono ancora quelli che continuano ad esercitare un fascino forte sul pubblico. O almeno su di me, che sono un vecchio fan del funk. Come fa uno come lei – che col suono del suo trombone ha caratterizzato un’epoca – a riciclarsi nel jazz o almeno in quello che consideriamo tale nella sua accezione più classica?
Ho suonato funk per così tanto tempo che quasi non lo sopporto più. È proprio quello il genere di musica che oggi mi riesce difficile affrontare. In realtà adesso preferisco di gran lunga suonare jazz, un genere di musica che mi stimola a percorrere sentieri nuovi col mio strumento: e in questo mi sento sostenuto da questi due fantastici musicisti che alimentano con il loro contributo la mia creatività. Ho suonato così tanto funk in tutta la mia carriera che oggi mi sembra di non aver più nulla da dire sull’argomento.

Ogni volta che chiedo ad un giovane trombonista di parlare delle sue principali influenze stilistiche sullo strumento sento fare sempre i nomi di J.J. Johnson o di Jack Teagarden, magari qualcuno ricorda Curtis Fuller o Grachan Moncur III. Ma quelli che suonano funk citano Fred Wesley. E per lei, quali sono state le principali influenze sul trombone?
Ovviamente anche per me – non potrebbe essere altrimenti – la principale influenza è rappresentata da J.J. Johnson. Ma citerò anche Frank Rosolino, naturalmente, e poi Carl Fontana. Anche Bill Watrous ha lasciato un forte segno su di me. Ovvio che io non suoni come loro, anzi suono in maniera completamente diversa, ma il mio stile non è altro che una combinazione del loro modo di suonare. Credo di aver creato un suono riconoscibile sul mio strumento mischiando il mio approccio funk al jazz, e mi gratificherebbe molto oggi essere riconosciuto non solo come un trombonista funk ma anche e soprattutto come un jazzista a tutto tondo.

Lei è stato il bandleader di James Brown per un buon numero di anni. Raccontano le cronache che ha poi abbandonato la band fin dalla seconda metà degli anni Settanta. Com’è andata?
In realtà non sono stato così a lungo con James Brown. Solo quattro o cinque anni, a voler esagerare non più di sette. Ma abbiamo inventato una musica che ha lasciato il segno. Poi sono stato nell’orchestra di Count Basie, ho fatto del P-Funk con George Clinton…

Che ricordo serba oggi di James Brown? Qualcuno lo descrive come un conservatore, un reazionario…
Era proprio così. Si comportava come se sapesse in ogni momento cosa voleva, in realtà non sapeva neanche lui cosa aspettarsi di preciso dalla vita. Sostanzialmente era un rompicoglioni. Per lavoro ho dovuto averci a che fare e sopportarlo ma, nello stesso tempo, ho imparato moltissimo da lui. Aveva la capacità di tirar fuori il massimo dalle persone di cui si circondava, avventurandosi contemporaneamente in territori nuovi facendo delle cose che nessuno prima di lui aveva fatto.

Fred Wesley foto di Roberto Cifarelli

Adesso lei dove vive? Glielo chiedo perché è un po’ di tempo che la vediamo suonare in giro con musicisti europei… Vado ovunque vi sia un’occasione per poter suonare. In questo momento Leonardo e Tony sono i miei partner… Io però abito in South Carolina. Ma ci sono ottimi musicisti dappertutto: anche qui da voi in Italia ho avuto la possibilità di conoscere dei musicisti eccellenti.

Il progetto con Tony Match e Leonardo Corradi, Generations, è qualcosa di estemporaneo o avete ancora in mente di fare qualcosa insieme in futuro?
Abbiamo soltanto registrato un live, ma mi auguro di fare ancora qualcosa con loro nel prossimo futuro.

Una volta, a New York, un sassofonista mi faceva osservare come sia incredibile che al giorno d’oggi i giovani neri di Harlem conoscano perfettamente le star come Beyoncè e Alicia Keys o gli esponenti dell’hip-hop, mentre ignorano chi fossero Miles Davis o Duke Ellington. I giovani neri non conoscono la loro storia. Lei che ne pensa?
Condivido l’opinione di questo sassofonista. E’ così. Lei deve capire che per conoscere grandi artisti come Miles Davis, Duke Ellington, Count Basie, J.J. Johnson e tanti altri bisogna studiare, e studiare costa fatica. È il motivo principale per cui, secondo me, le giovani generazioni si sono allontanate dalla storia. Per loro il jazz è musica vecchia, trovano molto più semplice entrare in contatto con la musica che si ascolta alla radio. E poi mancano gli insegnanti: se qualcuno non te la insegna, quella musica, come fai a conoscerla? E se una musica non la conosci come fai a comprenderla? Comunque mi è capitato più volte di osservare che se un giovane viene introdotto all’ascolto della musica di quei giganti ne è immediatamente attratto e inizia ad assimilarla. Leonardo Corradi, per esempio, è uno di questi: conosce a menadito la grande lezione di Jimmy Smith.

E lei conosce Nicholas Payton?
Certo che sì.

Cosa pensa della sua idea di abbandonare il termine jazz per indicare la musica afroamericana utilizzando l’acronimo BAM? Mi piacerebbe conoscere quello che lei pensa davvero, senza lasciarsi influenzare dal fatto che siamo in Europa e che in questo momento sta suonando con dei musicisti bianchi…
Nicholas può ribattezzarla come gli pare, è una sua scelta. Per me resterà sempre jazz, ma se lui la vuol chiamare Black American Music [risata fragorosa] faccia pure… Comunque per me quello che suona Nicholas Payton è soltanto jazz.

Nicola Gaeta

 

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