Raoul Björkenheim: il jazz ha appena cent’anni e muta pelle in fretta

Il forte chitarrista finlandese incendia ormai da anni la scena dell’improvvisazione europea e statunitense. Meriterebbe di essere assai più conosciuto: ecco perché abbiamo voluto intervistarlo.

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Raoul Bjorkenheim

Com’è nato il suo amore per la chitarra elettrica? 

Da adolescente, all’inizio degli anni Settanta, cominciai a suonare le canzoni di Bob Dylan. Vidi qualche concerto rock importante al Fillmore East e bazzicavo per il Greenwich Village di New York, dove la mia famiglia s’era trasferita. Ero dentro al cosiddetto stile di vita alternativo e la cosa m’interessava molto. Cominciai con una chitarra acustica, perché costava poco: ricordo che la pagai 25 dollari. Ero un autodidatta e studiavo sui metodi ma ebbi la prima grande esaltazione ascoltando «Band Of Gypsys» di Jimi Hendrix: fu un’esperienza indimenticabile che determinò il mio approccio alla chitarra. E ha tuttora una forte influenza sulla mia musica. In seguito senza dubbio i Lifetime di Tony Williams mi formarono come chitarrista. I Cream, anche: la libertà nell’improvvisare all’interno delle strutture… Poi riuscii finalmente a comprarmi un’elettrica, una Gibson. Andai a studiare jazz al Berklee College of Music, tra il 1978 e l’81: lì imparai sul serio a comporre e arrangiare. Successivamente, ormai maturo per fare il professionista, andai in Finlandia. L’incontro con Edward Vesala fu determinante: mi prese nella sua band, dove suonai per quattro anni. Quella fu la mia vera educazione musicale!

E New York?

Mi mancava. Non potevo fare a meno di tornarci a vivere. Accadde alla fine degli anni Novanta. Conobbi Bill Laswell e suonai a lungo con lui. Fu davvero rinfrescante: avevo bisogno di un cambiamento. Nel 2008, però, cominciai ad averne abbastanza e tornai a vivere a Helsinki, dove risiedo tuttora anche se vado spesso in tour negli Stati Uniti. Ci sono bravi musicisti in Finlandia. È vero che è una scelta dettata anche da ragioni economiche ma qui posso avere una vita artistica più regolare. C’è più tempo per suonare con la stessa gente e soprattutto per pensare a cosa si sta facendo, dove si sta andando con la musica.

Raoul Bjorkenheim eCsTaSy – foto Stefan Bremer

C’è un ritorno al jazz elettrificato – dopo Miles Davis e i suoi epigoni, e la stanchezza prodotta dalla fusion – ma in una nuova veste. Quale, secondo lei?

La noise music e l’uso del computer fanno la differenza oggi. Si può dire che l’estetica musicale sia stata allargata, dilatata. Quando arrivò il primo sintetizzatore, il Moog, c’erano musicisti come Walter (poi Wendy) Carlos a tentare la costruzione di un nuovo linguaggio. Direi che è con Mwandishi, la band elettrica di Herbie Hancock, che il sintetizzatore emerse in modo più interessante. Anche la Mahavishnu Orchestra espanse gli orizzonti del jazz elettrico e devo dire che un chitarrista che davvero mi ha influenzato tanto, a parte Hendrix, è stato proprio John McLaughlin. Però ti faccio vedere ora un disco molto importante per me: «Things We Like» di Jack Bruce! Si devono ascoltare le parti di basso di Bruce!

Il jazz oggi va dunque in quella direzione?

Spero proprio di sì. O, almeno, è quello che cerco di fare io. C’è anche da considerare che oggi è più facile e veloce ascoltare la musica di tutto il mondo, cosa che sta modificando l’approccio dei musicisti, azzerando i confini stilistici. Io sono quotidianamente in contatto con musicisti di varie parti dell’universo: ci scambiamo musica, suoni, esperienze.

Dove porta questo nomadismo?

A mescolare tutto. A superare i limiti. Adesso mi sto concentrando sulla composizione ma sto anche preparando un disco per sola chitarra acustica e poi magari uno per sola chitarra elettrica… Come fa Keiji Haino, un chitarrista giapponese molto originale. O il norvegese Stian Westerhus, musicista davvero anticonvenzionale, affascinante. Mi piace pensare a ciò che faceva Don Cherry nell’ultima parte della sua vita, quando andava in giro per il mondo con la sua pocket trumpet: una specie di Jack Kerouac della musica… Sì, in qualche modo potrei definirmi un nomade.

Catturare suoni in giro per il mondo, farli propri e restituirli seguendo se stessi.

Sì. È soprattutto l’interazione umana a interessarmi: quella con altri musicisti di diversa cultura. Ho avuto la fortuna, per esempio, di suonare con musicisti senegalesi, italiani, sudamericani; ho inciso con il gruppo di flamenco di Raul Mannola («Inner Visions Of Flamenco», 2010).

C’è dunque ancora spazio per nuove possibilità sonore con la chitarra elettrica?

Ai tempi di Mauro Giuliani, compositore italiano dei primi dell’Ottocento che scrisse musiche stupende per chitarra, sono sicuro che qualcuno disse: «Ma che altro si può fare di più con la chitarra?». Bisogna vedere le cose con una certa prospettiva. Del resto il jazz ha appena cent’anni, no? Le cose cambiano, anche velocemente.

Magari potrebbe ritornare a vivere a New York?

Chi lo sa? Quando vivevo lì facevo più soldi andando in tour in Europa. Ora che sono in Finlandia torno con piacere a suonare a New York. Ma suono anche a Vienna o in Germania. La mia vita è fatta così.

Enzo Capua