«Belle Époque». Intervista a Michele Tino

Il bel disco di esordio da leader del sassofonista partenopeo lo vede al fianco di una terna di giovani jazzisti di vaglia.

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Foto di Caterina Perri

Buongiorno Michele, piacere di conoscerti. Se tu sei daccordo, partirei subito con il tuo primo lavoro da leader «Belle Époque». Innanzitutto, che storia – o che storie – racconta?
Buongiorno Alceste, il piacere è mio. Dunque, partendo proprio dal nome, «Belle Époque» è un lavoro che guarda al passato, agli anni dell’infanzia e della crescita, alla Belle Époque, appunto, della nostra vita. Un periodo di spensieratezza, alla scoperta del mondo e delle proprie inclinazioni, una sorta di “età dell’oro”, alla quale guardo, attraverso la mia musica, con un misto di nostalgia e tenerezza. Tutto questo è ben rappresentato dalla foto che ho scelto come copertina del mio album, una foto che mi ritrae all’età di due anni, a Parigi, a cavallo di un pony. Tra l’altro questa foto, scattata dai miei genitori in un periodo in cui vivevamo nella capitale francese, mi è capitata tra le mani per caso nei giorni in cui cercavo una copertina per il mio disco; l’ho visto un po’ come un segno del destino. Una delle preoccupazioni legate a questo mio primo lavoro è che un disco così risulti un po’ autoreferenziale. D’altra parte ho la sensazione che, nel periodo in cui viviamo, la musica che prevale sia sempre più spesso quella che in qualche modo basta a sé stessa, che non chiede o addirittura non vuole che l’ascoltatore entri nel mondo interiore dell’artista. Pensando invece a molti musicisti del passato, non solo nell’ambito del Jazz ma anche della musica classica o del Rock, spesso la loro musica trovava una ragione estetica proprio nel fornire un ritratto dell’artista. Ci si innamorava del suono di un sassofono, di una tromba, di una voce o di uno stile compositivo come se ci si innamorasse del musicista stesso. Con il mio disco d’esordio ho quindi deciso di pagare in qualche modo un tributo a quella idea e a quell’approccio un po’ anacronistici che sono stati, tra l’altro, i motivi che mi hanno portato a scegliere la musica come strada nella vita.

Come si diceva prima, è il tuo primo disco da solista. E’ faticoso essere un leader?
Devo dire che per me è stato ed è tuttora abbastanza faticoso. Lo è tuttavia quasi esclusivamente negli aspetti che esulano da quelli musicali e artistici. É un processo stressante e talvolta frustrante quello di proporre il proprio progetto ai promoters dei festival, ai club etc. Nella prima fase di produzione del disco, il musicista ha a che fare solo con la musica stessa, con i musicisti del proprio gruppo e in alcuni casi con l’etichetta discografica. Tutto il lavoro in studio ti porta a considerare la musica da una prospettiva diversa, ti ci fa affezionare e gli aggiunge un grosso valore che in gran parte è un valore personale. Quando però il disco viene pubblicato e si cerca di promuoverlo, ci si butta in un mercato sovraffollato e talvolta dispersivo. A quel punto è inevitabile scontrarsi con una serie di rifiuti che rischiano di intaccare l’autostima e la determinazione.

Sai, ciò che è fuori dal comune, almeno in questi ultimi tempi, è che non vi è alcun brano del tuo disco che abbia il titolo del disco. Eun concept album?
Sì, come dicevo all’inizio, sapevo che molte delle scelte legate a questo disco sarebbero risultate un po’ anacronistiche, ma in buona parte sono state scelte consapevoli, alla ricerca di una estetica e anche di un suono che avesse una componente un po’ old fashioned. Nello specifico, io considero questo disco un po’ come un album fotografico, che raccoglie immagini sconnesse e talvolta contrastanti della mia vita. Questo album di fotografie, a cui ho dato il titolo di “Belle Époque”, raccoglie infatti dei brani scritti in un intervallo di tempo di circa sette anni. D’altra parte non nego anche una enorme fascinazione verso il periodo storico così denominato, nelle sue manifestazioni musicali, letterarie e artistiche.

Ci sono più singoli estratti da questo album. Eimportante oggi uscire con un singolo?
Questa è stata in realtà una scelta dell’etichetta Auand Records. A posteriori devo dire che si è rivelata un’ottima strategia per quanto riguarda la diffusione sulle piattaforme digitali: ad oggi su Spotify questo disco ha ricevuto circa 175.000 ascolti, complice il fatto che tutti i brani sono stati inseriti in delle playlist editoriali che sono molto ascoltate in tutto il mondo. É stata una bella soddisfazione ricevere i complimenti di amici o vecchi compagni di studio, da diversi paesi, che avevano casualmente ascoltato i miei brani in queste playlist.D’altra parte forse questa scelta si è rivelata un po’ fallimentare per quanto riguarda il mercato italiano, avendo in qualche modo bruciato (o diluito) l’effetto sorpresa dell’uscita del disco.

Nella tua musica ci sono riferimenti tanto al jazz europeo, quanto a quello statunitense. Ma si ascolta anche una certa predisposizione per il rock. Quali sono le influenze musicali che hanno determinato la fase compositiva di questo disco?
É sempre molto difficile parlare consapevolmente delle proprie influenze musicali, ma di sicuro al primo posto metterei il Jazz della tradizione, con gli artisti che ho ascoltato e studiato maggiormente. Per fare alcuni nomi, Lee Konitz, John Coltrane, Jackie McLean, Joe Henderson, Wayne Shorter, Bud Powell, McCoy Tyner ma anche musicisti che hanno forgiato le sonorità del Jazz contemporaneo, come David Binney, Steve Coleman, Steve Lehman, Dick Oatts. In particolare quest’ultimo è stato anche mio insegnante nel periodo in cui ho studiato alla Temple University di Philadelphia ed ha avuto un ruolo fondamentale nello “sbloccare” in me il processo compositivo, sia con la sua enorme personalità musicale, sia con le sue incredibili capacità di insegnante. Per quanto riguarda il jazz europeo, farei un nome su tutti, quello di Michael Moore, col quale ho avuto la fortuna di studiare ad Amsterdam. L’influenza del rock, infine, è molto meno consapevole, principalmente legata agli ascolti infiniti dei dischi dei Pink Floyd, dei Doors, di Jimi Hendrix, dei Beach Boys e di tutto il rock degli anni Sessanta e Settanta, che hanno segnato la mia adolescenza e costruito una buona parte del mio immaginario musicale.

Parliamo dei tuoi sodali. Perché hai cooptato proprio Simone Graziano, Gabriele Evangelista e Bernardo Guerra?
Con Simone, Gabriele e Bernardo ho praticamente giocato in casa. E questo mi ha aiutato molto a vincere alcune delle preoccupazioni iniziali legate alla mia prima esperienza da leader. C’è poco da dire sulla loro enorme statura musicale e sulla loro capacità di immergersi in ogni contesto musicale, impreziosendolo con una naturalezza e una inventiva infinite. Ma quello che per me li ha resi insostituibili è il fatto che loro sono i musicisti con cui io sono cresciuto, degli amici che mi conoscono non solo dal punto di vista musicale ma anche personale e che, come immaginavo, hanno saputo interpretare istantaneamente le mie intenzioni riguardo a questo disco.

Michele Tino 4et – foto Caterina di Perri

Quanto hanno influenzato la resa del tuo album?
Questo gruppo esisteva già da qualche anno prima di registrare il disco (siamo stati selezionati anche per l’edizione 2019 di Nuova Generazione Jazz), quindi buona parte della musica si è sviluppata ed è cresciuta in stretto rapporto con loro. Tutte le sonorità che avevo in mente erano fortemente legate al loro suono e alla loro estetica. Aggiungo che, anche al di fuori di questo progetto, mi rendo spesso conto che il mio riferimento per quanto riguarda la sonorità degli strumenti della sezione ritmica è legato proprio a loro tre.

Alla fine dei conti, il disco è venuto così come lo immaginavi?
In realtà, già poco dopo la pubblicazione, mi sono reso conto del fatto che, potendo tornare indietro, avrei cambiato tantissime cose nell’esecuzione dei brani, negli arrangiamenti e anche nei suoni stessi del disco. Ma questo credo sia una sensazione comune a tutti i musicisti, soprattutto nei confronti dei primi dischi. Parlavo proprio di questo con David Binney nel periodo in cui mi preparavo a far uscire il disco: lui mi raccontava delle impressioni legate al suo disco di esordio; considerava, a posteriori, quasi un errore il fatto di averlo pubblicato, in quanto quel disco già dopo poco tempo non rappresentava più la direzione estetica che lui aveva intrapreso e, in qualche modo, lo aveva etichettato per molto tempo come facente parte di un’ contesto artistico che non lo rappresentava più. In conclusione direi che, se con un orecchio tecnico ed iper-autocritico ad oggi quasi mi infastidisce riascoltare il mio disco, d’altra parte sono convinto che rappresenti un’immagine molto ben riuscita di quella che era la mia estetica e la mia intenzione artistica nel momento in cui l’ho registrato.

Chi è il tuo artista di riferimento (parlo in generale, non solo per quanto riguarda il disco)?
In questo periodo, per la prima volta, noto di non avere più un vero e proprio artista di riferimento; e questo non ho ancora capito se è una cosa positiva o negativa. Di sicuro in passato ho avuto molti idoli che si sono avvicendati, e ritengo che questo sia stato molto importante per la mia crescita musicale. Ad esempio nel periodo in cui ho registrato il disco mi è abbastanza facile dire che il mio musicista di riferimento era David Binney, già citato prima. Lo ritengo tuttora uno dei solisti e dei compositori più geniali del nostro tempo e anche uno dei più influenti sulle sonorità della musica leggera contemporanea.

Foto Caterina di Perri

Sei nato a Napoli, ma per motivi di studio sei andato a Rovigo. Perché hai scelto di lasciare Napoli?
Purtroppo quella di andare via da Napoli non è stata una mia scelta. A 11 anni sono stato “trapiantato” a Firenze per necessità legate al lavoro dei miei genitori. Sono dunque cresciuto a Firenze per la parte più lunga della mia vita. Spesso mi sono chiesto che direzione avrebbe preso il tutto se questo trasferimento non fosse avvenuto. A Rovigo invece non ci ho mai vissuto; ci sono andato solo per motivi di studio durante gli anni del conservatorio, su spinta di Marco Tamburini che allora dirigeva il dipartimento di Jazz nel conservatorio della città veneta.

Quanto la tua esperienza ad Amsterdam ha influenzato la tua visione della musica?
Le esperienze ad Amsterdam e successivamente a Philadelphia sono state probabilmente le più importanti della mia vita, da un punto di vista artistico e personale. In Italia io ero stato molto fortunato ad essere cresciuto sotto la guida, come dicevo prima, di Marco Tamburini e di Nico Gori, che ancora oggi considero un mentore e una figura di riferimento. Completare gli studi all’estero però mi ha dato quella possibilità di aprire la mente, scambiare idee, input, conoscenze con musicisti provenienti da tutto il mondo e di confrontarmi con approcci alla musica e alla didattica completamente diversi. Credo che la crescita di un musicista oggi non possa prescindere da questa ricerca di apertura e di respiro internazionale. Ed è un peccato che questo tipo di ambiente didattico vasto, ambizioso e multiculturale, sia ancora così difficile da trovare nei conservatori di Jazz in Italia.

Con chi ti piacerebbe collaborare?
Avrei un lunghissimo elenco di nomi da citare ma, volendo circoscrivere il campo all’Italia, uno dei miei sogni nel cassetto da quando ero un bambino è quello di poter lavorare con Enrico Rava.

Foto Caterina Di Perri

Qual è lultimo libro che hai letto (o che stai leggendo)?
L’ultimo libro che ho letto è stato Per chi suona la campana di Hemingway. Adesso invece sto leggendo  La ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. In generale la letteratura rappresenta per me una delle principali fonti di ispirazione; uno dei brani del disco ad esempio, L’idiota, è infatti dedicato all’omonimo romanzo di Dostoevskij.

Cosa è scritto nellagenda di Michele Tino?
Dopo gli ultimi mesi di drammatica inattività, dovuta agli strascichi delle chiusure per la pandemia, devo dire con un sospiro di sollievo che l’agenda sta ricominciando lentamente ad infittirsi. In estate ho in programma molte attività in veste di sideman con delle nuove formazioni, ad esempio con l’ensemble di Paolo Damiani o con il nuovo progetto di Camilla Battaglia. Ho anche alcuni concerti in Italia ed all’estero con il gruppo di Michelangelo Scandroglio. Infine sto provando ad organizzare un giro di presentazione col mio gruppo il prossimo autunno, cosa che finora è stata infattibile, essendo il disco uscito esattamente a metà del periodo pandemico.
Alceste Ayroldi