Fred Hersch: scomparire attraverso la musica

di Sandro Cerini

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Fred Hersch (foto di Giuseppe Sozzi)
Fred Hersch (foto di Giuseppe Sozzi)

«Da solo, in trio, in ensemble… Quello che voglio è scomparire: voglio soltanto musica.» Intervista esclusiva con Fred Hersch, uno dei più significativi pianisti dei nostri tempi

Hersch si è affermato, nell’ultima decade d’una carriera ultra-trentennale, come uno dei pianisti più interessanti della sua generazione e, forse, come il miglior continuatore d’un approccio stilistico posto sulla linea ideale che ha condotto da Bill Evans a Keith Jarrett, e oltre. Nel trio dall’interplay telepatico con John Hébert ed Eric McPherson si è dimostrato un leader nella piena maturità, alla testa di un gruppo affiatato, che sa distillare tutta l’essenza espressiva ed emotiva del formato. Come solista dotato di tecnica e tocco sopraffini ha mostrato di padroneggiare in modo assoluto ogni materiale musicale, in una perfetta sintesi di ragione e istinto. Più di recente, ha saputo dispiegare le proprie doti nella cornice coloratissima e dinamica offerta dalla WDR Big Band, valorizzandola al massimo anche con numerosi interventi solistici. Quanto alla sua «autorialità», spiccano spunti di forte pregnanza autobiografica, maturati attraverso un sentiero personale gravido di travagli. In «My Coma Dreams» (2011, definito «a true story of love at the dividing line between life and death»), sorta di «teatro da camera», egli ha saputo raccontare una realtà fatta dei sogni del proprio periodo di coma del 2008, durato due mesi, raccogliendoli in una dozzina di brani, alcuni dei quali poi sono entrati stabilmente nel proprio repertorio dal vivo. In «Leaves Of Grass» (2005) si è cimentato con la suggestione della parola, musicando il poema di Whitman, trasposto per due voci (Kate McGarry e Kurt Elling), nella cornice di un ensemble stellare (Alessi, Friedlander, Malaby, Gress tra gli altri). Completano questo quadro così personale il film del 2016 «The Ballad Of Fred Hersch», di Charlotte Lagarde e Carrie Lozano e l’autobiografia Good Things Happen Slowly. A Life In And Out Jazz, del 2017. Impossibile, infine, non ricordare la sua attività di influente didatta, che ha potuto annoverare tra i propri allievi personalità come Brad Mehldau, Ethan Iverson e Jason Moran. Non frequenti le sue esibizioni in Italia, quindi è doppio il motivo di soddisfazione per i suoi due concerti di luglio 2019: a Brescia il 7 e a Perugia, il 14.

Fred Hersch (foto di Martin Zeman)
Fred Hersch (foto di Martin Zeman)

Quali sono state le tue principali influenze? Cosa puoi dirci a proposito della presenza ricorrente, nei tuoi concerti e nei tuoi dischi, di standard sviluppati lungo un asse Monk-JobimGolson?
Sono sempre stato interessato, fin dai miei primi anni di apprendimento – facendo su e giù dai palcoscenici di Cincinnati nei primi anni Settanta, per mettere a punto un adeguato repertorio di brani – da quel particolare «canone» rappresentato dalle grandi melodie. Monk è probabilmente il più importante compositore di jazz se pensiamo a brani di breve durata, quindi ho dovuto trovare il mio modo di suonare la sua musica e onorare le sue composizioni: ovviamente non suonando come lui! Piuttosto, usare ciò che c’è nella musica di un certo DNA musical, ed evocarne lo spirito a modo mio. Jobim (e la musica brasiliana in generale) è stato un mio amore sin da quando mi sono trasferito a New York nel 1977 e ho suonato con alcuni dei grandi musicisti brasiliani che vivevano qui in quel periodo. Ho anche avuto alcune opportunità – di quelle che cambiano la vita di un musicista – negli anni Ottanta, di esibirmi in Brasile. Sai, i jazzisti amano la musica brasiliana, e la sensazione è reciproca: la musica di Jobim così è diventata uno standard di un certo tipo, oramai. Le composizioni post-bop di Benny Golson, Tadd Dameron e altri sono state le colonne portanti del mio repertorio nei miei primi giorni a New York. Quindi abbiamo tre grandi «gruppi di cibo musicale» (ci metto anche le mie composizioni originali, come un quarto gruppo): grandi composizioni di jazz (scritte da musicisti jazz, su cui improvvisare); l’American Popular Songbook (canzoni con testi, che i musicisti jazz amano suonare); musica brasiliana.

foto di Giuseppe Sozzi
Fred Hersch (foto di Giuseppe Sozzi)

Puoi brevemente raccontarci come hai pensato di sviluppare «My Coma Dreams»?
Quando sono uscito dalla mia condizione di coma, durata due mesi, dopo ho ricordato, in particolare, otto sogni fatti in quel periodo di due mesi, abbastanza a lungo da trascriverli circa sei settimane più tardi. Volevo fare qualcosa con questi objets trouvés, quindi ho chiesto al mio amico autore teatrale, librettista e regista Herschel Garfein di aiutarmi. Lui ha avuto l’idea di presentare i sogni – ognuno in un modo diverso, visivo e teatrale – con la sequenza temporale di me che entravo in coma nel giugno 2008 e ne uscivo – ed ero in riabilitazione – nell’agosto successivo. Un attore e cantante ha rappresentato me, il mio compagno Scott, il mio medico e altri personaggi ancora. C’era dunque un insieme misto di dodici pezzi e proiezioni video coinvolgenti: alcuni animazioni realizzate a mano e altre che utilizzavano immagini generate al computer. Abbiamo finito per chiamarlo «jazz theatre».

L’insegnamento fa parte integrante del tuo percorso di musicista: puoi dirci qualcosa al riguardo? Non temi che l’insegnamento musicale, per una musica come il jazz, esponga al rischio di valorizzare una nozione di improvvisazione «meccanica», ponendo l’accento su un aspetto tecnico o su un «processo», piuttosto che sugli aspetti più personali della performance?
Di questi tempi ci sono così tante informazioni disponibili, in giro, per gli studenti di jazz più giovani. Ai miei tempi, invece, dovevi capirlo da solo o chiedere ai colleghi più grandi. Ma conoscere tutte queste informazioni non significa che tu possa raccontare una storia musicale. Solo perché hai un buon vocabolario verbale non significa che tu possa sviluppare personaggi o una trama avvincente. Quindi, nel mio insegnamento, pongo davvero l’enfasi sull’improvvisazione come relazione con qualsiasi cosa tu sappia o senta: per ottenere un buon suono dal pianoforte e imparare come essere nel momento, frase per frase. Non come teoria o vocabolario jazz.

Fred Hersch (foto di Steve J. Sherman)
Fred Hersch (foto di Steve J. Sherman)

Nel disco «Open Book» e nel brano Through The Forest per la prima volta hai scelto di cimentarti in una lunga improvvisazione decisa al momento, qualcosa di simile a un pezzo di Keith Jarrett. Questa nuova attitudine può segnare una nuova fase nel tuo lavoro?
Sono stati davvero venti bei minuti, per me. Improvvisare in modo aperto ha fatto parte del mio lavoro per molto tempo, ma creare un pezzo aperto lungo come quello, deve accadere semplicemente – in maniera naturale, per così dire – e non essere pianificato in alcun modo. Non sono sicuro se questa possa essere una nuova direzione, ma almeno so che è lì, e magari tornerà durante un concerto o un altro.

Qual è per te la principale differenza, in termini di esperienza, tra suonare in trio e suonare in solo?
Il pianoforte solo, nel jazz, è un po’ come suonare un set di batteria con ottantotto note – può anche essere una big band, un’orchestra, due fiati, un cantante o qualsiasi combinazione di queste cose. Ho io la totale responsabilità di tutto ciò che accade, incluso lasciare lo spazio (che potrebbe essere la cosa più difficile da fare!). In trio mi sento così comodo e fiducioso con John ed Eric, dopo dieci anni assieme, che mi sembra come se io – o loro – possiamo riprodurre qualsiasi cosa in qualsiasi momento e spostare la musica in una direzione sempre spontanea. Assieme stiamo componendo musica in tempo reale, esattamente come lo sono io quando suono da solo. In trio sto interagendo con loro. In solo, sto interagendo con il piano e l’acustica. Ma sono sempre specificamente ispirato a – e da – qualsiasi brano che sto suonando in quel momento.

Fred Hersch (foto di Mark Niskanen)
Fred Hersch (foto di Mark Niskanen)

Cosa pensi del film The Ballad Of Fred Hersch? Credi che nel jazz possa esserci un forte aspetto di storytelling personale?
Sono molto soddisfatto del film. Charlotte e Carrie hanno raccontato una buona parte della mia storia a modo loro. Il mio libro autobiografico Good Things Happen Slowly. A Life In And Out Jazz, uscito nel 2017, racconta la stessa storia con parole mie.

Qual è, secondo l’esperienza che hai potuto sviluppare arrangiando «Leaves Of Grass», la vera influenza che la parola e il testo hanno nella creazione musicale?
Mi è piaciuto molto lavorare con le parole ispiratrici di Walt Whitman e spero di trovare in futuro il modo di comporre un altro pezzo basato su testo. Ma oltre a ciò non saprei davvero dirti di più su questa domanda.

Sandro Cerini

[da Musica Jazz, agosto 2019]