Chet Baker: tra i protagonisti della West Coast

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Nella cultura statunitense, la California ha fatto spesso da terra promessa. Il clima più mite, la minore oppressione delle città, la vicinanza degli studi cinematografici (che, a prezzo di un briciolo di compromesso, potevano fornire sostentamento anche all’intellettuale meno conformista): ecco alcune delle ragioni che attrassero sulla costa del Pacifico un piccolo esercito di scrittori, registi, pittori e, naturalmente, musicisti. Così anche il jazz ebbe tra Los Angeles e San Francisco le sue basiliche; nelle sale da concerto, nei numerosi e fiorenti night club, nei ritrovi degli artisti.

La sola fortuna nella vita di Chet Baker è stata quella di essersi trovato sulla West Coast al momento giusto. Fu quella degli anni Cinquanta, infatti, l’unica stagione in cui il jazz della sponda del Pacifico poté pretendere una pur relativa autonomia e un’identificazione. Infatti si parlava di «jazz californiano» per indicare uno stile, un atteggiamento, un’evoluzione, oltre che tutta una schiera di beniamini come Gerry Mulligan e Jimmy Giuffre, come Shorty Rogers e Shelly Manne o come Bud Shank, Art Pepper, Dave Brubeck e tanti altri, molti dei quali maturati nell’orchestra progressive di Stan Kenton. Ma quel momento singolare si mutò ben presto in banale routine e si esaurì in relativa fretta, vinto dal ritorno in forze dei musicisti neri che non avevano lasciato New York e la costa atlantica, e soverchiato dalla potenza del loro movimento chiamato hard bop.

I protagonisti della West Coast erano in grande maggioranza bianchi, e la coincidenza – casuale o no – non mancò di gettar benzina su un fuoco polemico oggi dimenticato. Il tempo ha contribuito a filtrare quelle diatribe, cancellando le opere meno felici di quel periodo avventuroso per lasciare intatto quello che fu il suo grande e primario merito: avere riportato al jazz, in un momento difficile, l’interesse del grande pubblico e – all’interno delle strutture musicali – aver ridato vigore e idee a un’arte che, almeno come popolarità, rischiava di inaridirsi.
Dalla California, insomma, vennero alcuni dei più tipici esempi del progressive e del cool, ma venne anche (e ancor prima dell’hard bop) la reazione a tali movimenti, che facilmente si perdevano nella involuzione. E vennero complessi e solisti che restituivano allo swing i privilegi che altri sembravano mettere in discussione. Erano musicisti completi e dal gusto raffinato, in grado di restare ancorati alla corrente principale del jazz e richiamarsi ai grandi maestri.

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Per un musicista di quello stampo, la California era dunque l’ambiente ideale. Chi non vi era nato cercava di raggiungere in un modo o nell’altro quella terra promessa. Chesney «Chet» Baker non era un nativo, ma nemmeno un immigrato musicale. Si era stabilito in California con la famiglia all’età di dieci anni, arrivando dal pieno centro degli Stati Uniti, l’Oklahoma, dov’era nato nella minuscola cittadina di Yale il 23 dicembre 1929. Suo padre, come molti statunitensi di ogni classe sociale, si dilettava sul banjo in un’orchestrina di piccolo cabotaggio: abbastanza per trasmettere a un tredicenne la costanza di prendere lezioni di musica nella sua scuola (la Glendale Junior High). Poiché l’allievo prometteva bene, il padre regalò a Chet un trombone ma il primo atto del ragazzo fu quello di scambiare lo strumento con una tromba. Il suo idolo, allora, era Harry James; e, con quel modello in testa, Chet furoreggiava nella band della scuola, che alternava le marce a occasioni più piacevoli come le feste da ballo e i picnic.

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Un ritratto di Chet Baker giovanissimo

A sedici anni, nel 1946, Chet ne sapeva già abbastanza della tromba per mettersi alle spalle la casa di famiglia e avventurarsi nel mondo: si arruolò nell’esercito per entrare nella 298th Army Band di stanza a Berlino. E proprio in Europa, particolare curioso, venne a contatto con il jazz moderno attraverso i consigli e i dischi di Don Bagley (1927-2012), futuro contrabbassista kentoniano che aveva studiato con il noto didatta Wesley LaViolette. Anche Chet desiderava approfondire le proprie conoscenze musicali; e quando fu congedato, nel 1948, si iscrisse ai corsi di teoria e armonia dell’El Camino College a Los Angeles.
L’esercito, si sa, è sempre stato una grande risorsa per i giovani inquieti. Chet torna ad arruolarsi nel 1950, pare per sfuggire a un legame sentimentale. Ma stavolta non va molto lontano: entra nella 6th Army Band, di stanza al presidio di San Francisco, da cui ogni sera taglia la corda per suonare al Bop City e in altri locali notturni. Dopo più di un anno, tuttavia, lo spediscono a Fort Huachuca, in Arizona, in una band militare che è una specie di tetra compagnia di disciplina, rifugio di loschi figuri e di tossicodipendenti. E Chet, che ama le decisioni brusche, fugge dalla caserma, si dà disertore per un mese e, alla fine, viene riformato per «ragioni psichiatriche».

Siamo nel 1952. In borghese, Baker ritrova una Los Angeles ancora più attraente. Ora c’è modo di lavorare sul serio, e infatti si unisce a grandi partner: Stan Getz, Dexter Gordon, Vido Musso, persino Charlie Parker, il più grande di tutti, che anni prima era stato tra i creatori del jazz moderno e adesso vive gli ultimi bagliori di una carriera penosa e sublime. Nell’estate del 1952 Bird suona al Tiffany di Hollywood, e tra i musicisti locali da lui ingaggiati c’è anche il ventiduenne trombettista. C’è chi va al Tiffany per Parker e si imbatte nella rivelazione Baker; il più avveduto di tutti è Richard Bock, un giovanissimo agente di spettacolo che, su due piedi, scrittura Chet per il proprio locale, lo Haig, e che letteralmente impone a Gerry Mulligan.

             Tra lui e Mulligan scorre un vero fluido musicale

Mulligan, di due anni più anziano di Baker, non avrà forse la tumultuosa esperienza umana del collega ma ne possiede una musicale ben superiore. Arriva dalla East Coast, da New York, dove è stato un arrangiatore precocissimo e si è rapidamente imposto come il più interessante sax baritono del momento, partecipando in entrambe le vesti alle famose incisioni del nonetto di Miles Davis, tra il 1948 e il 1950. E proprio Davis (un nome che fa drizzare le orecchie a Chet) è ora l’idolo, il modello da seguire. Anche per questo, l’idea di suonare a fianco di Mulligan piace a Baker; i due, poi, scoprono un vero e proprio fluido musicale non appena si mettono al pianoforte e intessono le prime linee melodiche. Nasce in quel modo un po’ insolito lo stile che darà immediata fortuna e popolarità alla loro collaborazione e che sarà diffuso dal loro quartetto.

Chet Baker con Gerry Mulligan
Chet Baker con Gerry Mulligan

Non soltanto alle serate allo Haig, ma anche ai dischi provvede Bock, con l’etichetta – da lui fondata per l’occasione assieme al batterista Roy Harte – Pacific Jazz, che il 9 luglio organizza il virtuale esordio discografico di Baker facendogli incidere con Mulligan, il contrabbassista Joe Mondragon e il pianista Jimmy Rowles (niente batteria) un brano che sarà pubblicato soltanto parecchio tempo dopo: She Didn’t Say Yes, She Didn’t Say No. In esso il giovane trombettista rimane in disparte fin quasi al finale, e del resto Mulligan stesso pare meno in evidenza di Rowles, il più anziano del gruppo (è del 1918) e reduce da una lunga milizia con Woody Herman.
In realtà non è facile collocare nell’attività di Mulligan questa specie di esperimento, che pure va sotto il suo nome, perché quando esce il primo 10 pollici del quartetto una delle particolarità che fanno sensazione è la mancanza del pianoforte. «Avere a disposizione uno strumento di così illimitate personalità, e ridurlo a fare da stampella a un solista mi è parso inconcepibile», spiega proprio Mulligan, che era del resto un sincero estimatore e cultore del pianoforte, come risulterà negli anni a venire dalle sue frequenti esibizioni in concerto e su disco.
Al suo fianco – sin da quel 16 agosto 1952 in cui vengono incisi tra l’altro Bernie’s Tune e Lullaby Of The Leaves, i due brani della rivelazione – troviamo un Chet Baker finalmente in grado di esprimere in libertà il suo lirismo, un batterista raffinato e puntuale come Foreststorn «Chico» Hamilton – tra i musicisti neri che più hanno collaborato all’attività dei californiani – e il robusto bassista Bob Whitlock. «Vedo il contrabbasso come la base del quartetto», dice Mulligan, e in effetti pare non accontentarsi mai, cambiando e ricambiando il bassista quasi a ognuna delle sedute che si susseguono dapprima a un ritmo mensile e poi, dal gennaio del 1953 (pressappoco quando Hamilton lascia definitivamente il posto a Larry Bunker e Carson Smith si afferma come immutabile contrabbassista), a un ritmo ancor più accelerato.

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Chet Baker Quartet – 1953 – Featuring Russ Freeman (Pacific Jazz)

Nei dieci mesi di attività del quartetto, almeno sessanta brani sono pubblicati o messi avvedutamente in archivio dalla Pacific Jazz, in aggiunta agli otto che Mulligan, in due sedute nel gennaio del 1953, realizza con un tentetto, memore delle già citate incisioni di Miles Davis. Naturalmente Chet Baker ne è la tromba leader. In quei dischi – presto diffusi come una specie di divulgazione popolare del jazz moderno – è la sintesi di quello che sarà chiamato appunto «jazz californiano». Sembra proprio che sia stato Arrigo Polillo a formulare per primo questa etichetta. Ed è il musicista Attilio Donadio a delinearne sulle pagine di Musica Jazz (n. 7/1955) con sbalorditiva concisione gli ingredienti, o meglio le ragioni, del grande successo: «Quel jazz ha addomesticato il bop, ha riscaldato il cool e ha alleggerito il progressive. Un jazz fresco, insomma, musicale e pieno di swing».

Naturalmente, perché tutta una generazione di giovani resti affascinata proprio dal quartetto di Mulligan e Baker, che non sono certo gli unici californiani, esistono altri pregi meno generali: il perfetto lirismo che accomuna i due fiati del complesso e la loro capacità di tradurre l’effervescenza di idee negli assoli e nelle deliziose trame dei loro duetti, che creano insoliti, deliziosi impasti armonici con il timbro rugoso del sax baritono di Mulligan e la sonorità vitrea della tromba di Baker, entrambi fortemente sostenuti dai due ritmi.
La vera rivelazione, occorre ripeterlo, è proprio Chet. Benché visibilmente ispirato nel fraseggio ai due grandi trombettisti post gillespiani, Miles Davis e Fats Navarro, pure sa essere indiscutibilmente personale per la sonorità. Chi cerca un paragone va a scomodare addirittura l’ombra illustre di Bix Beiderbecke, il coetaneo e, in un certo senso, rivale bianco di Louis Armstrong fino alla sua precoce scomparsa nel 1931. E la consacrazione definitiva di Chet Baker è il primo posto che al termine del 1953 gli viene assegnato nel referendum tra i lettori di DownBeat quale miglior trombettista. Il verdetto, che si ripeterà per un paio d’anni anche in sondaggi europei, è da riconoscersi, in termini assoluti, piuttosto esagerato.

chet bakerAllorché, a metà del 1953, Chet si stacca da Mulligan per formare un proprio quartetto (sovente peraltro allargato come organico) con il pianista Russ Freeman, si lascia alle spalle una serie di incisioni che vanno considerate tra le sue cose migliori. Si possono citare, con Mulligan, Bernie’s Tune (uno dei primissimi, pubblicato sullo storico 78 giri Pacific Jazz 601), Bark For Barksdale, Soft Shoe, Walkin’ Shoes, Frenesi, Freeway (un tema di Baker stesso) e tutti i brani in cui al quartetto si era unito, sul palco dello Haig, il santone del cool Lee Konitz (tre sedute tra il 25 gennaio e l’1 febbraio 1953). Tra le incisioni di Baker, con il primo quartetto sotto suo nome, sono soprattutto notevoli quelle del 29 e 30 luglio 1953 come Russ Job e All The Things You Are.

A questo periodo risale anche la popolarità vastissima di Chet quale cantante, che provocò una feroce frattura di giudizi tra i critici ma un concorde successo tra il pubblico di tutto il mondo. Il suo cavallo di battaglia era My Funny Valentine, inciso – con quella timida voce da adolescente – in svariate versioni.
Il Chet Baker migliore resta tuttavia il trombettista dalla sonorità sottile e del tutto sprovvista di vibrato, dal fraseggio elegante e dalle idee sovente fervide, che ripropone un problema non ignoto ai dibattiti estetici di qualsiasi arte: la sua pare dettata dalla grazia più che dalla forza creativa. La travolgeranno non tanto le durezze del jazz degli anni successivi quanto il dramma intimo che su Chet si profila, per oscurare il suo volto da bambino.

    Nella primavera del 1955 Baker è invitato alla Carnegie Hall

Nella primavera del 1955 Baker è invitato a un concerto dedicato ai californiani più in vista (Mulligan, ma anche Phil Urso, Dave Brubeck, Paul Desmond) nell’austera Carnegie Hall di New York, dove il jazz è entrato da tempo ma dove torna di rado e solo per veri e propri esami di laurea. Per Chet è forse l’ultima immagine di un’America amica. Nel settembre parte con un suo complesso per l’Europa, dove ha un nutrito programma di concerti (anche in Italia) e di incisioni per la francese Barclay. E finisce proprio a Parigi l’estate felice ma breve della sua carriera. Il 21 ottobre, per una dose eccessiva di eroina muore il suo pianista Dick Twardzik, appena ventiquattrenne ma già destinato a grandi cose, ed è un segno sinistro di premonizione. Pare che proprio a quel viaggio o comunque al rientro negli Stati Uniti, nel 1956, risalga la dannazione dello stesso Chet nei meandri della droga. Fatto sta che quasi subito passa un periodo di isolamento nel Kentucky, al Lexington Federal Hospital, prima tappa di una lunga odissea che si concluderà nell’abisso.

In questo periodo Baker incide più volte per la World Pacific, a Los Angeles, con complessi in cui invita per lo più Russ Freeman come pianista e Phil Urso, Art Pepper e talvolta Bud Shank ai sassofoni, oltre a numerosi altri partner meno stabili. Tra gli album del periodo va citato «Chet Baker And Crew», con Urso e, al pianoforte, un insolito Bobby Timmons. Tuttavia l’occasione migliore proviene da Mulligan, che per una volta si riunisce al vecchio compagno in tre sedute del dicembre 1957, da cui verrà tratto il disco «Reunion». Ma chi pone un po’ d’attenzione non può non avvertire il salto di qualità, piuttosto negativo, dalle incisioni leggendarie di quattro anni prima. L’innata bravura salva sovente Chet, ma le sottili trame contrappuntistiche che avevano reso celebri i due jazzisti sono ormai perdute.

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Chet Baker con la moglie Halima nel backstage in occasione di un concerto a Rochester negli anni Cinquanta – foto Paul Hoeffler/Redferns

A Harlem, nel 1959, Baker viene arrestato per droga, condannato a sei mesi (ne sconterà solo quattro) e spedito nel carcere di Rikers Island: invano offre una cauzione Bill Grauer, comproprietario della casa discografica Riverside per la quale Chet aveva inciso già quattro album abbastanza validi, tra cui uno con Johnny Griffin. Dopo il soggiorno in carcere, assieme ad altri jazzisti ben noti come Howard McGhee e Curly Russell, Baker decide di tornare in Europa e, a Milano, inizia una cura disintossicante. Soprattutto, però, pare guarirlo il calore umano che lo circonda. Incide più volte per la Music di Walter Guertler con i maggiori jazzisti italiani, tra settembre e ottobre, e inoltre fa da maestro a Masetti, Basso, Sellani, Cerri e si trova a disposizione una sezione d’archi e legni arrangiata da Ezio Leoni e Giulio Libano.

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Milano – Settembre 1959 – Università Politecnico di Milano – Chet Baker tromba, Franco Cerri contrabbasso – Photo © Sergio Pedroli – Archivi Riccardo Schwamenthal

Ma a tradirlo sarà un incidente banale: a Napoli gli viene rubata la tromba, alla vigilia di un concerto, ed è tale lo sconforto che quella sera stessa Chet si restituisce al suo vizio oscuro. Ed è un ricadere giù per la china, sempre più velocemente, sempre più perdutamente. La moglie Halima, sfinita dalla delusione, lo lascia. In agosto, al festival belga di Comblain-la-Tour, compare sul palco quando già è stata annunciata la sua assenza, ma è quasi incapace di suonare. Attende la tragedia come rassegnato.
Un amico toscano, medico, tenta ancora una volta di salvarlo e lo fa ricoverare alla clinica Santa Zita di Lucca, con la licenza di recarsi ogni giorno alle Focette, presso Viareggio, per suonare alla Bussola con Romano Mussolini. La sera di giovedì 31 luglio, il custode di una stazione di servizio di San Concordio in Contrada si insospettisce del lungo silenzio di Baker, che si era fermato per recarsi in bagno, e fa accorrere la polizia. La porta viene sfondata. Chet è riverso a terra, coperto di sangue. Nella frenesia di iniettarsi lo stupefacente si è più volte colpito il braccio. Ventidue giorni dopo sarà arrestato e rinviato a giudizio.

Il processo, assai seguito in Italia e fuori, si svolge a Lucca a metà aprile del 1961, e coinvolge la stessa moglie Halima, due medici lucchesi e un avvocato, accusati tutti di aver aiutato Chet nella sua caccia alla droga. Poiché l’imputazione parla anche di ricette mediche false, il pubblico ministero chiede per Chet sette anni di reclusione. Ma la sentenza sarà ben più mite: diciannove mesi, che la Corte d’appello di Firenze, in settembre, ridurrà ulteriormente a sedici.

                 Quanti ascoltavano sul serio il suo jazz?

È una lunga, triste parentesi. Ma non un’agonia. Nel carcere di Lucca, Chet scrive musica e suona gli strumenti più improvvisati. Esce il 15 dicembre, e ancora una volta trova ad attenderlo gli amici italiani che hanno fiducia in lui. Gli organizzano una serie di concerti con Antonello Vannucchi, Amedeo Tommasi, Giovanni Tommaso e Franco Tonani, e gli fanno incidere il 5 gennaio 1962, a Roma per la Rca, un disco dall’augurale titolo «Chet Is Back!». Lo affiancano per l’occasione alcuni tra i migliori musicisti europei: Bobby Jaspar al sax tenore, il pianista Tommasi (che ha scritto per Chet una deliziosa Ballata in forma di blues), René Thomas alla chitarra, Benoît Quersin al contrabbasso e Daniel Humair alla batteria.

Nel disco e in pubblico, dopo il breve rodaggio dovuto alla forzata inassuefazione delle labbra, Chet mostra una forza nuova e quasi un ripudio di tutto il suo passato. Il grido di battaglia è Well, You Needn’t, il brano di Thelonious Monk con cui suole iniziare le sue esibizioni. Perfino il pubblico eterogeneo della Sei giorni ciclistica di Milano lo applaude, la sera che suona nel grande anello dove i cantanti alla moda vengono abitualmente fischiati fino alle lacrime. E sulla sua vita il produttore De Laurentiis vuole addirittura fare un film. Sono giorni buoni.

16 dicembre 1961: Chet Baker a Lucca il giorno dopo l’uscita dal carcere. Sulla locandina della Nazione si legge tra l’altro la notizia della sua scarcerazione (Photo by Archivio Cameraphoto Epoche/Getty Images)

Fuori dal carcere, ad attenderlo, Chet ha trovato anche la sua ragazza, la giovane inglese Carol Jackson. Anche per lei si sente più forte. I giornali li ritraggono nell’atto di addobbare il loro albero di Natale. E a metà maggio è prevista, a Milano, l’apertura di un locale notturno intitolato a lui e dedicato al suo jazz. Sembrano in molti a credere ancora in Baker. Ma, così come era sfumato il film, nemmeno il club si aprirà mai, nel sotterraneo del vecchio Olimpia in largo Cairoli. E ci si domanderà per breve tempo il perché. «Chet», si scopre infine sui giornali, «c’è ricascato». Il 4 giugno viene arrestato a Monaco di Baviera. La caduta sembra ormai inesorabile.

È l’inizio di una lunga, triste e cupa odissea. Espulso dalla Germania e, alla fine dello stesso giugno, anche dalla Svizzera, esule per breve tempo a Londra, non resta a Baker che il triste isolamento nel manicomio criminale di Haar, nei pressi di Monaco. Non gli permettono nemmeno di vedere Carol e, quando esce, si trova a essere un «indesiderabile» proprio nei Paesi europei in cui aveva sperato di trovare serenità. Condannato a Londra a un mese di reclusione nel febbraio 1963, scritturato per brevi periodi allo Chat-qui-Pêche di Parigi, passa ad Ankara, a Barcellona e di nuovo a Parigi, viene ancora una volta arrestato il 22 gennaio 1964 a Berlino Ovest e, il 2 marzo, definitivamente espulso dalla Germania. Ripartirà direttamente per gli Stati Uniti, lasciandosi alle spalle un dramma che la notorietà ha impietosamente reso pubblico, con le foto che lo esponevano in manette nei tribunali dove pure c’era chi gli chiedeva un autografo attraverso le sbarre. Negli Stati Uniti Chet tenta ancora di affrontare le sue illusioni. Il 3 luglio 1964 appare al fianco di Stan Getz al festival di Newport e, in seguito, si esibisce presso svariati locali. Ma si accorge ben presto che in lui la gente cerca il protagonista di una cronaca scandalosa, più che l’artista. Quanti ascoltavano sul serio il suo jazz? E la sua luce, così piena e forte dieci anni prima, era ormai quella tenue e obliqua del tramonto, ad appena trentacinque anni.

chet bakerAnche nel campo discografico la situazione è assai strana: qualche disco per la Limelight (da citare il buon «Baby Breeze») e ben cinque lp per la Prestige su cui è diviso il prodotto di tre giorni di registrazione dell’agosto del 1965, da Rudy Van Gelder, con George Coleman al sax tenore, Kirk Lightsey al pianoforte, Herman Wright al contrabbasso e Roy Brooks alla batteria. Al fianco di queste opere più che accettabili, quattro o cinque commercialissimi dischi per la World Pacific, a livello della più bieca pop music, imprigionano il fantasma di Chet nell’insulsa compagnia dei Mariachi Brass e dei Carmel Strings. Frattanto il suo strumento è diventato il flicorno, simile alla tromba ma assai più ovattato nel suono: l’aveva scoperto quasi per caso a Parigi, nel 1963, dopo l’ennesimo furto della tromba.
Le ultime notizie su Baker che giungono allora in Europa provengono da un vasto reportage di Frank Tenot per Jazz Magazine del luglio-agosto 1968, e fanno stringere il cuore. «Chet Baker vive sulla West Coast, in un luogo che tiene segreto e che nessuno, qui, cerca di scoprire. Compare di tanto in tanto in un locale notturno con la tromba sotto braccio, per una jam session. Lo s’incontra al Playboy Club o al Donte’s, dove una sera ha tentato di suonare con il trio di Jimmy Rowles. Ma, non appena lo vedono arrivare, i musicisti terminano il più in fretta possibile il loro brano e fanno lunghe pause. Eppure lui vuole suonare a ogni costo, con risultati spesso penosi. Per il jazz, Chet è perduto».

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Foto Luciano Viotto

Passano cinque anni. All’improvviso, nel luglio del 1973, una recensione clamorosa da New York: allo Half Note, in un piccolo gruppo diretto dal sassofonista Phil Urso, appare un trombettista che pochi appassionati di quella stanca stagione guardano increduli. Ma è Chet Baker, quello! Al giornalista di Melody Maker Richard Williams, che porta la notizia in Europa, Chet racconta le sue ultime vicende. Rivela che dalla droga si era staccato dal 1970, quando ormai si temeva per la sua vita, salvata invece da una terapia a base di metadone. Gli spacciatori cui probabilmente doveva denaro l’avevano fatto pestare a sangue fratturandogli la mandibola, con la perdita di tutti i denti. Era libero, finalmente, ma ridotto alla fame; fino a quel momento, aveva vissuto di modesti sussidi pubblici per la sua infermità. La tromba per quel suo primo concerto se l’era far dovuta prestare. Dopo tre e passa anni di assoluta inattività, e con una dentiera tutta nuova, le frasi musicali uscivano a volte come un soffio penoso. «Non ho abbastanza forza per stringere i muscoli del volto», spiegava con quella voce ancor più sottile di sempre, «ma non mi preoccupo: ho voglia di lavorare e ce la farò. Sono un ottimista, io». Ma quando gli dissero che, vista quanta gente veniva ad ascoltarlo, il suo ingaggio di due settimane veniva prorogato a tre, mormorò perplesso: «Spero che non vengano soltanto per la curiosità di vedere un relitto del passato».

Come tutti oggi sanno, non è stato solo per quello, da allora in poi.

Gian Mario Maletto