Bud Powell: magnifica ossessione (prima parte)

di Giuseppe Piacentino

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Bud Powell, esponente tra i maggiori in assoluto del primo bebop, fu il vero caposcuola del moderno pianismo jazz: in più la sua vicenda umana si alternò dolorosamente fra parentesi di buio e bagliori di ritrovata creatività, fino alla scomparsa nel 1966, a soli 42 anni.

Bud Powell visse in un’epoca musicale e in una cerchia arti­stica – il bebop, per intender­ci – che imponeva ai suoi accoliti di pensare velocemente, al limite del­le capacità umane. L’assolo bop con­templa per sua natura la massima scelta di soluzioni (coraggiose, acro­batiche e imprevedibili) nel minor tempo possibile. Questo indirizzo estetico fu immensamente gravoso per chi si incaricò di metterlo al mondo. Gran parte dei primi bop­pers non resse psicologicamente al­l’impegno, fu quella una generazione che si bruciò: il bebop nacque ma i suoi padri, come dicemmo qualche anno fa a proposito di Charlie Parker, morirono quasi tutti di parto e in vario modo: Parker e Fats Navar­ro consumati e poi scomparsi preco­cemente; Monk – bopper sui generis – confinato entro problemi psi­chici; Wardell Gray passato dai pa­radisi artificiali a una fine violenta e oscura (altri, come Miles Davis e Dexter Gordon, scamparono mira­colosamente alla maledizione).
Fra tutti loro Bud Powell visse, per quel che ci è dato sapere, il cal­vario più doloroso, comunque il me­glio documentato. Nei suoi ultimi an­ni, come in una tragedia scespiria­na, si tirarono i fili di un’esistenza i cui travagli passarono per la malat­tia mentale, i disturbi nella sfera af­fettiva e gli abusi alcolici. È inevita­bile insistere sui drammi privati del più influente pianista moderno, poi­ché dietro alla sua musica si avver­te costantemente il respiro dell’uo­mo (mentre altre figure, per esem­pio Ornette Coleman, sono intera­mente celate nella loro arte).

La creatività di Bud Powell attiene sempre all’autobiografia o all’autori­trattistica. Vi si possono leggere gli amori musicali e la solitudine, la ma­linconia e l’energia, la vertigine e il disadattamento, gli incubi e le (rare) pacificazioni. Ma di essa ci resterà sempre qualcosa di oscuro, nono­stante l’ampia documentazione di­scografica, nonostante i saggi criti­ci (non troppi, per la verità), nono­stante l’accorato memoriale di Fran­cis Paudras, La danse des infidèles, il grafico pubblicita­rio francese che con Monk fu l’uni­co vero amico di Bud e il cui libro ha fatto da canovaccio allo splendi­do film di Tavernier ‘Round Midnight. Perché numerose sono le doman­de senza risposta nelle quali s’in­ciampa inevitabilmente quando ci si vuole occupare di questo straordi­nario poeta del jazz. Cosa fu all’ori­gine dei suoi disturbi mentali? Per­ché le sue esperienze musicali da un certo momento in poi si svolsero quasi interamente entro la formula del trio? Nella sua esistenza ebbe un qualche influsso negativo anche la droga? Su quest’ultimo punto, co­munque, Paudras smentisce, asse­rendo di non aver mai visto Bud fa­re uso di stupefacenti.

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Sappiamo che Earl «Bud» Powell era nato il 27 settembre 1924 a New York, in una famiglia nella quale la musica aveva un ruolo primario: suo nonno era chitarrista di fla­menco, suo padre William era pia­nista (Jackie McLean lo ricordava co­me un «delizioso, antiquato interpre­te di stride piano»), uno dei suoi fra­telli – William junior – imbracciava tromba e violino. Chi raggiungerà una certa fama, oltre a Bud, sarà un altro fratello, Richie: diventerà pia­nista fisso del quintetto di Clifford Brown e Max Roach fino al giugno 1956, quando un incidente stradale toglierà la vita a lui, alla moglie e al­lo stesso Clifford. Incoraggiato dal padre, Bud cominciò a sei anni a suona­re il pianoforte, e per i successivi sette studiò Debussy, Bach, Liszt, Beethoven, Chopin e Schumann. William senior ricordava quanto suo figlio fosse naturalmente predisposto alla musica, a tal punto da saper ripete­re con facilità al pianoforte anche complicati passaggi. In questi studi classici gli fu compagno un amico d’infanzia, Elmo Hope, divenuto poi un importante pianista di formazio­ne bop e morto d’infarto poco dopo Bud. Con questa educazione musicale alle spalle, non stupisce che i primi interessi jazzistici di Bud si so­stanziassero nella figura di Billy Ky­Ie, pianista del gruppo di John Kir­by, il cui successo era dovuto anche agli adattamenti della musica «colta» europea. Secondo Dizzy Gillespie, Bud era parte di una genealogia nel­la quale proprio Kyle era il padre e Earl Hines il nonno.

26 aprile 1962: Bud Powell in uno studio di Copenaghen durante la registrazione del disco «Bouncing With Bud» per la Storyville.
26 aprile 1962: Bud Powell in uno studio di Copenaghen durante la registrazione del disco «Bouncing With Bud» per
la Storyville.

Di quest’ultimo ascendente si tro­vano esempi più manifesti nel Bud Powell degli esordi: come in una ra­ra registrazione (apparsa su Mythic Sound) del luglio 1944, nella quale il piani­sta appare quale unico accompagna­tore del trombettista Cootie Wil­liams; il brano è, non a caso, West End Blues, e il duo rifà a suo modo la storica performance di Louis Arm­strong ed Earl Hines (la cui anima aleggia nella forma del trillo). La for­mazione classica di Bud Powell la­scerà un’impronta indelebile sulla sua produzione maggiore. Per un triennio Bud frequentò la DeWitt Clinton High School, nel Bronx, ma a quindici anni aveva già lasciato gli studi per esibirsi in pub­blico: dapprima nel complesso del fratello William, poi per conto suo nei club di Coney Island. Furo­no ingaggi di scarso rilievo ma in un periodo importante per la sua forma­zione jazzistica, poiché dopo il lavo­ro Bud passava le nottate nei locali di Harlem; soprattutto al Minton’s, dove si davano appuntamento gli esponenti della nuova generazione. I padri del bebop, salvo Thelonious Monk, sembra che snobbassero questo ragazzino timido e introverso. Come Bud Powell suonasse ai suoi esordi si può dedurre dalle scarse registrazioni effettuate in seno all’or­chestra di Cootie Williams, nella quale lavorò per diciotto mesi tra il 1943 e il 1944. Soprattutto nell’ac­compagnamento dimostrava di pos­sedere già un senso spiccato dell’or­ganizzazione, mentre come solista appariva ben poco rivoluzionario, manifestando peraltro segni d’irre­quietezza. In una versione dal vivo di Royal Garden Blues (sullo stesso Mythic Sound), ad esempio, il suo as­solo è spavaldo e quasi aggressivo: una prima parte ipnotica e martellan­te alla maniera di Lionel Hampton, una seconda centrata esclusivamen­te sui block chords.

In quel periodo Cootie Williams fece per Bud, oltre che da datore di lavoro, anche da tutore legale, poi­ché il pianista era ancora minoren­ne; in quest’ultimo ruolo sembra che avesse impedito al ragazzo di rag­giungere Gillespie, il quale stava co­stituendo al prestigioso Onyx Club, insieme al contrabbassista Oscar Pettiford, un quintetto. Ma, come ha ricordato Gian Mario Maletto nel novembre 1971 su Musica Jazz, non bisogna trascurare il fatto che pro­prio allora incominciarono a manife­starsi i primi segni di squilibrio psi­chico: «II riserbo un po’ imbarazza­to con cui ne hanno parlato gli ami­ci non permette di sapere se un abu­so di droga o di alcol c’entrasse già per qualcosa». Nel corso di una rissa a Filadelfia, Bud fu arrestato per ubriachezza. Se­condo alcuni musicisti, in quell’oc­casione venne picchiato dagli agenti di polizia. Multato e poi rilasciato, cercò di recuperare la serenità rag­giungendo sua madre nella fattoria di Willow Grove, in Pennsylvania. Ma un mese dopo si rese necessa­rio il ricovero. Fu la prima volta in cui i medici lo dichiararono malato di mente. Per dieci mesi Bud rima­se nel reparto psichiatrico del Pil­grim Hospital di New York. Duran­te la sua degenza sembra che par­lasse ininterrottamente a chiunque lo stesse ad ascoltare: un comporta­mento chè contraddiceva quello taciturno tenuto al Minton’s. Quando uscì dalla clinica, fu occu­pato saltuariamente – anche in qual­che registrazione – con vari artisti: ereditò il ruolo che era stato dell’a­mato Billy Kyle nel gruppo di John Kirby, accompagnò Sarah Vaughan, soprattutto tornò a frequentare i bop­pers. Mancava poco alla fine della gavetta.

Il 29 gennaio 1946 entrò in uno stu­dio della Savoy per la sua prima se­duta importante e, per un gioco del destino, a chiamarlo fu Dexter Gor­don, proprio l’uomo che lo avrebbe rievocato, trasformandolo nell’imma­ginario sassofonista Dale Turner, nel film di Tavernier. Del gruppo fa­cevano parte anche Max Roach e Curley Russell. Bud è già perfetta­mente riconoscibile (anche per co­me canticchia a bassa voce durante i suoi assoli), cosa che non pote­va dirsi invece a proposito delle re­gistrazioni di sei mesi prima accan­to al tenorsassofonista Frank Socolow. Tuttavia la sua evoluzione stilisti­ca, prossima a quella del pionieristi­co Al Haig (pianista tuttora da riva­lutare), non è ancora poesia. In tut­te le registrazioni del 1946 si posso­no vedere delle tappe di avvicinamento a questo obiettivo, oltre che la frequenza con la quale Bud è final­mente accolto dagli artisti più pro­gressisti dell’epoca: in studio entre­rà a varie riprese e si troverà in com­pagnia di J.J. Johnson, Sonny Stitt, Kenny Dorham, Fats Navarro, Kenny Clarke. Negli assolo del pianista è ormai compiutamente assimilata la costru­zione bop della frase, e in questo senso a soli ventuno anni Bud può già esser definito – come si è spes­so fatto, per la verità un po’ ridutti­vamente – il «Charlie Parker della tastiera». Nell’uso preponderante della mano destra c’è un ampio svi­luppo del carattere percussivo e os­sessivo sfoggiato al vibrafono da Lio­nel Hampton e, allo stesso tempo, c’è lo schiudersi di un modo di suona­re che influenzerà una generazione di pianisti, Horace Silver in testa. Tut­to ciò è avvertibile, pur tra le impre­cisioni, in Webb City, registrato per la Savoy accanto a Navarro; l’unico brano in quel periodo, tra l’altro, in cui il talento drammatico di Po­well ha occasione di affacciarsi.

Bud Powell nel 1957 durante un ingaggio al Birdland, il locale gestito dal suo manager Oscar Goodstein. La foto è opera di Francis Wolff della Blue Note.
Bud Powell nel 1957 durante un ingaggio al Birdland, il locale gestito dal suo manager Oscar Goodstein. La foto è opera di Francis Wolff della Blue Note.

Nel gennaio 1947 il pianista tirò le somme del suo apprendistato nelle prime, splendide registrazioni co­me titolare (per la Roost). Fu un esordio tardo, ove si pensi, per esempio, che in quei giorni Parker aveva già regalato al jazz numerose registrazioni e una rivoluzione e si trovava ricoverato, dopo un crollo nervoso, al Camarillo State Hospi­tal. Ma fu anche un esordio brucian­te, nel quale Bud Powell dimostrò un’ampiezza di vedute riscontrabile solo nei grandissimi del bop: non ap­pariva, infatti, alcuna cesura nei con­fronti del passato bensì l’accoglimen­to di quest’ultimo entro un nuovo or­dine di idee. Gli otto brani erano stati pescati quasi tutti nel repertorio de­gli evergreens e l’organico era il trio con contrabbasso e batteria (rispet­tivamente Curley Russell e Max Roach); con poche eccezioni queste scelte sarebbero rimaste costanti nell’intera carriera del pianista. Bud Powell è già tutto lì: nel lussu­reggiante lavoro «a tutto campo» del­le mani che fa pensare ad Art Tatum (come nel magnifico avvio di I’ll Re­member April), ma anche nelle vo­late della destra, ormai sicura anche sui tempi più frenetici (Indiana); nel­la capacità di estrarre di continuo nuove cose – e con grande coeren­za – come dal cilindro di un mago, ma anche in certe sghembe reitera­zioni (soprattutto e non a caso nel monkiano Off Minor); nella malinco­nia più struggente (I Should Care) così come in una specie di caustica veemenza (Bud’s Bubble, unico tema a sua firma). Come accadeva spes­so nei trii di Thelonious Monk, i due accompagnatori, nonostante la loro condotta impeccabile, danno l’im­pressione di trovarsi un passo indie­tro rispetto a tanta magnificenza. Di certo, è proprio un simile, risoluto riappropriarsi del passato a dimo­strare che nulla sarà più come prima.

Con la credenziale di tale esordio da titolare Bud Powell poteva ades­so comportarsi da pari a pari con i musicisti trainanti dell’epoca. Nel maggio di quello stesso 1947 venne chiamato in studio da Charlie Parker per registrare quattro brani per la Savoy (Donna Lee, Chasin’ The Bird, Cheryl, Buzzy) in un quintetto com­pletato da Miles Davis, Roach e Tom­my Potter. Bud non sfoggia la natu­ralezza e la pienezza delle prece­denti registrazioni in trio: come ac­compagnatore è una garanzia di di­namismo, ma negli assolo sembra quasi impacciato. A proposito dei rapporti del pia­nista con Charlie Parker c’è un famo­so episodio del quale fu testimone Lennie Tristano, non sappiamo in quale anno ma riportato da Ira Gitler nel volume Jazz Masters Of The Forties: «Stavo seduto con Char­lie e altri musicisti a un tavolo del Bir­dland, quando Powell passò a salu­tarci e poi, senza una ragione appa­rente, fece: “Bird, sei una merda. Non mi fai un baffo. Ormai non suoni altro che merda”, e continuò co­sì a demolirlo senza pietà. Io gli dis­si: “Bud, non parlare così: Bird è co­me tuo padre”. E Bird: “Non farci ca­so, Lennie. A me lui piace come suo­na”. A proposito di Bud, una volta Charlie mi disse: “Credi che sia paz­zo? Gli ho insegnato io a comportar­si così”». Difficile a credersi. Ci vorranno due anni esatti prima che Bud ritor­ni in uno studio di registrazione, e questo lasso di tempo verrà in larga parte occupato da una ricaduta psi­chica. Nel novembre 1947 il pianista fu ricoverato al Creedmoor State Hospital di Long Island; salvo una interruzio­ne di due mesi e mezzo, documen­tata da registrazioni dal vivo al Royal Roost con una all stars comprendente Roach, Buddy DeFranco, Lee Konitz, J.J. John­son e altri, vi rimase fino all’aprile 1949. Fu sottoposto a elettroshock, cura che si rivelava efficace nei ca­si depressivi ma della quale per mol­ti anni si abusò: secondo il sassofo­nista e amico Jackie McLean il trat­tamento ebbe influenza negativa sul­la memoria di Bud.

Come si era verificato per Parker al Camarillo, Powell uscì d’ospeda­le apparentemente rimesso a nuovo. Gli anni a venire dimostreranno che i suoi problemi erano tutt’altro che risolti; ma un temporaneo migliora­mento certamente vi fu, visto che nei mesi successivi il pianista (che fu af­fidato alla tutela legale di Oscar Goodstein, il manager del Birdland) toccò uno dei vertici della sua car­riera. Le sue registrazioni del mag­gio di quel 1949 (su Clef, poi Verve), in trio con Roach e Ray Brown, furo­no eccellenti (tra i titoli di spicco i famosi Tempus Fugit e Celia, que­st’ultimo dedicato alla figlioletta); quelle di agosto per la Blue Note re­stano tuttora incontestabili capolavo­ri di un’epoca nella quale il bebop stava evolvendo verso forme nuove (Miles Davis aveva già varato la Tu­ba Band, prima orchestra cool, nel cui repertorio figurava il brano di Bud Powell Budo). In effetti, sembrava volgere al ter­mine una fase del bop, quella dell’a­zione, quella iconoclasta e vertigino­sa. La raggiunta padronanza dei mezzi espressivi è il presupposto del jazz che si farà negli anni Cinquan­ta, più «pensato» e improntato alla chiarezza, alla lucidità, al perfetto equilibrio tra forma e improvvisazio­ne (si pensi al suo esempio più alto: il quintetto di Clifford Brown e Max Roach), pur mantenendo ove neces­sario la sua tensione drammatica. All’uscita dal Camarillo, Parker appa­re un musicista pacificato e rafforza­to, tanto da celebrare la sua appa­rente «nuova vita» con un brano inti­tolato Relaxin ‘At Camarillo. Le coe­ve registrazioni di Navarro, prima con Tadd Dameron e poi con il sassofonista Don Lanphere, attestano più o meno le stesse cose. Nella seduta dell’agosto 1949 an­che Bud Powell diede testimonian­za di ritrovata serenità espressiva. Basta ascoltare la versione estrema­mente sciolta – realizzata in trio – del classico Ornithology. Nemmeno un anno dopo, peraltro, allo stesso brano fu riservato un trattamento sensibilmente diverso. Venne regi­strato dal vivo al Birdland forse il 17 maggio 1950 da un quin­tetto comprendente Parker, Navarro e Art Blakey. A Powell si deve un’introduzione furibonda, con una mano destra febbrile e una sini­stra che, più che alla puntualizzazio­ne ritmica, sembra interessata a in­vestire con violenza la linea melodi­ca. Nelle interpretazioni squisita­mente boppistiche, in effetti, Bud adottava un uso cupo e brutale dei bassi al quale faranno poi riferimen­to, in diverso modo, Mal Waldron e Don Pullen.

Una delle più celebri foto nella storia del jazz: i coetanei Max Roach e Bud Powell (entrambi nati nel 1924) in uno studio newyorkese nel 1950. (foto di Gilles Petard/Redferns)
Una delle più celebri foto nella storia del jazz: i coetanei Max Roach e Bud Powell (entrambi nati nel 1924) in uno studio newyorkese nel 1950. (foto di Gilles Petard/Redferns)

Con il quintetto riunito quell’esta­te del 1949 – e composto da Navarro, da un diciannovenne Sonny Rol­lins, da Tommy Potter e Roy Haynes – Bud Powell ritrovò la rotondità di linguaggio già manifestatasi nella prima seduta sotto suo nome. Le re­gistrazioni si sarebbero poi raccol­te in un ciclo che la Blue Note chia­mò, a giusto titolo, «The Amazing Bud Powell».Il pia­nista diede stavolta spazio a proprie composizioni, che andarono dalla souplesse di Bouncing With Bud al vitalistico slancio di Wail, alle bizzar­re invenzioni di Dance Of The lnfi­dels, aperto da un marziale unisono e rallegrato dal frequente ricorso allo stop-time. Per ciascun brano furono registra­te più takes: il divario tra quelle uffi­ciali e quelle scartate è minimo, tal­volta inesistente. Il quarto brano per quintetto, 52nd Street Theme, mo­stra con quanto divertimento il pia­nista si applicasse alle composizio­ni di Monk. Queste registrazioni so­no già la dimostrazione di quanto la «filosofia» bop del pianista fosse bi­fronte: guardava, cioè, al passato e contemporaneamente al futuro. La forma di Bud Powell fu altrettan­to smagliante nelle sedute Prestige, alle quali prese parte nei successi­vi dicembre e gennaio, in un quar­tetto codiretto da Sonny Stitt (in quel­la circostanza al sax tenore). Al sas­sofonista parve che in quei giorni le condizioni di spirito di Bud non fos­sero delle migliori, e conoscendo il suo senso dell’orgoglio lo provocò dicendogli sarcasticamente: «Ecco il grande Bud Powell…». Il colpo andò a segno; e nel corso della seduta il pianista restò talmente elettrizzato da rivolgersi in tono sconcertante a Bob Weinstock, presidente della casa di­scografica: «Ehi, ciccione, va’ a com­prarmi un paio di panini!».

Con una carica vitale che sfiora la giocosità, Bud ha ancora una volta la piena padronanza dello spazio: com­bina sapientemente le ottave gravi e quelle acute con un brulicante viavai delle mani, riempie con intelli­genza i vuoti lasciati dall’eccellente Stitt durante gli assoli, si ricorda pa­rimenti della sua educazione Swing e della sua vocazione modernista. Perché una simile coscienza dei vo­lumi si manifesti in un altro pianista bisognerà attendere l’avvento di Bill Evans. Il quale, nel corso di un’inter­vista, dichiarò: «Ci sono diversi gene­ri di emozione: ce ne sono di facili, di superficiali, e poi ce ne sono altri che non fanno ridere, che non fan­no piangere, che fanno provare so­lo una sensazione di assoluto. È ciò che ho provato con Bud. Si prova for­se, qualche volta, la stessa sensazio­ne con Beethoven … ». Nei mesi successivi Bud Powell si esibì con un proprio trio ma anche con Parker, Navarro, Gillespie, Sarah Vaughan, Miles Davis. E riaffio­rò in lui, nonostante l’ottimo rendi­mento artistico del periodo, la co­scienza della propria condizione. Nell’eccellente seduta per piano so­lo del febbraio 1951 (Clef, poi Verve) ribattezzò la propria composizione Budo col titolo Hallucinations. Un suo nuovo pezzo, invece, fu da lui chiamato Oblivion, «oblio». Ancora un riferimento alla sua solitudine mentale venne dalla seduta Blue No­te del maggio successivo, un trio con Curley Russell e Roach: si trat­tava di Un Poco Loco, che in spagno­lo significa «un po’ matto». Un paio d’anni dopo, Glass Enclo­sure («gabbia di vetro») si riferiva alle vetrate dell’appartamento di Oscar Goodstein, nel quale era stato segregato. E in epoca più tarda Bud dedicherà un blues al sanatorio di Bouffemont, dove sarebbe stato ricoverato per tubercolosi. Nessun altro musicista di jazz ha avuto il coraggio – o la sfrontatezza, oppure l’ossessione – di rendere così espliciti i propri tormenti.

Un Poco Loco è il Night In Tunisia di Bud Powell, un pezzo stratificato, fitto di esotismi, forse imperfetto se lo guardiamo con occhio esclusiva­mente musicologico. Tuttavia esso, oltre a racchiudere in sé gli umori dell’epoca (non c’era gruppo bop, nella prima metà degli anrli Cin­quanta, che non avesse in reperto­rio almeno un pezzo di sapore latin), sintetizza drammaticamente la condizione umana del pianista: nel­la prima parte si alternano momenti di tensione e di distensione; poi il brano s’impantana in una lunga e os­sessiva turquerie dalla quale Bud sembra non farcela a uscire: la solu­zione, un po’ rudimentale, sarà inter­romperla con un assolo di Max Roach.

Giuseppe Piacentino

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