Bud Powell, esponente tra i maggiori in assoluto del primo bebop, fu il vero caposcuola del moderno pianismo jazz: in più la sua vicenda umana si alternò dolorosamente fra parentesi di buio e bagliori di ritrovata creatività, fino alla scomparsa nel 1966, a soli 42 anni.
Bud Powell visse in un’epoca musicale e in una cerchia artistica – il bebop, per intenderci – che imponeva ai suoi accoliti di pensare velocemente, al limite delle capacità umane. L’assolo bop contempla per sua natura la massima scelta di soluzioni (coraggiose, acrobatiche e imprevedibili) nel minor tempo possibile. Questo indirizzo estetico fu immensamente gravoso per chi si incaricò di metterlo al mondo. Gran parte dei primi boppers non resse psicologicamente all’impegno, fu quella una generazione che si bruciò: il bebop nacque ma i suoi padri, come dicemmo qualche anno fa a proposito di Charlie Parker, morirono quasi tutti di parto e in vario modo: Parker e Fats Navarro consumati e poi scomparsi precocemente; Monk – bopper sui generis – confinato entro problemi psichici; Wardell Gray passato dai paradisi artificiali a una fine violenta e oscura (altri, come Miles Davis e Dexter Gordon, scamparono miracolosamente alla maledizione).
Fra tutti loro Bud Powell visse, per quel che ci è dato sapere, il calvario più doloroso, comunque il meglio documentato. Nei suoi ultimi anni, come in una tragedia scespiriana, si tirarono i fili di un’esistenza i cui travagli passarono per la malattia mentale, i disturbi nella sfera affettiva e gli abusi alcolici. È inevitabile insistere sui drammi privati del più influente pianista moderno, poiché dietro alla sua musica si avverte costantemente il respiro dell’uomo (mentre altre figure, per esempio Ornette Coleman, sono interamente celate nella loro arte).
La creatività di Bud Powell attiene sempre all’autobiografia o all’autoritrattistica. Vi si possono leggere gli amori musicali e la solitudine, la malinconia e l’energia, la vertigine e il disadattamento, gli incubi e le (rare) pacificazioni. Ma di essa ci resterà sempre qualcosa di oscuro, nonostante l’ampia documentazione discografica, nonostante i saggi critici (non troppi, per la verità), nonostante l’accorato memoriale di Francis Paudras, La danse des infidèles, il grafico pubblicitario francese che con Monk fu l’unico vero amico di Bud e il cui libro ha fatto da canovaccio allo splendido film di Tavernier ‘Round Midnight. Perché numerose sono le domande senza risposta nelle quali s’inciampa inevitabilmente quando ci si vuole occupare di questo straordinario poeta del jazz. Cosa fu all’origine dei suoi disturbi mentali? Perché le sue esperienze musicali da un certo momento in poi si svolsero quasi interamente entro la formula del trio? Nella sua esistenza ebbe un qualche influsso negativo anche la droga? Su quest’ultimo punto, comunque, Paudras smentisce, asserendo di non aver mai visto Bud fare uso di stupefacenti.
Sappiamo che Earl «Bud» Powell era nato il 27 settembre 1924 a New York, in una famiglia nella quale la musica aveva un ruolo primario: suo nonno era chitarrista di flamenco, suo padre William era pianista (Jackie McLean lo ricordava come un «delizioso, antiquato interprete di stride piano»), uno dei suoi fratelli – William junior – imbracciava tromba e violino. Chi raggiungerà una certa fama, oltre a Bud, sarà un altro fratello, Richie: diventerà pianista fisso del quintetto di Clifford Brown e Max Roach fino al giugno 1956, quando un incidente stradale toglierà la vita a lui, alla moglie e allo stesso Clifford. Incoraggiato dal padre, Bud cominciò a sei anni a suonare il pianoforte, e per i successivi sette studiò Debussy, Bach, Liszt, Beethoven, Chopin e Schumann. William senior ricordava quanto suo figlio fosse naturalmente predisposto alla musica, a tal punto da saper ripetere con facilità al pianoforte anche complicati passaggi. In questi studi classici gli fu compagno un amico d’infanzia, Elmo Hope, divenuto poi un importante pianista di formazione bop e morto d’infarto poco dopo Bud. Con questa educazione musicale alle spalle, non stupisce che i primi interessi jazzistici di Bud si sostanziassero nella figura di Billy KyIe, pianista del gruppo di John Kirby, il cui successo era dovuto anche agli adattamenti della musica «colta» europea. Secondo Dizzy Gillespie, Bud era parte di una genealogia nella quale proprio Kyle era il padre e Earl Hines il nonno.
Di quest’ultimo ascendente si trovano esempi più manifesti nel Bud Powell degli esordi: come in una rara registrazione (apparsa su Mythic Sound) del luglio 1944, nella quale il pianista appare quale unico accompagnatore del trombettista Cootie Williams; il brano è, non a caso, West End Blues, e il duo rifà a suo modo la storica performance di Louis Armstrong ed Earl Hines (la cui anima aleggia nella forma del trillo). La formazione classica di Bud Powell lascerà un’impronta indelebile sulla sua produzione maggiore. Per un triennio Bud frequentò la DeWitt Clinton High School, nel Bronx, ma a quindici anni aveva già lasciato gli studi per esibirsi in pubblico: dapprima nel complesso del fratello William, poi per conto suo nei club di Coney Island. Furono ingaggi di scarso rilievo ma in un periodo importante per la sua formazione jazzistica, poiché dopo il lavoro Bud passava le nottate nei locali di Harlem; soprattutto al Minton’s, dove si davano appuntamento gli esponenti della nuova generazione. I padri del bebop, salvo Thelonious Monk, sembra che snobbassero questo ragazzino timido e introverso. Come Bud Powell suonasse ai suoi esordi si può dedurre dalle scarse registrazioni effettuate in seno all’orchestra di Cootie Williams, nella quale lavorò per diciotto mesi tra il 1943 e il 1944. Soprattutto nell’accompagnamento dimostrava di possedere già un senso spiccato dell’organizzazione, mentre come solista appariva ben poco rivoluzionario, manifestando peraltro segni d’irrequietezza. In una versione dal vivo di Royal Garden Blues (sullo stesso Mythic Sound), ad esempio, il suo assolo è spavaldo e quasi aggressivo: una prima parte ipnotica e martellante alla maniera di Lionel Hampton, una seconda centrata esclusivamente sui block chords.
In quel periodo Cootie Williams fece per Bud, oltre che da datore di lavoro, anche da tutore legale, poiché il pianista era ancora minorenne; in quest’ultimo ruolo sembra che avesse impedito al ragazzo di raggiungere Gillespie, il quale stava costituendo al prestigioso Onyx Club, insieme al contrabbassista Oscar Pettiford, un quintetto. Ma, come ha ricordato Gian Mario Maletto nel novembre 1971 su Musica Jazz, non bisogna trascurare il fatto che proprio allora incominciarono a manifestarsi i primi segni di squilibrio psichico: «II riserbo un po’ imbarazzato con cui ne hanno parlato gli amici non permette di sapere se un abuso di droga o di alcol c’entrasse già per qualcosa». Nel corso di una rissa a Filadelfia, Bud fu arrestato per ubriachezza. Secondo alcuni musicisti, in quell’occasione venne picchiato dagli agenti di polizia. Multato e poi rilasciato, cercò di recuperare la serenità raggiungendo sua madre nella fattoria di Willow Grove, in Pennsylvania. Ma un mese dopo si rese necessario il ricovero. Fu la prima volta in cui i medici lo dichiararono malato di mente. Per dieci mesi Bud rimase nel reparto psichiatrico del Pilgrim Hospital di New York. Durante la sua degenza sembra che parlasse ininterrottamente a chiunque lo stesse ad ascoltare: un comportamento chè contraddiceva quello taciturno tenuto al Minton’s. Quando uscì dalla clinica, fu occupato saltuariamente – anche in qualche registrazione – con vari artisti: ereditò il ruolo che era stato dell’amato Billy Kyle nel gruppo di John Kirby, accompagnò Sarah Vaughan, soprattutto tornò a frequentare i boppers. Mancava poco alla fine della gavetta.
Il 29 gennaio 1946 entrò in uno studio della Savoy per la sua prima seduta importante e, per un gioco del destino, a chiamarlo fu Dexter Gordon, proprio l’uomo che lo avrebbe rievocato, trasformandolo nell’immaginario sassofonista Dale Turner, nel film di Tavernier. Del gruppo facevano parte anche Max Roach e Curley Russell. Bud è già perfettamente riconoscibile (anche per come canticchia a bassa voce durante i suoi assoli), cosa che non poteva dirsi invece a proposito delle registrazioni di sei mesi prima accanto al tenorsassofonista Frank Socolow. Tuttavia la sua evoluzione stilistica, prossima a quella del pionieristico Al Haig (pianista tuttora da rivalutare), non è ancora poesia. In tutte le registrazioni del 1946 si possono vedere delle tappe di avvicinamento a questo obiettivo, oltre che la frequenza con la quale Bud è finalmente accolto dagli artisti più progressisti dell’epoca: in studio entrerà a varie riprese e si troverà in compagnia di J.J. Johnson, Sonny Stitt, Kenny Dorham, Fats Navarro, Kenny Clarke. Negli assolo del pianista è ormai compiutamente assimilata la costruzione bop della frase, e in questo senso a soli ventuno anni Bud può già esser definito – come si è spesso fatto, per la verità un po’ riduttivamente – il «Charlie Parker della tastiera». Nell’uso preponderante della mano destra c’è un ampio sviluppo del carattere percussivo e ossessivo sfoggiato al vibrafono da Lionel Hampton e, allo stesso tempo, c’è lo schiudersi di un modo di suonare che influenzerà una generazione di pianisti, Horace Silver in testa. Tutto ciò è avvertibile, pur tra le imprecisioni, in Webb City, registrato per la Savoy accanto a Navarro; l’unico brano in quel periodo, tra l’altro, in cui il talento drammatico di Powell ha occasione di affacciarsi.
Nel gennaio 1947 il pianista tirò le somme del suo apprendistato nelle prime, splendide registrazioni come titolare (per la Roost). Fu un esordio tardo, ove si pensi, per esempio, che in quei giorni Parker aveva già regalato al jazz numerose registrazioni e una rivoluzione e si trovava ricoverato, dopo un crollo nervoso, al Camarillo State Hospital. Ma fu anche un esordio bruciante, nel quale Bud Powell dimostrò un’ampiezza di vedute riscontrabile solo nei grandissimi del bop: non appariva, infatti, alcuna cesura nei confronti del passato bensì l’accoglimento di quest’ultimo entro un nuovo ordine di idee. Gli otto brani erano stati pescati quasi tutti nel repertorio degli evergreens e l’organico era il trio con contrabbasso e batteria (rispettivamente Curley Russell e Max Roach); con poche eccezioni queste scelte sarebbero rimaste costanti nell’intera carriera del pianista. Bud Powell è già tutto lì: nel lussureggiante lavoro «a tutto campo» delle mani che fa pensare ad Art Tatum (come nel magnifico avvio di I’ll Remember April), ma anche nelle volate della destra, ormai sicura anche sui tempi più frenetici (Indiana); nella capacità di estrarre di continuo nuove cose – e con grande coerenza – come dal cilindro di un mago, ma anche in certe sghembe reiterazioni (soprattutto e non a caso nel monkiano Off Minor); nella malinconia più struggente (I Should Care) così come in una specie di caustica veemenza (Bud’s Bubble, unico tema a sua firma). Come accadeva spesso nei trii di Thelonious Monk, i due accompagnatori, nonostante la loro condotta impeccabile, danno l’impressione di trovarsi un passo indietro rispetto a tanta magnificenza. Di certo, è proprio un simile, risoluto riappropriarsi del passato a dimostrare che nulla sarà più come prima.
Con la credenziale di tale esordio da titolare Bud Powell poteva adesso comportarsi da pari a pari con i musicisti trainanti dell’epoca. Nel maggio di quello stesso 1947 venne chiamato in studio da Charlie Parker per registrare quattro brani per la Savoy (Donna Lee, Chasin’ The Bird, Cheryl, Buzzy) in un quintetto completato da Miles Davis, Roach e Tommy Potter. Bud non sfoggia la naturalezza e la pienezza delle precedenti registrazioni in trio: come accompagnatore è una garanzia di dinamismo, ma negli assolo sembra quasi impacciato. A proposito dei rapporti del pianista con Charlie Parker c’è un famoso episodio del quale fu testimone Lennie Tristano, non sappiamo in quale anno ma riportato da Ira Gitler nel volume Jazz Masters Of The Forties: «Stavo seduto con Charlie e altri musicisti a un tavolo del Birdland, quando Powell passò a salutarci e poi, senza una ragione apparente, fece: “Bird, sei una merda. Non mi fai un baffo. Ormai non suoni altro che merda”, e continuò così a demolirlo senza pietà. Io gli dissi: “Bud, non parlare così: Bird è come tuo padre”. E Bird: “Non farci caso, Lennie. A me lui piace come suona”. A proposito di Bud, una volta Charlie mi disse: “Credi che sia pazzo? Gli ho insegnato io a comportarsi così”». Difficile a credersi. Ci vorranno due anni esatti prima che Bud ritorni in uno studio di registrazione, e questo lasso di tempo verrà in larga parte occupato da una ricaduta psichica. Nel novembre 1947 il pianista fu ricoverato al Creedmoor State Hospital di Long Island; salvo una interruzione di due mesi e mezzo, documentata da registrazioni dal vivo al Royal Roost con una all stars comprendente Roach, Buddy DeFranco, Lee Konitz, J.J. Johnson e altri, vi rimase fino all’aprile 1949. Fu sottoposto a elettroshock, cura che si rivelava efficace nei casi depressivi ma della quale per molti anni si abusò: secondo il sassofonista e amico Jackie McLean il trattamento ebbe influenza negativa sulla memoria di Bud.
Come si era verificato per Parker al Camarillo, Powell uscì d’ospedale apparentemente rimesso a nuovo. Gli anni a venire dimostreranno che i suoi problemi erano tutt’altro che risolti; ma un temporaneo miglioramento certamente vi fu, visto che nei mesi successivi il pianista (che fu affidato alla tutela legale di Oscar Goodstein, il manager del Birdland) toccò uno dei vertici della sua carriera. Le sue registrazioni del maggio di quel 1949 (su Clef, poi Verve), in trio con Roach e Ray Brown, furono eccellenti (tra i titoli di spicco i famosi Tempus Fugit e Celia, quest’ultimo dedicato alla figlioletta); quelle di agosto per la Blue Note restano tuttora incontestabili capolavori di un’epoca nella quale il bebop stava evolvendo verso forme nuove (Miles Davis aveva già varato la Tuba Band, prima orchestra cool, nel cui repertorio figurava il brano di Bud Powell Budo). In effetti, sembrava volgere al termine una fase del bop, quella dell’azione, quella iconoclasta e vertiginosa. La raggiunta padronanza dei mezzi espressivi è il presupposto del jazz che si farà negli anni Cinquanta, più «pensato» e improntato alla chiarezza, alla lucidità, al perfetto equilibrio tra forma e improvvisazione (si pensi al suo esempio più alto: il quintetto di Clifford Brown e Max Roach), pur mantenendo ove necessario la sua tensione drammatica. All’uscita dal Camarillo, Parker appare un musicista pacificato e rafforzato, tanto da celebrare la sua apparente «nuova vita» con un brano intitolato Relaxin ‘At Camarillo. Le coeve registrazioni di Navarro, prima con Tadd Dameron e poi con il sassofonista Don Lanphere, attestano più o meno le stesse cose. Nella seduta dell’agosto 1949 anche Bud Powell diede testimonianza di ritrovata serenità espressiva. Basta ascoltare la versione estremamente sciolta – realizzata in trio – del classico Ornithology. Nemmeno un anno dopo, peraltro, allo stesso brano fu riservato un trattamento sensibilmente diverso. Venne registrato dal vivo al Birdland forse il 17 maggio 1950 da un quintetto comprendente Parker, Navarro e Art Blakey. A Powell si deve un’introduzione furibonda, con una mano destra febbrile e una sinistra che, più che alla puntualizzazione ritmica, sembra interessata a investire con violenza la linea melodica. Nelle interpretazioni squisitamente boppistiche, in effetti, Bud adottava un uso cupo e brutale dei bassi al quale faranno poi riferimento, in diverso modo, Mal Waldron e Don Pullen.
Con il quintetto riunito quell’estate del 1949 – e composto da Navarro, da un diciannovenne Sonny Rollins, da Tommy Potter e Roy Haynes – Bud Powell ritrovò la rotondità di linguaggio già manifestatasi nella prima seduta sotto suo nome. Le registrazioni si sarebbero poi raccolte in un ciclo che la Blue Note chiamò, a giusto titolo, «The Amazing Bud Powell».Il pianista diede stavolta spazio a proprie composizioni, che andarono dalla souplesse di Bouncing With Bud al vitalistico slancio di Wail, alle bizzarre invenzioni di Dance Of The lnfidels, aperto da un marziale unisono e rallegrato dal frequente ricorso allo stop-time. Per ciascun brano furono registrate più takes: il divario tra quelle ufficiali e quelle scartate è minimo, talvolta inesistente. Il quarto brano per quintetto, 52nd Street Theme, mostra con quanto divertimento il pianista si applicasse alle composizioni di Monk. Queste registrazioni sono già la dimostrazione di quanto la «filosofia» bop del pianista fosse bifronte: guardava, cioè, al passato e contemporaneamente al futuro. La forma di Bud Powell fu altrettanto smagliante nelle sedute Prestige, alle quali prese parte nei successivi dicembre e gennaio, in un quartetto codiretto da Sonny Stitt (in quella circostanza al sax tenore). Al sassofonista parve che in quei giorni le condizioni di spirito di Bud non fossero delle migliori, e conoscendo il suo senso dell’orgoglio lo provocò dicendogli sarcasticamente: «Ecco il grande Bud Powell…». Il colpo andò a segno; e nel corso della seduta il pianista restò talmente elettrizzato da rivolgersi in tono sconcertante a Bob Weinstock, presidente della casa discografica: «Ehi, ciccione, va’ a comprarmi un paio di panini!».
Con una carica vitale che sfiora la giocosità, Bud ha ancora una volta la piena padronanza dello spazio: combina sapientemente le ottave gravi e quelle acute con un brulicante viavai delle mani, riempie con intelligenza i vuoti lasciati dall’eccellente Stitt durante gli assoli, si ricorda parimenti della sua educazione Swing e della sua vocazione modernista. Perché una simile coscienza dei volumi si manifesti in un altro pianista bisognerà attendere l’avvento di Bill Evans. Il quale, nel corso di un’intervista, dichiarò: «Ci sono diversi generi di emozione: ce ne sono di facili, di superficiali, e poi ce ne sono altri che non fanno ridere, che non fanno piangere, che fanno provare solo una sensazione di assoluto. È ciò che ho provato con Bud. Si prova forse, qualche volta, la stessa sensazione con Beethoven … ». Nei mesi successivi Bud Powell si esibì con un proprio trio ma anche con Parker, Navarro, Gillespie, Sarah Vaughan, Miles Davis. E riaffiorò in lui, nonostante l’ottimo rendimento artistico del periodo, la coscienza della propria condizione. Nell’eccellente seduta per piano solo del febbraio 1951 (Clef, poi Verve) ribattezzò la propria composizione Budo col titolo Hallucinations. Un suo nuovo pezzo, invece, fu da lui chiamato Oblivion, «oblio». Ancora un riferimento alla sua solitudine mentale venne dalla seduta Blue Note del maggio successivo, un trio con Curley Russell e Roach: si trattava di Un Poco Loco, che in spagnolo significa «un po’ matto». Un paio d’anni dopo, Glass Enclosure («gabbia di vetro») si riferiva alle vetrate dell’appartamento di Oscar Goodstein, nel quale era stato segregato. E in epoca più tarda Bud dedicherà un blues al sanatorio di Bouffemont, dove sarebbe stato ricoverato per tubercolosi. Nessun altro musicista di jazz ha avuto il coraggio – o la sfrontatezza, oppure l’ossessione – di rendere così espliciti i propri tormenti.
Un Poco Loco è il Night In Tunisia di Bud Powell, un pezzo stratificato, fitto di esotismi, forse imperfetto se lo guardiamo con occhio esclusivamente musicologico. Tuttavia esso, oltre a racchiudere in sé gli umori dell’epoca (non c’era gruppo bop, nella prima metà degli anrli Cinquanta, che non avesse in repertorio almeno un pezzo di sapore latin), sintetizza drammaticamente la condizione umana del pianista: nella prima parte si alternano momenti di tensione e di distensione; poi il brano s’impantana in una lunga e ossessiva turquerie dalla quale Bud sembra non farcela a uscire: la soluzione, un po’ rudimentale, sarà interromperla con un assolo di Max Roach.
Giuseppe Piacentino
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