Nessun altro musicista di jazz ha avuto il coraggio o l’ossessione di rendere così espliciti i propri tormenti.
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Non fu tanto un compiuto pezzo di musica, Un Poco Loco, bensì una storia personale e forse un presagio. Tre mesi dopo la registrazione Bud ebbe una nuova crisi, anche questa volta preceduta da guai con la legge. Nel suo libro Francis Paudras rievoca l’episodio riportando anche il verbale di polizia del giugno 1951, che incriminava Bud per spaccio di stupefacenti. In realtà, il pianista avrebbe semplicemente ceduto alle insistenze di una ragazza che pretendeva da lui uno spinello, chiedendo in cambio la cifra simbolica di un dollaro. Finì in carcere per un breve e tormentato periodo, poi al Pilgrim Hospital, dove la sua permanenza si protrasse stavolta per diciotto mesi e dove fu nuovamente sottoposto a elettroshock. Gli psichiatri parlarono di schizofrenia aggravata dalla droga e dall’abuso di alcol. A nulla servivano l’affetto degli amici, il seguito di pubblico, i tentativi della madre – che secondo Leonard Feather era una donna semplice e pia che non capì mai gli affanni del figlio – di riportare Bud in carreggiata: come accadde anche questa volta in una nuova convalescenza a Willow Grove.
Dimesso dall’ospedale, Bud Powell riprese l’attività con un’altalenante salute mentale, fu visto spesso al Birdland (Goodstein era ancora il suo tutore legale), poté dirigere dei propri trii con i quali suonò sia in concerto sia in studio di registrazione. Il repertorio era costituito da classici del bop (Salt Peanuts, Woody’n You, Night In Tunisia), da composizioni proprie (soprattutto Budo e Dance Of The Infidels) e da parecchi standard (Nice Work If You Can Get It, Embraceable You, I’ve Got You Under My Skin, Hallelujah, I Want To Be Happy). Non di rado il suo cammino s’intrecciò con quello di Charlie Parker, e i risultati artistici dipendevano allora esclusivamente dalle precarie condizioni d’umore di entrambi. Charles Mingus, che in quel periodo fu più volte il bassista di Bud Powell, sarà testimone di una drammatica serata durante la quale i due geni del bop s’investirono a più riprese. Al punto che Mingus dovette prendere il microfono in mano per dissociarsi pubblicamente: «È gente malata». La nuova generazione del jazz moderno prendeva, con quel gesto, le distanze dai padri. Altre volte la situazione era nettamente migliore, come avvenne alla Massey Hall di Toronto il 15 maggio 1953, quando sotto l’insegna di «Quintet Of The Year» furono riuniti Parker, Gillespie, Powell, Mingus e Roach (gli ultimi tre si esibirono anche da soli per metà del concerto). L’evento venne registrato (la parte in quintetto e quella in trio sono reperibili in due cd separati) e poi pubblicato da Mingus presso la propria etichetta Debut (Norman Granz, patron della Verve, aveva declinato l’offerta giudicandola troppo onerosa). Si parlò in seguito per questo concerto di «canto del cigno» del bebop; di certo, ben difficilmente la salute di Bird e Bud, in quegli anni, avrebbe potuto garantire migliori risultati dal loro incontro, grazie anche al rigore professionale dei due ritmi e al buonumore instillato da Gillespie. Le condizioni del pianista erano tali da non lasciare affatto pensare a un «canto del cigno»: l’assolo in Night In Tunisia vanta una straordinaria successione di invenzioni; il trattamento di Sure Thing applica alla ballad le involuzioni del contrappunto barocco. Non c’era altro pianista, in quegli anni, che potesse permettersi una simile disinvoltura, e allo stesso tempo una rapidità immaginativa e una cura della forma nell’effimero spazio dell’improvvisazione.
Il 1953, del resto, fu per lui un’annata di rendimento quasi costantemente alto, come dimostrano le numerose registrazioni dal vivo. La Blue Note se lo assicurò per una seduta la vigilia di Ferragosto, in trio con due dei suoi ritmi prediletti, il bassista George Duvivier e il batterista Art Taylor. La souplesse che governava gli eccellenti Reets And I e Collard Greens And Black-Eyed Peas, quest’ultimo un blues afro-cubano, non nascondeva l’assunzione sempre più marcata, nella musica di Bud, di colori scuri, tendenza che sfocia nel capolavoro della seduta, Glass Enclosure. Nell’arco di neanche due minuti e mezzo il pianista tocca uno dei punti più lontani dal bop che si potessero concepire allora: il brano è interamente scritto, senza improvvisazione, il bassista fa ampio uso dell’archetto, nella sintassi il jazz è quasi del tutto assente, viene recuperata la struttura multitematica che i boppers avevano abolito (qui, invece, vi sono parti ben precise, delle quali apertura e chiusura sono rappresentate da un’austera marcia cerimoniale). La coerenza di Glass Enclosure, diviso com’è in capitoli, non sta nella costruzione ma nella sua sconcertante solennità drammatica (una versione dal vivo di venti giorni dopo appare, in questo senso, più sfumata). Un esperimento analogo era stato tentato nel giugno dello stesso anno dal nascente Modern Jazz Quartet in The Queen ‘s Fancy, ma con risultati opposti: la leggerezza in luogo della cupezza e della visionarietà, e una perfetta organizzazione formale.
Con tutta evidenza, Bud Powell si poneva in quel periodo dei problemi di ordine musicale: o meglio, li intuiva. Primo fra tutti la direzione che avrebbe dovuto prendere il bebop; un’estetica che, peraltro, egli aveva abbracciato solo parzialmente. Tra le testimonianze in proposito, una riferisce del desiderio di Bud che i suoi brani fossero interpretati da un’orchestra di cinquantacinque elementi. In quella prima metà degli anni Cinquanta il pianista appare sempre più una sorta di masso erratico nella storia del jazz. Il suo essere attuale era paradossalmente slegato dalle tendenze del momento, e si manifestava in vari modi: l’assunzione di Art Tatum, ossia di una figura fuori del tempo, a pianista prediletto; l’estraneità a scuole e movimenti; forse proprio l’adozione definitiva della formula del trio, un piccolo regno che poteva governare per conto suo. Fu l’intermittenza della lucidità mentale a impedirgli di affrontare con raziocinio quei problemi che altri jazzisti avvertivano. Gli anni che seguirono furono dominati proprio da una tale precarietà. George Duvivier ricordava che c’erano sere in cui lui e Art Taylor restavano spiazzati dalla magistrale arditezza delle idee di Bud, e altre nelle quali il pianista non riusciva nemmeno a seguire il ritmo. L’uomo era capace di perdere la sua dignità elemosinando un bicchiere di alcol presso gli sconosciuti; quando falliva era capace di ingollare dalle dieci alle venti Coca Cola o ginger ale per sera (Paudras riferisce quanto incredibile fosse nel pianista il bisogno di assumere liquidi). Ma lo stesso uomo era anche capace di soprassalti d’orgoglio. È ormai famoso l’episodio in cui lui e Art Tatum si trovarono nella stessa serata al Birdland. Sembra che Bud avesse fatto notare al più anziano collega degli errori nel corso di un’esecuzione; questi replicò definendolo «pianista con la sola mano destra». La sera successiva Bud eseguì Sometimes l’m Happy con la sola sinistra e a un tempo infernale anche se, a sentire un trafiletto uscito nel 1955 su Jazz Magazine, dopo il commento di Tatum si sarebbe ferito volontariamente la sinistra con un temperino, dimostrando poi di poter suonare egualmente.
Deluse profondamente il pubblico la sua prima tournée europea, con un «pacchetto» di artisti riuniti sotto l’insegna «Birdland ‘56» (Miles Davis, Lester Young, il Modem Jazz Quartet), che toccò anche Milano e Torino. Ma va considerato che appena cinque mesi prima era morto il fratello Richie: tragedia che lo aveva scosso e che in varie occasioni avrebbe indirettamente rievocato interpretando I Remember Clifford. Nonostante il disastroso rendimento, comunque, il soggiorno in Europa fu importante. Bud da qualche tempo era legato sentimentalmente a una donna di nome Altevia (della prima moglie non si sa quasi nulla), ma da tutti chiamata «Buttercup», e sembra fosse stata proprio lei a pensare che un trasferimento nel Vecchio Continente avrebbe potuto giovare alla salute del pianista. Ritornato negli Usa, Bud Powell realizzò subito due dischi in trio (RCA) quasi interamente d’impronta boppistica, ove spiccava la dispiegata cantabilità «golsoniana» di Oblivion. Più importanti furono le registrazioni, effettuate per la Blue Note tra il 1957 e il 1958, che avrebbero costituito materiale per tre album: «Bud!», «Time Waits» e «The Scene Changes». Al primo di essi partecipò anche, in tre brani, il trombonista Curtis Fuller. Tra le curiosità figura Bud On Bach, un pezzo in solitudine nel quale il pianista interpreta un solfeggio che aveva studiato da ragazzino e poi lo rilegge in chiave jazzistica. John’s Abbey è uno scattante veicolo boppistico che si chiude con una marcia solenne. Monopoly è una non dissimulata rilettura del monkiano Thelonious con tanto di quelle sequenze stride così care all’amico. In Cleopatra’s Dream il pianista sembra divertirsi a costruire ossessive geometrie sulla logica del bop. Tutto ciò per dire come i tre Blue Note costituiscano un ritratto a tutto tondo dell’arte di Powell.
Bisogna fare, a questo punto, una breve digressione. La trattazione cronologica delle scuole di pensiero, generalmente adottata dalle storie del jazz, ha il merito di una grande chiarezza ma, in alcuni frangenti, necessita di precisazioni. Siamo alle soglie del 1959 e, secondo quella impostazione, le storie del jazz non trattano più Bud Powell da parecchie pagine: è infatti un pianista assimilato alla scuola bebop e, nel frattempo, ci sono stati il cool jazz, l’hard bop, il «californiano», i primi esperimenti di Third Stream, mentre già stanno facendo parlare di sé Ornette Coleman, Cecil Taylor, John Coltrane. Tuttavia, Bud è tutt’altro che sorpassato. I dischi per la Blue Note attestano ancora la sua vivacità di pensiero, la larghezza di vedute, soprattutto la sua riuscita nell’aver generato un pianismo moderno «definitivo», che è tale ancora oggi, sessant’anni dopo. Quando agli inizi del 1959, dopo un’ennesima degenza, Bud prende l’aereo alla volta di Parigi in compagnia di Buttercup e del piccolo Earl John, è forse l’unico nella genealogia del jazz ad aver procreato due rami abbastanza distinti: quello del pianismo bop, aggressivo nella mano sinistra e vertiginoso, «sassofonistico», con la destra, i cui proseliti si contano a decine negli anni Cinquanta; e il ramo più tatumiano, declamatorio, spiccatamente sentimentale, carico di volute e privo di gerarchie tra le due mani, ramo che passerà per Bill Evans (con quel che segue). Solo con McCoy Tyner questi rami torneranno a intrecciarsi.
La famiglia (ma qualcuno dubita che Buttercup fosse sposata a Bud e che Earl John fosse figlio di lui) si stabilì al Louisiana, un alberghetto frequentato dai jazzisti. Buttercup aveva avuto ragione nel giudicare l’Europa un mondo più tranquillo per il pianista; meno fiuto ebbe nella scelta della «terapia» che avrebbe dovuto rendere la serenità al suo uomo, se è vero che in quegli anni parigini adottò verso di lui un atteggiamento poliziesco: lo teneva rinchiuso in camera, salvo quando lo accompagnava dove lui doveva suonare; faceva in modo che non avesse denaro in tasca perché non ne spendesse in liquori; gli somministrava delle compresse che Paudras identificò nel Largactyl, ovvero torazina, un sedativo che annulla la forza di volontà; lo trattava più o meno come fa una madre rigida con un figlio scavezzacollo (e sembra che arrivò perfino a sequestrargli i pantaloni per impedirgli di lasciare l’albergo). Paudras, un jazzofilo che nutriva per Bud una profonda venerazione, dal momento in cui conobbe il suo idolo provò in modo del tutto diverso a strapparlo al suo inferno interiore e per qualche tempo ci riuscì: gli offrì quella dedizione affettiva che il pianista non aveva mai avuto; gli fece da padre, da fratello, da amico, da figlio, anche a prezzo di sofferenze; limitò il suo vizio del bere a qualche innocuo bicchiere di vin rouge. Così, dopo la liberazione dal Largactyl e dall’alcol, furono più frequenti le sere in cui i frequentatori del Blue Note, il locale dove Bud si esibiva spesso, si trovarono di fronte a un musicista ben più padrone di sé, talvolta smagliante te. Sedeva al piano nel suo tipico modo: il busto immobile, lo sguardo fisso sul nulla, come in trance. Le numerose registrazioni raccolte da Paudras sia nei concerti che in circostanze domestiche (e pubblicate per la prima volta su cd dalla Mythic Sound) presentano un musicista più sereno, attivo come compositore, disposto a scherzare, perfino a cantare La Marseillaise. Non mancarono, com’era logico, i momenti terribilmente negativi. E tuttavia, già in certe nuove composizioni (per esempio In The Mood For A Classic) si poteva cogliere un’inedita apertura all’ottimismo.
Pochi mesi dopo il suo arrivo, Bud era già circondato dagli Americans In Europe (come Kenny Clarke, Johnny Griffin e Oscar Pettiford) e dagli artisti locali (primi fra tutti Pierre Michelot e Barney Wilen). Suonò a Parigi con i Jazz Messengers di Art Blakey, a Essen in una eccellente performance con Coleman Hawkins, ad Antibes con Charles Mingus e a Stoccolma con un proprio trio (le sue serate svedesi sono documentate da ben cinque album della SteepleChase). Nel 1963 prese parte a uno dei più entusiasmanti dischi di Dexter Gordon, «Our Man In Paris» (Blue Note), e al singolare incontro di Gillespie con i Double Six of di Paris (su Philips). Tutto ciò è la testimonianza di una ritrovata «primavera» nella quale Bud mostrava la sua gran voglia di suonare anche a prescindere dalla prediletta formula del trio; e inoltre smentisce chi ha voluto vedere nei quattro anni e mezzo di soggiorno europeo un periodo di declino. Ma il destino infierì nuovamente su di lui sotto forma di una grave tubercolosi che lo colpì proprio in quel 1963 e che il pianista avrebbe immortalato in Blues For Bouffemont. Ne restano toccante testimonianza due brevi interviste effettuate nel sanatorio (e pubblicate nel disco «Inner Fires» dell’Elektra Musician), durante una delle quali Bud fu colto dalla tosse. Le condizioni di salute rimasero malferme ma non impedirono al pianista di accarezzare l’idea del ritorno: cominciava a provare nostalgia di New York, della figlia Celia, del pubblico e degli amici che vi aveva lasciato e che di tanto in tanto lo esortavano a rimpatriare. Paudras riteneva che un tale ritorno avrebbe nociuto a Bud, ma preferì assecondarlo e lo accompagnò. Nell’agosto 1964 attraversarono insieme l’Atlantico. Sarebbe dovuta essere una breve trasferta, sicché Buttercup ed Earl John rimasero a Parigi. Nove giorni dopo l’arrivo, Bud fu ingaggiato da Oscar Goodstein per un mese di concerti al Birdland: fu ritrovato due giorni dopo in compagnia di amici a Brooklyn. Fu un ritorno trionfale: la gente si assiepava per ascoltarlo, nessuno aveva dimenticato il pianista durante gli anni di lontananza da New York. Bud ricevette premi, ovazioni, riabbracciò Celia la figlia che praticamente non aveva mai conosciuto. Si parlò di una tournée da fare negli Usa e di una in Giappone. In settembre la Roulette gli fece incidere un disco con la sua nuova sezione ritmica (John Ore al basso e J.C. Moses alla batteria). «La sua sola presenza – scrisse Dan Morgenstern su Down Beat in occasione di un concerto al Birdland – testimonia il trionfo dello spirito dell’uomo sulle avversità e sulle sofferenze».
Tutti quanti, Morgenstern compreso, s’illudevano. Gli spacciatori comiciarono a ronzare attorno a Bud: uno si fece trovare perfino nella camera d’albergo, ma venne buttato fuori a calci. La sera del 10 ottobre Bud non si presentò al Birdland. Una settimana dopo, a un party dato in suo onore dalla baronessa Nica de Koenigswarter, scomparve di nuovo; passarono quattro giorni prima che un agente di polizia jazzofilo lo identificasse, in deplorevoli condizioni, sotto un portone del Greenwich Village. Fu riportato da Nica, che per ritrovarlo aveva fatto mettere annunci sui giornali. Nelle sue sparizioni era come un animale non del tutto addomesticato. Si giudicò allora necessarlo che Bud tornasse al più presto in Francia. La prenotazione venne fissata per il 27 ottobre, ma quel giorno fu solo Paudras a salire sull’aereo. Nei mesi successivi Bud lasciò poche tracce di sé. Chi lo incontrava di tanto in tanto si trovava davanti lo spettacolo penoso di un randagio. Nel marzo del 1965 il pianista si esibì del tutto inebetito in un concerto organizzato alla Carnegie Hall nel decennale della morte di Parker. La sua rilettura di ‘Round Midnight, eseguita nel corso di quel concerto e pubblicata senza alcuna informazione discografica su Mainstream, è obnubilata, fitta di errori di diteggiatura, incontrollata, ben più angosciante del tristemente famoso Lover Man di Parker. In maggio Bemard Stollman, fondatore dell’etichetta d’avanguardia ESP e suo ultimo manager, riuscì a farlo suonare alla Town Hall per una serata della propria casa discografica. Bud Powell morì a neanche quarantadue anni il 31 luglio 1966, nel Kings County Hospital di Brooklyn, per polmonite e itterizia. Era stato ricoverato una settimana prima. Jackie McLean, che era andato a trovare l’amico, racconterà: «In quella stanza d’ospedale c’erano una ventina di persone, oltre a lui. Sembrava un supermercato». Harlem gli rese omaggio con diversi servizi funebri (in uno di essi Milt Jackson sedette all’organo). Le autorità cittadine affidarono a Celia la salma, reclamata anche da Buttercup. L’8 agosto il feretro fu portato a spalla nella St. Charles Church da Max Roach, Tony Scott, Kenny Dorham e da altri jazzisti. L’ultimo viaggio era stato accompagnato da una band sistemata su un autocarro: Lee Morgan, «Little» Benny Harris, John Gilmore, Barry Harris, Don Moore, Billy Higgins. L’orazione funebre venne tenuta dal reverendo Owen J. Scanlon, che conosceva il pianista sin da quando questi era bambino. Alla St. Charles Church, Bud era stato chierichetto.
Giuseppe Piacentino