Bud Powell: magnifica ossessione (seconda parte)

di Giuseppe Piacentino

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Nessun altro musicista di jazz ha avuto il coraggio o l’ossessione di rendere così espliciti i propri tormenti.

(Leggi la prima parte dell’articolo)

Non fu tanto un compiuto pezzo di musica, Un Poco Loco, bensì una sto­ria personale e forse un presagio. Tre mesi dopo la registrazione Bud ebbe una nuova crisi, anche questa volta preceduta da guai con la leg­ge. Nel suo libro Francis Paudras rie­voca l’episodio riportando anche il verbale di polizia del giugno 1951, che incriminava Bud per spaccio di stupefacenti. In realtà, il pianista avrebbe semplicemente ceduto al­le insistenze di una ragazza che pre­tendeva da lui uno spinello, chie­dendo in cambio la cifra simbolica di un dollaro. Finì in carcere per un breve e tor­mentato periodo, poi al Pilgrim Ho­spital, dove la sua permanenza si protrasse stavolta per diciotto mesi e dove fu nuovamente sottoposto a elettroshock. Gli psichiatri parlaro­no di schizofrenia aggravata dalla droga e dall’abuso di alcol. A nulla servivano l’affetto degli amici, il se­guito di pubblico, i tentativi della madre – che secondo Leonard Feather era una donna semplice e pia che non capì mai gli affanni del figlio – di riportare Bud in carreggiata: co­me accadde anche questa volta in una nuova convalescenza a Willow Grove.

Dimesso dall’ospedale, Bud Po­well riprese l’attività con un’altale­nante salute mentale, fu visto spes­so al Birdland (Goodstein era anco­ra il suo tutore legale), poté dirige­re dei propri trii con i quali suonò sia in concerto sia in studio di registra­zione. Il repertorio era costituito da classici del bop (Salt Peanuts, Woo­dy’n You, Night In Tunisia), da com­posizioni proprie (soprattutto Budo e Dance Of The Infidels) e da parec­chi standard (Nice Work If You Can Get It, Embraceable You, I’ve Got You Under My Skin, Hallelujah, I Want To Be Happy). Non di rado il suo cammino s’intrecciò con quello di Charlie Parker, e i risultati artisti­ci dipendevano allora esclusivamen­te dalle precarie condizioni d’umo­re di entrambi. Charles Mingus, che in quel perio­do fu più volte il bassista di Bud Po­well, sarà testimone di una dramma­tica serata durante la quale i due ge­ni del bop s’investirono a più ripre­se. Al punto che Mingus dovette prendere il microfono in mano per dissociarsi pubblicamente: «È gen­te malata». La nuova generazione del jazz moderno prendeva, con quel gesto, le distanze dai padri. Altre volte la situazione era nettamente mi­gliore, come avvenne alla Massey Hall di Toronto il 15 maggio 1953, quando sotto l’insegna di «Quintet Of The Year» furono riuniti Parker, Gil­lespie, Powell, Mingus e Roach (gli ultimi tre si esibirono anche da soli per metà del concerto). L’evento venne registrato (la parte in quintetto e quella in trio sono reperibili in due cd separati) e poi pubbli­cato da Mingus presso la propria eti­chetta Debut (Norman Granz, patron della Verve, aveva declinato l’offer­ta giudicandola troppo onerosa). Si parlò in seguito per questo concer­to di «canto del cigno» del bebop; di certo, ben difficilmente la salute di Bird e Bud, in quegli anni, avrebbe potuto garantire migliori risultati dal loro incontro, grazie anche al rigo­re professionale dei due ritmi e al buonumore instillato da Gillespie. Le condizioni del pianista erano tali da non lasciare affatto pensare a un «canto del cigno»: l’assolo in Night In Tunisia vanta una straordinaria successione di invenzioni; il tratta­mento di Sure Thing applica alla bal­lad le involuzioni del contrappunto barocco. Non c’era altro pianista, in quegli anni, che potesse permettersi una simile disinvoltura, e allo stesso tempo una rapidità immaginativa e una cura della forma nell’effimero spazio dell’improvvisazione.

Bud Powell e impresario italiano Cicci Foresti (foto di Francesco Maino)
Bud Powell e l’impresario italiano Cicci Foresti (foto di Francesco Maino)

Il 1953, del resto, fu per lui un’an­nata di rendimento quasi costante­mente alto, come dimostrano le numerose registra­zioni dal vivo. La Blue Note se lo as­sicurò per una seduta la vigilia di Ferragosto, in trio con due dei suoi ritmi prediletti, il bassista George Duvivier e il batterista Art Taylor. La souplesse che governava gli eccel­lenti Reets And I e Collard Greens And Black-Eyed Peas, quest’ultimo un blues afro-cubano, non nascon­deva l’assunzione sempre più mar­cata, nella musica di Bud, di colori scuri, tendenza che sfocia nel capo­lavoro della seduta, Glass Enclosure. Nell’arco di neanche due minuti e mezzo il pianista tocca uno dei pun­ti più lontani dal bop che si potes­sero concepire allora: il brano è in­teramente scritto, senza improvvisa­zione, il bassista fa ampio uso dell’ar­chetto, nella sintassi il jazz è quasi del tutto assente, viene recuperata la struttura multitematica che i bop­pers avevano abolito (qui, invece, vi sono parti ben precise, delle quali apertura e chiusura sono rappresen­tate da un’austera marcia cerimo­niale). La coerenza di Glass Enclo­sure, diviso com’è in capitoli, non sta nella costruzione ma nella sua sconcertante solennità drammatica (una versione dal vivo di venti gior­ni dopo appare, in questo senso, più sfumata). Un esperimento analogo era stato tentato nel giugno dello stesso anno dal nascente Modern Jazz Quartet in The Queen ‘s Fancy, ma con risultati opposti: la leggerezza in luogo della cupezza e della visiona­rietà, e una perfetta organizzazione formale.

Con tutta evidenza, Bud Powell si poneva in quel periodo dei proble­mi di ordine musicale: o meglio, li in­tuiva. Primo fra tutti la direzione che avrebbe dovuto prendere il bebop; un’estetica che, peraltro, egli aveva abbracciato solo parzialmente. Tra le testimonianze in proposito, una ri­ferisce del desiderio di Bud che i suoi brani fossero interpretati da un’orchestra di cinquantacinque elementi. In quella prima metà de­gli anni Cinquanta il pianista appa­re sempre più una sorta di masso er­ratico nella storia del jazz. Il suo es­sere attuale era paradossalmente slegato dalle tendenze del momen­to, e si manifestava in vari modi: l’as­sunzione di Art Tatum, ossia di una figura fuori del tempo, a pianista pre­diletto; l’estraneità a scuole e movi­menti; forse proprio l’adozione definitiva della formula del trio, un pic­colo regno che poteva governare per conto suo. Fu l’intermittenza della lucidità mentale a impedirgli di affron­tare con raziocinio quei problemi che altri jazzisti avvertivano. Gli an­ni che seguirono furono dominati proprio da una tale precarietà. Geor­ge Duvivier ricordava che c’erano sere in cui lui e Art Taylor restava­no spiazzati dalla magistrale arditez­za delle idee di Bud, e altre nelle quali il pianista non riusciva nemme­no a seguire il ritmo. L’uomo era ca­pace di perdere la sua dignità ele­mosinando un bicchiere di alcol presso gli sconosciuti; quando falli­va era capace di ingollare dalle die­ci alle venti Coca Cola o ginger ale per sera (Paudras riferisce quanto incredibile fosse nel pianista il biso­gno di assumere liquidi). Ma lo stesso uomo era anche capace di soprassalti d’orgoglio. È ormai fa­moso l’episodio in cui lui e Art Ta­tum si trovarono nella stessa serata al Birdland. Sembra che Bud avesse fatto notare al più anziano collega degli errori nel corso di un’esecu­zione; questi replicò definendolo «pianista con la sola mano destra». La sera successiva Bud eseguì Someti­mes l’m Happy con la sola sinistra e a un tempo infernale anche se, a sentire un trafiletto uscito nel 1955 su Jazz Magazine, dopo il commento di Ta­tum si sarebbe ferito volontariamente la sinistra con un temperino, dimostrando poi di poter suonare egualmente.

Deluse profondamente il pubblico la sua prima tournée europea, con un «pacchetto» di artisti riuniti sotto l’insegna «Birdland ‘56» (Miles Davis, Lester Young, il Modem Jazz Quar­tet), che toccò anche Milano e Tori­no. Ma va considerato che appena cinque mesi prima era morto il fra­tello Richie: tragedia che lo aveva scosso e che in varie occasioni avrebbe indirettamente rievocato in­terpretando I Remember Clifford. Nonostante il disastroso rendimen­to, comunque, il soggiorno in Euro­pa fu importante. Bud da qualche tempo era legato sentimentalmente a una donna di nome Altevia (della prima moglie non si sa quasi nulla), ma da tutti chiamata «Buttercup», e sembra fosse stata proprio lei a pensare che un trasfe­rimento nel Vecchio Continente avrebbe potuto giovare alla salute del pianista. Ritornato negli Usa, Bud Powell realizzò subito due dischi in trio (RCA) quasi interamente d’impronta boppistica, ove spiccava la dispiegata cantabilità «golsoniana» di Oblivion. Più impor­tanti furono le registrazioni, effettua­te per la Blue Note tra il 1957 e il 1958, che avrebbero costituito ma­teriale per tre album: «Bud!», «Time Waits» e «The Scene Changes». Al primo di essi partecipò anche, in tre brani, il trombonista Curtis Fuller. Tra le curiosità figura Bud On Bach, un pezzo in solitudine nel quale il pianista interpreta un solfeg­gio che aveva studiato da ragazzino e poi lo rilegge in chiave jazzistica. John’s Abbey è uno scattante veico­lo boppistico che si chiude con una marcia solenne. Monopoly è una non dissimulata rilettura del monkia­no Thelonious con tanto di quelle se­quenze stride così care all’amico. In Cleopatra’s Dream il pianista sem­bra divertirsi a costruire ossessive geometrie sulla logica del bop. Tut­to ciò per dire come i tre Blue Note costituiscano un ritratto a tutto tondo dell’arte di Powell.

Bisogna fare, a questo punto, una breve digressione. La trattazione cronologica delle scuole di pen­siero, generalmente adottata dalle storie del jazz, ha il merito di una grande chiarezza ma, in alcuni frangenti, necessita di precisazioni. Siamo alle soglie del 1959 e, secon­do quella impostazione, le storie del jazz non trattano più Bud Powell da parecchie pagine: è infatti un pia­nista assimilato alla scuola bebop e, nel frattempo, ci sono stati il cool jazz, l’hard bop, il «californiano», i primi esperimenti di Third Stream, mentre già stanno facendo parlare di sé Or­nette Coleman, Cecil Taylor, John Coltrane. Tuttavia, Bud è tutt’altro che sor­passato. I dischi per la Blue Note at­testano ancora la sua vivacità di pen­siero, la larghezza di vedute, soprat­tutto la sua riuscita nell’aver genera­to un pianismo moderno «definitivo», che è tale ancora oggi, sessant’anni dopo. Quando agli inizi del 1959, dopo un’ennesima degenza, Bud prende l’aereo alla volta di Parigi in compa­gnia di Buttercup e del piccolo Earl John, è forse l’unico nella genealo­gia del jazz ad aver procreato due ra­mi abbastanza distinti: quello del pia­nismo bop, aggressivo nella mano si­nistra e vertiginoso, «sassofonistico», con la destra, i cui proseliti si conta­no a decine negli anni Cinquanta; e il ramo più tatumiano, declamatorio, spiccatamente sentimentale, carico di volute e privo di gerarchie tra le due mani, ramo che passerà per Bill Evans (con quel che segue). Solo con McCoy Tyner questi rami torne­ranno a intrecciarsi.

La famiglia (ma qualcuno dubita che Buttercup fosse sposata a Bud e che Earl John fosse figlio di lui) si sta­bilì al Louisiana, un alberghetto fre­quentato dai jazzisti. Buttercup ave­va avuto ragione nel giudicare l’Eu­ropa un mondo più tranquillo per il pianista; meno fiuto ebbe nella scel­ta della «terapia» che avrebbe dovu­to rendere la serenità al suo uomo, se è vero che in quegli anni parigi­ni adottò verso di lui un atteggia­mento poliziesco: lo teneva rinchiu­so in camera, salvo quando lo ac­compagnava dove lui doveva suona­re; faceva in modo che non avesse denaro in tasca perché non ne spen­desse in liquori; gli somministrava delle compresse che Paudras iden­tificò nel Largactyl, ovvero torazina, un sedativo che annulla la forza di volontà; lo trat­tava più o meno come fa una madre rigida con un figlio scavezzacollo (e sembra che arrivò perfino a seque­strargli i pantaloni per impedirgli di lasciare l’albergo). Paudras, un jazzofilo che nutriva per Bud una profonda venerazione, dal momento in cui conobbe il suo idolo provò in modo del tutto diver­so a strapparlo al suo inferno interio­re e per qualche tempo ci riuscì: gli offrì quella dedizione affettiva che il pianista non aveva mai avuto; gli fe­ce da padre, da fratello, da amico, da figlio, anche a prezzo di sofferen­ze; limitò il suo vizio del bere a qual­che innocuo bicchiere di vin rouge. Così, dopo la liberazione dal Lar­gactyl e dall’alcol, furono più fre­quenti le sere in cui i frequentatori del Blue Note, il locale dove Bud si esibiva spesso, si trovarono di fron­te a un musicista ben più padrone di sé, talvolta smagliante te. Sedeva al piano nel suo tipico modo: il busto im­mobile, lo sguardo fisso sul nulla, co­me in trance. Le numerose regi­strazioni raccolte da Paudras sia nei concerti che in circostanze domesti­che (e pubblicate per la prima volta su cd dalla Mythic Sound) presentano un musi­cista più sereno, attivo come compo­sitore, disposto a scherzare, perfino a cantare La Marseillaise. Non mancarono, com’era logico, i momenti terribilmente negativi. E tuttavia, già in cer­te nuove composizioni (per esempio In The Mood For A Classic) si po­teva cogliere un’inedita apertura al­l’ottimismo.

Pochi mesi dopo il suo arrivo, Bud era già circondato dagli Americans In Europe (come Kenny Clarke, Johnny Griffin e Oscar Pettiford) e dagli artisti locali (primi fra tutti Pier­re Michelot e Barney Wilen). Suonò a Parigi con i Jazz Messengers di Art Blakey, a Essen in una eccellente performance con Coleman Hawkins, ad Antibes con Charles Mingus e a Stoccolma con un proprio trio (le sue serate svedesi sono documentate da ben cinque album della SteepleChase). Nel 1963 prese parte a uno dei più entu­siasmanti dischi di Dexter Gordon, «Our Man In Paris» (Blue Note), e al singolare incontro di Gillespie con i Double Six of di Paris (su Philips). Tutto ciò è la testimonianza di una ritrovata «primavera» nella quale Bud mostrava la sua gran voglia di suo­nare anche a prescindere dalla pre­diletta formula del trio; e inoltre smentisce chi ha voluto vedere nei quattro anni e mezzo di soggiorno europeo un periodo di declino. Ma il destino infierì nuovamente su di lui sotto forma di una gra­ve tubercolosi che lo colpì proprio in quel 1963 e che il pianista avrebbe immor­talato in Blues For Bouffemont. Ne restano toccante testimonianza due brevi interviste effettuate nel sanato­rio (e pubblicate nel disco «Inner Fi­res» dell’Elektra Musician), durante una delle quali Bud fu colto dalla tos­se. Le condizioni di salute rimasero malferme ma non impediro­no al pianista di accarezzare l’idea del ritorno: cominciava a provare nostalgia di New York, della figlia Celia, del pubblico e degli amici che vi aveva lasciato e che di tanto in tanto lo esortavano a rimpatriare. Paudras riteneva che un tale ritorno avrebbe nociuto a Bud, ma preferì assecondarlo e lo accompagnò. Nel­l’agosto 1964 attraversarono insieme l’Atlantico. Sarebbe dovuta essere una breve trasferta, sicché Butter­cup ed Earl John rimasero a Parigi. Nove giorni dopo l’arrivo, Bud fu ingaggiato da Oscar Goodstein per un mese di concerti al Birdland: fu ritrovato due giorni dopo in compagnia di amici a Brooklyn. Fu un ritorno trionfale: la gente si assiepava per ascoltarlo, nessuno aveva dimentica­to il pianista durante gli anni di lon­tananza da New York. Bud ricevette premi, ovazioni, riabbracciò Celia la figlia che praticamente non aveva mai conosciuto. Si parlò di una tour­née da fare negli Usa e di una in Giappone. In settembre la Roulette gli fece incidere un disco con la sua nuova sezione ritmica (John Ore al basso e J.C. Moses alla batteria). «La sua sola presenza – scrisse Dan Morgenstern su Down Beat in occasione di un concerto al Birdland – testimonia il trionfo dello spirito dell’uomo sulle avversità e sulle sof­ferenze».

Tutti quanti, Morgenstern compreso, s’il­ludevano. Gli spacciatori comicia­rono a ronzare attorno a Bud: uno si fece trovare perfino nella camera d’albergo, ma venne buttato fuori a calci. La sera del 10 ottobre Bud non si presentò al Birdland. Una settima­na dopo, a un party dato in suo ono­re dalla baronessa Nica de Koenig­swarter, scomparve di nuovo; passa­rono quattro giorni prima che un agente di polizia jazzofilo lo identifi­casse, in deplorevoli condizioni, sot­to un portone del Greenwich Villa­ge. Fu riportato da Nica, che per ri­trovarlo aveva fatto mettere annun­ci sui giornali. Nelle sue sparizioni era come un animale non del tutto addomesticato. Si giudicò allora necessarlo che Bud tornasse al più pre­sto in Francia. La prenotazione ven­ne fissata per il 27 ottobre, ma quel giorno fu solo Paudras a salire sul­l’aereo. Nei mesi successivi Bud lasciò po­che tracce di sé. Chi lo incontrava di tanto in tanto si trovava davanti lo spettacolo penoso di un randagio. Nel marzo del 1965 il pianista si esi­bì del tutto inebetito in un concerto organizzato alla Carnegie Hall nel de­cennale della morte di Parker. La sua rilettura di ‘Round Midnight, eseguita nel corso di quel concerto e pubblicata senza alcuna informazione discografica su Mainstream, è obnubilata, fitta di errori di diteg­giatura, incontrollata, ben più ango­sciante del tristemente famoso Lover Man di Parker. In maggio Bemard Stollman, fondatore dell’etichetta d’avanguardia ESP e suo ultimo manager, riuscì a farlo suonare alla Town Hall per una se­rata della propria casa discografica. Bud Powell morì a neanche qua­rantadue anni il 31 luglio 1966, nel Kings County Hospital di Brooklyn, per polmonite e itterizia. Era stato ri­coverato una settimana prima. Jackie McLean, che era andato a trovare l’a­mico, racconterà: «In quella stanza d’ospedale c’erano una ventina di persone, oltre a lui. Sembrava un su­permercato». Harlem gli rese omaggio con diversi servizi funebri (in uno di essi Milt Jackson sedette al­l’organo). Le autorità cittadine affida­rono a Celia la salma, reclamata an­che da Buttercup. L’8 agosto il fere­tro fu portato a spalla nella St. Char­les Church da Max Roach, Tony Scott, Kenny Dorham e da altri jazzi­sti. L’ultimo viaggio era stato accom­pagnato da una band sistemata su un autocarro: Lee Morgan, «Little» Ben­ny Harris, John Gilmore, Barry Har­ris, Don Moore, Billy Higgins. L’ora­zione funebre venne tenuta dal reverendo Owen J. Scanlon, che cono­sceva il pianista sin da quando que­sti era bambino. Alla St. Charles Church, Bud era stato chierichetto.

Giuseppe Piacentino

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