AUTORE
Vijay Iyer & Craig Taborn
TITOLO DEL DISCO
«The Transitory Poems: Live At Liszt Academy, Budapest»
ETICHETTA
ECM
La frequentazione coabitativa tra i due pianisti è iniziata nel 2002, nella Note Factory di Roscoe Mitchell, prendendo corpo nei due album «Song For My Sister» (PI, 2002) e «Far Side» (ECM, 2010), ove entrambi, all’epoca giovani e bollenti spiriti in cerca di affermazione, hanno avuto modo di mettere a punto una certa attitudine naturale per l’ascolto reciproco, il dialogo, la composizione istantanea, che in questo nuovo disco trova testimonianza peculiare nel formato del duo, affinato attraverso numerosi concerti e ancora destinato a rodarsi nel tour già annunciato che seguirà a questa uscita. Del resto, forse nulla può più osservarsi di nuovo o di stupito sulle due personalità a confronto, rappresentative di un approccio multi-stilistico declinato con tenacia ammirevole, lucidità, consapevolezza di sé. L’atteggiamento è appena più discreto in Taborn – naturalmente incline a una produzione meno nutrita – e di impatto più aggressivo in Iyer, apparentemente destinato a una crescita senza limiti (nel continuo «processo accretivo» della propria musica, di cui ama anche teorizzare).
In nessuno dei due, e questo è assolutamente commendevole, il processo individuale si risolve in una mera (intellettualistica) operazione di facciata, che preveda l’abbandono delle radici: esse vengono trascese in una sintesi personale, ma mai perse di vista. E non casualmente, infatti, l’album prevede una scaletta in cui si celebrano omaggi a Cecil Taylor (Luminous Brew), Muhal Richard Abrams (Clear Monolith) e Geri Allen (Meshwork/Libation). Anche il titolo, così suggestivo, riprende una espressione di Taylor, contenuta in una intervista del 1995, rilasciata a Chris Funkhouser e riportata nel libretto, nella quale il pianista definiva così gli esseri umani («probably the quickest in terms of duration of life») rispetto alla Natura e alle sue forme. Un’ultima notazione si impone, infine, circa le attitudini dei due artisti rapportate all’opera finita. Né Iyer, né Taborn sono pianisti di sterile virtuosismo: il primo per la ben nota storia formativa e personale, che ne fa per più aspetti un non-pianista, il secondo per una naturale avversione al gesto eclatante, che prende corpo nella predilezione per percorsi ed enunciazioni di mirabile chiarezza inventiva, anche nei momenti di grande complessità, non infrequenti. Entrambi, inoltre, fanno della fedeltà all’idea un assoluto manifesto espressivo, forgiato nella tendenza al rigore formale, affidato alla costante tendenza alla costruzione piuttosto che all’esito prevalente della téchne.
Tutto questo trova sbocco in una musica, totalmente improvvisata, di scura e nervosa densità, ritmicamente dotata di grande costrutto, stratificata per mezzo di sovrapposizioni martellanti che le assegnano uno spessore quasi materiale e fisico. Essa dimostra di non voler procedere per astrazioni (che pure qua e là fanno inevitabilmente capolino) ma piuttosto (e con ciò assecondando una tendenza più tipica di Iyer che di Taborn) di volersi spingere sino al punto di affollare ogni spazio, con costruzioni angolose (Sensorium) o con perorazioni oscure e inquisitive (S.H.A.R.D.S., Luminous Brew). Dunque non propone una sintesi che valga come momento di soluzione delle molte tensioni evocate, assomigliando piuttosto a un processo di auto-coscienza in cui si affastellano i molti temi possibili e l’obiettivo è il viaggio in sé piuttosto che la destinazione. Molto intenso, nel brano di chiusura, il momento finale in cui si compie l’emersione melodica di When Kabuya Dances, della Allen. Un album, in definitiva, che lascia l’ascoltatore in affannata sospensione, quasi senza respiro, in attesa che la narrazione si dipani, restituendo soltanto una parte dell’emozione dell’esibizione dal vivo, anche per la mancanza degli aspetti visivi, che forse non avrebbero reso inutile una edizione in dvd.
Cerini
DISTRIBUTORE
Ducale
FORMAZIONE
Vijay Iyer, Craig Taborn (p.).
DATA REGISTRAZIONE
Budapest, 12-3-18.