Chris Potter: Eagle’s Point

Alla vigilia dell’uscita del suo «Eagle’s Point» con Brad Mehldau, John Patitucci e Brian Blade, il sassofonista è venuto a suonare a Milano, assieme però a Craig Taborn e Eric Harland. Non sono mancati quindi gli argomenti di conversazione

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Tecnica inarrivabile, versatilità stilistica, capacità improvvisativa quasi illimitata, Chris Potter è senza dubbio uno degli eroi del jazz contemporaneo e il suo ultimo album «Eagle’s Point», uscito l’8 marzo per la britannica Edition, segna un ulteriore punto a favore della sua epica. Il sassofonista di Chicago è leader di un quartetto acustico con pianoforte, contrabbasso e batteria, la più classica delle formazioni jazzistiche, ma questa volta i suoi compagni di viaggio sono nientemeno che Brad Mehldau, John Patitucci e Brian Blade, per la prima volta assieme in un summit di top players della scena jazz attuale. Le otto composizioni originali di Potter sono il pretesto per dar vita a una magistrale seduta di jazz focalizzata sull’improvvisazione e sull’interplay. Abbiamo incontrato Chris Potter lo scorso 20 febbraio al Blue Note di Milano, qualche ora prima del concerto in trio con il pianista Craig Taborn e il batterista Eric Harland, il sassofonista ci ha parlato del suo «Eagle’s Point», dell’attuale tour europeo in trio e dei progetti futuri.

Nel tuo ultimo album «Eagle’s Point» sei leader di un vero supergruppo del jazz contemporaneo. Com’è nata l’idea di questo progetto?
È un progetto acustico, ovviamente il classico quartetto jazz con sax, pianoforte, contrabbasso e batteria. Con i musicisti del gruppo ci conosciamo da moltissimo tempo ma non abbiamo avuto la possibilità di suonare spesso assieme nel corso degli anni. Naturalmente loro tre sono dei top players…

Beh, naturalmente lo sei anche tu…
Che dire… Devo ammettere che è un buon momento della mia carriera, sì. In ogni caso ci siamo sentiti, ho fatto loro la proposta di incidere un disco assieme e si sono subito dimostrati entusiasti; ma, come puoi immaginare, ci è voluto un anno prima di riuscire a trovare qualche giorno in cui tutti e quattro fossimo disponibili. Abbiamo registrato a Brooklyn: io vivo lì e anche John Patitucci risiede a New York, ma Brian Blade abita in Louisiana e Brad Mehldau è spesso in Olanda. È stato difficile incontrarci, ma alla fine ce l’abbiamo fatta.

La sensazione, ascoltando il disco, è che vi siate divertiti moltissimo. È così?
Si, è vero, ci siamo divertiti molto. Il legame tra John e Brian è molto profondo, e anche quello tra me e loro due. Abbiamo suonato assieme in diverse formazioni e lavorato molto anche in trio senza strumenti armonici. Così qui abbiamo aggiunto Brad Mehldau al mix. A dire il vero, Brad è stato forse uno dei primi musicisti di jazz che ho conosciuto in vita mia. Ero studente alla New School University nel 1989, io e Brad abbiamo più o meno la stessa età e mi ricordo benissimo di lui, avevamo più o meno 18, 19 anni. Di fatto negli anni non ci siamo visti poi tanto spesso, ma è stato molto bello ritrovarci e suonare assieme.

Come hai interpretato il tuo ruolo di bandleader in una formazione composta da musicisti così incredibili e, allo stesso tempo, personalità musicali così forti?
Beh, il progetto è stato in qualche modo una mia idea, mi sono inventato il gruppo e avevo un’idea della musica da proporre, composizioni con una struttura che, immaginavo, loro tre avrebbero potuto suonare molto bene. Però non volevo che ci fosse nulla di troppo complicato perché intendevo mettere l’improvvisazione al centro della musica. Tutti i pezzi hanno una loro struttura, ma la maggior parte di questi sta scritta in una sola pagina.

In una recente intervista con il musicista, produttore musicale e youtuber Rick Beato, Brad Mehldau parla proprio di «Eagle’s Point» . In risposta a una domanda di Beato, il quale nota, in questo disco, un modo di accompagnare essenziale, per triadi, per sottrazione, Mehldau risponde che è un’impresa difficile accompagnare un «saxophone monster» come te, che il tuo modo di suonare è talmente ricco dal punto di vista armonico e melodico che sembri non avere bisogno del pianoforte e quindi per lui, in sintesi, questa è stata l’indicazione di accompagnarti con meno note. Qual è il tuo punto di vista su questo aspetto?
Non ho assolutamente mai parlato di questo con Brad e, naturalmente, non ho mai chiesto a lui di fare una certa cosa. Tutti sappiamo quanto Brad sia uno straordinario solista, conosciamo il modo fantastico in cui suona in trio o da solo, ma accompagna anche in modo incredibile, cosa che non tutti sanno fare. Sa esattamente come sostenere il solista, come aggiungere idee, come fare eco ad altre, il tutto senza intralciarti. È davvero notevole suonare con un musicista di un tale livello, un virtuoso dello strumento come lui. E poi Brad ha anche un tale orecchio e una tale estetica da sapersi sempre mettere al servizio della musica: per questo è stato molto divertente e gratificante suonare con lui. È bravissimo a costruire una sua storia, anche con poche note.

Tra voi quattro c’è un interplay incredibile ma, al mio ascolto, sembra che il tuo interlocutore privilegiato sia John Patitucci, con cui costruisci fantastiche linee melodiche. È così?
Di sicuro abbiamo una lunga storia assieme. La prima volta che ho suonato con John Patitucci è stata in tour con la sua band, credo nel 1991 o 1992. In quel periodo lui suonava soprattutto il basso elettrico e aveva un focus molto differente sulla musica. È un musicista così completo e una persona sempre così entusiasta, qualsiasi cosa decida di fare ci mette tutta la sua energia e credo che questo si percepisca in ciò che suona. Ha una dedizione assoluta e comunica un senso di gioia. Ma posso dire la stessa cosa del dialogo che ho con Brian Blade.

Com’è la sua energia?
Brian è un musicista davvero speciale, è difficile da descrivere, può suonare in modo molto semplice ma con moltissime sfumature, è come se mettesse qualcosa di spirituale in qualsiasi cosa proponga. Qualche volta suona a bassissimo volume ma in modo estremamente intenso; poi, certo, quando c’è da suonare forte lo fa, senza esitazioni. È molto gratificante suonare con tutti loro.

Qual è il tuo metodo compositivo e su quale strumento preferisci comporre?
Dipende. Qualche volta parto dalla melodia al sassofono, altre volte preferisco il pianoforte, qualche volta immagino l’intera composizione e poi ci lavoro al pianoforte. In realtà il pianoforte è lo strumento che uso di più in assoluto per lavorare sull’armonia e per ottenere esattamente il suono che voglio a sostegno della melodia. Il fatto di servirmi del pianoforte mi permette comunque di immaginare la musica dal basso verso l’alto: penso molto alla linea di basso e a come questa si rapporta alla melodia. Non c’è un sistema preciso e non tutte le composizioni arrivano allo stesso modo, possono nascere da un’idea ritmica oppure da una melodia. La cosa comune è che in tutte le composizioni emerge la musica che amo, che ho ascoltato in tutti questi anni e che ascolto tuttora. E poi cerco di scrivere qualcosa che abbia davvero un senso. Arrivati un certo livello penso che si ottenga una certa sensibilità riguardo a ciò che è buono, a ciò che non è buono e a ciò che è unico, pertanto nella scrittura cerchi di capire quali siano le tue sensazioni come persona, come ascoltatore e come compositore.

Quali musicisti ti hanno influenzato di più?
La lista è lunga. Quando ho iniziato col jazz ascoltavo moltissimo Duke Ellington e poi Charlie Parker, ho passato un sacco di tempo cercando di capire che diamine facesse, avrò avuto dieci anni, poi col passar del tempo Sonny Rollins, John Coltrane, Wayne Shorter, ovviamente Miles Davis, Charles Mingus. Ma allo stesso tempo ascoltavo musica classica, dalle Quattro Stagioni di Vivaldi alle Suite per violoncello di Bach, e poi era il periodo di MTV e così ascoltavo il pop di quegli anni ma anche i Beatles, Stevie Wonder. In questo momento sono influenzato dalla musica africana, dalla musica indiana: forse hai sentito il disco del Crosscurrents Trio in cui suono con Dave Holland e Zakir Hussain.

Certo che sì.
C’è una prospettiva che continua a crescere e a cambiare nel corso degli anni, e poi io rubo le idee un po’ a tutti…

Le trascrizioni sono considerate una delle chiavi di accesso per imparare il linguaggio del jazz. Tu ricordi la tua prima trascrizione?
A dire il vero non ho mai veramente «trascritto» assolo. Ci sono molti assolo che probabilmente potrei suonarti qui su due piedi ma che non ricordo di aver davvero trascritto. Mi ricordo, certo, di aver ascoltato in particolare alcuni dischi di Charlie Parker almeno mille volte, e di averci suonato sopra, di aver tentato di imparare le frasi di Bird ma soprattutto di aver cercato di rispondere alle sue frasi nel suo stile. Ho passato un sacco di tempo a fare queste cose ed è stato il mio modo di imparare, anche se in realtà non sono sempre così sistematico. E assolutamente non ho mai trascritto su carta gli assolo: credo che ci voglia un’abilità diversa rispetto a quella di memorizzare le frasi e di improvvisare.

Qual è il metodo di apprendimento del linguaggio?
L’aspetto importante, ovviamente, sono le note del tema, e poi la comprensione dell’armonia, così capisci perché i solisti scelgono certe note, e poi il suono, il ritmo, l’articolazione: è questo che conferisce alla musica il suo significato. Se fai tutto questo a orecchio, alla fine impari, se ascolti molto Charlie Parker magari suonerai come Charlie Parker. Per un certo periodo questo è il compito dello studente, devi fare così per imparare, Poi, dopo Parker, magari passi a Lester Young, Ben Webster, Wayne Shorter, Ornette Coleman, Gene Ammons, Dexter Gordon e inizi a mettere insieme le cose. Ognuno raggruppa le sue influenze in modo leggermente diverso, noi tutti sentiamo il ritmo in modo leggermente diverso, immaginiamo le melodie in modo leggermente diverso, è così che ognuno di noi riesce a trovare la propria voce, che è unica. Il metodo è quello di radunare moltissime informazioni da un’infinità di fonti diverse in modo che, alla fine, il tutto abbia un senso per te, e puoi semplificare tutto questo in forme che rappresentano l’essenza del linguaggio. Ma l’imitazione fa parte del lavoro. In sintesi sì, ho ascoltato e copiato, ma non ho mai trascritto nulla e non è mai stato un mio obiettivo quello di imparare per intero un assolo: quello che ho sempre cercato di apprendere è soprattutto il linguaggio.

Questa domanda ci è arrivata da uno dei nostri lettori attraverso il canale Instagram di Musica Jazz: a chi ti ispiri oggi quando studi o suoni, e chi sono stati i tuoi ispiratori quando eri agli inizi?
La musica che ascolti quando sei molto giovane e che ti colpisce rimane speciale per sempre. La prima volta che ho ascoltato Charlie Parker mi ha colpito molto perché non capivo quel che stava facendo. Mi piaceva moltissimo, suonava un sacco di note così taglienti ma non riuscivo a comprenderlo. Il disco che ha rappresentato un punto di svolta è stato «Charlie Parker With Strings, Live at Carnegie Hall». Non c’era un fraseggio bebop veloce ma mi colpì il modo in cui Bird suonava le melodie degli standard, raccontava la storia delle canzoni con il suo linguaggio. In quell’istante si creò un vero legame tra me e lui, fu un momento davvero speciale. È musica a un altro livello, lo ascolto ancora oggi e riesco a trovare ancora ispirazione. Credo sia un vero punto di arrivo per un artista e oggi, con l’esperienza che ho accumulato, continuo ad ascoltarlo e sempre in modo diverso.

Quale genere di ispirazione ritrovi oggi in quel disco?
Credo sia importante, anche quando dobbiamo suonare tutte le sere, quando siamo stanchi, quando siamo in tour tra un luogo e l’altro, ricordarci di quella prima volta in cui abbiamo sentito una certa magia. Dopo aver ascoltato così tanta musica mi entusiasma sempre fare nuove scoperte musicali, ma credo che nulla sia simile al momento in cui sei un ragazzino e ascolti per la prima volta una certa musica. La via per crescere è quella di continuare ad ascoltare, ed è ciò che noto sempre nei miei eroi musicali: rimangono aperti, si entusiasmano qualsiasi nuova cosa ascoltino o scoprano. La musica non ha mai fine, così come le possibilità di raccontare le cose con la musica, il mondo cambia, la tecnologia cambia, e di conseguenza anche i mezzi per raccontare le cose cambiano. Può essere un po’ frustrante per un artista, ti sembra sempre di non essere mai bravo abbastanza perché non è mai finita. All’arte, alla musica non si può mettere mai un punto fermo.

Cos’altro ti ispira?
Un’altra cosa che mi ispira moltissimo è il ritrovarmi a suonare assieme a musicisti di qualche generazione precedente alla mia. Maestri come Dave Holland, Herbie Hancock, com’è stato Wayne Shorter sono sempre rimasti entusiasti della musica, e qualsiasi cosa succeda sul palco continuano a sorprendersi! Se pensi a quanta musica hanno suonato in vita loro, eppure quando erano e sono sul palco continuano a entusiasmarsi, questa è l’energia che loro portano alla musica ed è la ragione per cui suonano in modo così fantastico. Alcuni di loro sembrano ancora così giovani, anche se hanno più di ottant’anni.

Stasera ti ascoltiamo in un trio senza basso, con Craig Taborn al pianoforte e Eric Harland alla batteria, una situazione un po’ diversa dal classico quartetto acustico di «Eagle’s Point». Di cosa si tratterà?
Io, Craig e Eric abbiamo una lunga storia comune. Avevamo fatto un tour in trio, mi sembra sette anni fa, e abbiamo deciso di ripeterlo, anche se non c’è in vista la registrazione di un disco. È sempre molto stimolante suonare con Craig: ho inciso con lui nel 2006 nell’album «Underground» ma il concerto di stasera non suona assolutamente come quell’album, è un mondo che si concentra molto sul piano acustico. Con Eric invece ho suonato in «Circuits» nel 2019 ma questo trio non assomiglia minimamente neanche a quello di quel disco perché Craig è un musicista del tutto diverso da James Francies. Questa è una situazione piuttosto libera ed è molto divertente, perché ogni sera non sappiamo di preciso cosa succederà. Il fatto che non ci sia il basso ci lascia per un attimo smarriti, anche se lo sappiamo benissimo, e forse pure gli ascoltatori all’inizio si aspettano di sentire un bassista. È una situazione che, in qualche modo, ci mette in una posizione non comodissima ma qualche volta bisogna fare di queste scelte, servono a costringerci ad ascoltarci a vicenda in maniera totale per riuscire a suonare assieme in modo decente. Negli ultimi giorni devo dire che è andata abbastanza bene [ride], speriamo di fare lo stesso anche stasera.

Puoi anticiparci qualche progetto futuro?
Ho diverse idee, anche non sono ancora sicuro di cosa farò. Ho molta musica scritta per diverse formazioni, e uno dei progetti che più mi entusiasmano coinvolge un grande organico. Prima di questo tour in trio io e Craig abbiamo tenuto due concerti in Belgio: c’era Brian Blade alla batteria, poi si è aggiunto anche Scott Colley al contrabbasso, più un’orchestra da camera. Abbiamo eseguito una mia composizione dal titolo Generations. C’è stata una prima esecuzione a San Francisco la scorsa primavera ma questa è la prima volta in cui ho coinvolto un’orchestra di professionisti. Speriamo di riuscire a fare qualche registrazione dal vivo, anche se non è facile da realizzare con un così grande organico, ma sarei felice che che si concretizzasse.

«Chris Potter with Strings!» E così la storia si ripete…
È vero! [ride] Non ci avevo pensato!

Qualche ora dopo abbiamo seguito il concerto del trio Potter-Taborn-Harland. L’assenza del basso sposta gli equilibri della formazione attorno ai suoni del visionario pianismo di Taborn e, soprattutto, nei territori del ritmo. La batteria di Harland sottolinea in modo coloristico e quasi melodico gli ostinati ritmici lanciati da Taborn, e Potter, spinto in una zona non confortevole (anche se è difficile dire cosa per Potter sia «non confortevole» vista la sua maestria), si libera con virtuosismi sempre più incredibili e si avventura tra ardite trame armoniche e fraseggi ritmici via via più complessi. Una formazione che rappresenta un altra prospettiva da lassù dove osano le aquile del jazz contemporaneo e che ci auguriamo possa trovare presto una testimonianza discografica.

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