Soft Machine: una macchina 50.0

di Riccardo Bertoncelli

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Il primo lp dei Soft Machine ne fa cinquanta, arrivano un disco nuovo di zecca e un tour per la band con Marshall, Etheridge, Babbington e Travis.

Quando, un giorno del 1967, Daevid Allen chiese a William Burroughs il permesso di chiamare il suo nuovo gruppo Soft Machine, come un celebre romanzo del maestro, non pensava di avere inventato un marchio capace di durare nel tempo e un potente generatore di energia musicale. Potente e multiforme: perchè negli anni i Soft Machine hanno preso sembianze diverse e avvicendato quasi due dozzine di musicisti, e sono morti e risorti più e più volte, camuffando la sigla o brandendo l’originale, in un territorio fra jazz e rock che oggi è ben cartografato in tutte le mappe di musica ma un tempo, specie agli inizi, era terra incognita e hic sunt leones.

Le più recenti avventure si svolgono proprio mentre io scrivo e voi leggete. C’è un disco nuovo, «Hidden Details», e un tour che tanto esteso non era da un pezzo, a toccare Gran Bretagna, Europa continentale, Stati Uniti fino a inizio 2019. I Macchinisti sono John Marshall alla batteria, John Etheridge alla chitarra, Roy Babbington al basso e Theo Travis al flauto e sax; con la distinzione che i primi tre hanno militato in edizioni storiche della band negli anni Settanta mentre Travis è una più giovane entry, così bravo però e così colto (laurea magistrale in jazz Prog, relatore Robert Fripp) da imporsi quasi come il vero motore del gruppo.

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C’è un motivo forte per spiegare un anno così fitto e speciale, ed è il cinquantesimo anniversario dal primo lp, «Soft Machine», che cade giusto sotto Natale. In realtà è una scusa. Erano tutt’altri i protagonisti di quei giorni, e assai diversa la musica, e molto particolari le circostanze che avevano portato alla registrazione di quei nastri. I Soft Machine allora erano Robert Wyatt, Mike Ratledge e Kevin Ayers, tre geniali dilettanti con idee molto avant, troppo avant, che probabilmente sarebbero naufragati tra i flutti dell’underground se non avessero avuto la fortuna di avere lo stesso manager di Jimi Hendrix, Mike Jeffery. Jimi era la superstar di quel 1968, era lanciato alla conquista dell’America e i Soft ne sfruttavano la scia: intrattenevano il pubblico in attesa del suo Grande Show, rischiando gli ortaggi ma difendendosi bene, e registravano nelle briciole di studio che quel generoso Pollicino seminava dietro di sé. Il primo album nacque così, un mix di desideri & velleità, di provocazioni Dada, di rumori e filastrocche per fanciullini rock. I tre erano convinti che dal vivo se le cavassero meglio e non si stupirono quindi se, finite le registrazioni, nessuno si fece avanti a pubblicare i nastri. Nel frattempo il tour con Hendrix finì e per qualche settimana sembrò che i Soft avessero già chiuso la loro avventura. Invece no. Il disco a fine anno uscì e, pur vendendo poco o niente, diede slancio al progetto, portando a un secondo lp della medesima fatta e poi a un terzo invece molto diverso, una decisa virata verso il jazz e gli esperimenti, con un’idea di fiati che passava dal sax tenore di Elton Dean, membro a tutti gli effetti, ma anche dal flauto di Lyn Dobson, dal trombone di Nick Evans, dal flicorno di Marc Charig, sognando una Piccola Orchestra Soft che per qualche mese in effetti vide la luce, nel passaggio tra i Sessanta e i Settanta.
Fu in quei giorni che i Softs entrarono nella leggenda, con quel doppio «Third» che tramortiva per la bellezza e novità dei lunghi brani, uno per facciata, e per gli incontinenti set dal vivo, con improvvisazioni ed estrose fantasie. Il nume tutelare era Miles Davis e i suoni che ribollivano dopo «In A Silent Way», compresi i taglia-incolla in studio con Teo Macero; ma Wyatt si ribellava a quella idea di fondo e proponeva piuttosto una sua idea di canzone fuori schema, parolibere che si tiravano dietro tizzoni ardenti di suoni e rumori. Dio lo ringrazi per Moon In June, fotografia di un’anima inquieta e bella anticipazione dell’album «solo», «The End Of An Ear», che di lì a poco avrebbe realizzato senza (quasi tutti) i compagni, forse anche contro di loro. Wyatt mordeva il freno, i Soft stavano diventando una band di nobile avanguardia che per i suoi gusti però suonava «convenzionale». Rimase ancora per le registrazioni del 4 ma poi salutò la compagnia, perdendosi per le sue molte strade. Lo sostituì John Marshall, che suonava benissimo la batteria ma non aveva tante idee da portare ai Soft, e il gruppo cominciò a perdere peso. Il quinto è ancora un bel disco ma come sotto vetro, con acidi colori una volta di più davisiani però senza il calore, il trasporto, anche la benedetta confusione dei primi slanci. Prepara il terreno al «Six», doppio lp con quattro lunghi pezzi in studio e due facciate live, dove si comprende che l’inafferrabile nebuloso suono SM è disceso a terra tra ovatta e lustrini. Forse sono troppo duro, il «Six» è ancora un buon album come, con qualche indulgenza, il «Seven»; ma hanno vinto l’anima ragionieristica di Ratledge e l’assennato spirito Nucleus di Karl Jenkins, entrato a sostituire il devastante Dean, e i dischi prima erano tutt’altra cosa.

Soft Machine «Hidden Details»
Soft Machine «Hidden Details»

Quando dopo «Bundles» se ne va Mike Ratledge non resta più nessuno del nucleo storico. È il 1976. Da eretici paradossali i Soft Machine si sono trasformati in jazz rockers ortodossi e la band è diventata una specie di temporary shop affittato soprattutto a Marshall e Jenkins, i più affezionati; va così per anni, finché nel 1984 si decide di levare di mezzo la sigla, se non altro per rispetto. Ma c’è fame di Soft Machine, o almeno di quel suono e dei musicisti che hanno ruotato intorno alla leggenda, e a ricordare gli anni d’oro non bastano le decine di nastri inediti che affiorano. Così nascono cloni curiosi della Macchina originaria, con sigle ammiccanti: Soft Ware, Soft Works e, a partire dal 2004, Soft Machine Legacy. Il tempo paradossalmente aiuta, convincendo anche i più scettici: e nel 2015 Marshall, Babbington, Etheridge ottengono di potersi chiamare Soft Machine e basta, coinvolgendo nel gioco il preziosissimo «intruso» Travis.

«Hidden Details» è il primo album della nuova vita, non così diverso dalle proposte dei Legacy ma con un paio di stimolanti novità. Da un lato Travis fa un passo avanti e diventa membro a tutti gli effetti, autore e per certi versi leader di una formazione di cui era sempre stato «ospite»; dall’altro il restauro della nobile sigla porta ad affermare una continuità con il passato e accanto a pezzi nuovi spuntano un paio di riprese, una profana e una sacra. The Man Who Waved At Trains è un dimenticato Mike Ratledge del periodo finale, «Bundles», senza infamia e senza lode; mentre Out-Bloody-Rageous è un’icona del terzo lp, e aver provato a ripittarlo con buona volontà, pur in versione ridotta, in due segmenti, è un segno di coraggio e deferenza che va apprezzato. Gli altri undici brani sono tutti originali, senza voli pindarici ma neanche cedimenti, con un gusto «classico» che piacerà ai seguaci, a cominciare dall’appassionata title track: molti fiati loops liquide tastiere, un vibrante Babbington al basso degno della sua fama, un Marshall che nega vecchiaia e malanni lottando corpo a corpo con la batteria e quanto a Etheridge basta con la sua chitarra, strumento che nei Soft Machine degli anni d’oro non aveva spazio ma poi, grazie anche al fu Allan Holdsworth, diventò un tassello importante.

C’è un motivo in più per apprezzare «Hidden Details» e riguarda il luogo dove è stato registrato, il Temple Music Studio di Jon Hiseman nel Surrey. Hiseman non è mai stato un Macchinista ma ha giocato una partita parallela con i Colosseum e altri satelliti di quell’universo, e possiamo immaginarlo interessato ed entusiasta, alla consolle, per questa ennesima pagina del ponderoso libro del Brit jazz. È morto a giugno, prima che il progetto fosse rifinito, ed è facile dire che questo disco che viene da lontano, da una Gran Bretagna tanto amata e che non tornerà più, è dedicato a lui.

Riccardo Bertoncelli

[da Musica Jazz, ottobre 2018]

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