Ron Geesin: un bel perdente

di Riccardo Bertoncelli

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Una piccola etichetta italiana rilancia Ron Geesin, uno dei più originali e paradossali autori della scena Brit. Che gli appassionati dei Pink Floyd conoscono bene, anche se forse non lo sanno

«Compositore e musicista fatto e finito, sperimentatore sul bordo della free form, poeta e comedian con il gusto dell’assurdo, co-autore della suite di “Atom Heart Mother” dei Pink Floyd, autore della colonna sonora di Quella maledetta domenica di John Schlesinger, uno dei primi discografici di se stesso, inventore dell’installazione interattiva The Tune Tube. Soprattutto, uomo di un Nuovo Rinascimento».

Ron Geesin si descrive così, nella pagina introduttiva del suo sito, presentando con sincerità e incrollabile fierezza gli alti (pochi) e i bassi (assai di più) di una singolare carriera che ha ormai svoltato la boa dei cinquant’anni. Sia chiaro che i picchi su e giù si riferiscono alla diffusione delle opere e alla celebrità guadagnata, non alla qualità; che è sempre stata notevole, in un angoluccio della scena Brit che a un certo punto finì illuminato a giorno ma poi è scivolato in penombra, e oggi verosimilmente nel buio assoluto. Non c’è gusto neanche in Gran Bretagna a essere intelligenti, e lo spazio per gli eccentrici e i neo rinascimentali è sempre meno.

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Geesin cominciò a diciott’anni come jazzista trad, pianista negli Original Downtown Syncopators quando la Gran Bretagna (lui è scozzese ma operava nel Sussex) pullulava di dance halls che la rivoluzione del beat avrebbe presto messo a ferro e fuoco. Però non era fatto per le nostalgie e se ne accorse subito, virando con disinvoltura verso l’ignoto: abbracciò la musica sperimentale appunto, senza etichette e «on the free form edge», e l’improvvisazione, condotta alle tastiere come nella vita – «con humour e passione». Dopo un ep stampato in proprio, fu ingaggiato dalla Transatlantic per un album, «A Raise Of Eyebrows», con cui si guadagnò un’ombra di micropopolarità grazie al solito John Peel, che con il suo infallibile terzo occhio lo scovò e gli diede asilo per qualche emissioncina BBC. La cosa servì a Geesin per emergere dai sotterranei e arrivare almeno rasoterra; là dove si accorsero di lui i Pink Floyd nell’ultimo periodo davvero creativo della loro esistenza, i Pink Floyd storditi dalle possibilità emerse da «Ummagumma» e al tempo stesso smaniosi di idee strane e incerti sulla direzione da prendere.

Ron Geesin
Ron Geesin

Era il 1969. Il nostro uomo stava lavorando alla colonna sonora di un film di Roy Battersby, The Body, curioso mix tra documentario e racconto fantastico sulle meraviglie del corpo umano esplorate con raffinata tecnologia. I suoi traffici e intarsi di rumori corporali attirarono l’attenzione di Roger Waters, che siccome sapeva di «canzone» così come Geesin sapeva di noise, fu imbarcato nell’avventura. Dalla collaborazione tra i due nacque «Music From The Body», un classico della discografia «quasi Floyd» che rende bene l’idea delle curiosità, degli slanci, delle velleità di quei giorni.

Di lì a poco il gruppo cominciò a rimuginare un ambizioso progetto orchestrale, «Atom Heart Mother», e fu naturale ricorrere a Geesin come consigliere esterno, per mettere in forma quelle che erano solo idee abbozzate. La collaborazione riuscì e finì in gloria: «Atom» fu il trampolino di lancio dei Floyd verso la fama eterna, e lo spicchio di royalties che Geesin riuscì a ritagliarsi gli consentì di improvvisare la vita come meglio non avrebbe potuto. Forse per questo, per gratitudine, l’ex ragazzo è rimasto legato a quella suite, che nel 2008 ha voluto riproporre in scena con l’aiuto di una cover band italiana, i Munn Floyd. Per l’occasione fece una comparsata David Gilmour, mentre gli altri si defilarono storcendo il naso davanti a quella reliquia del passato: era stata sì una felice svolta ma anche un peccato di ingenuità giovanile, polvere musicale da sistemare sotto il tappeto. Sull’esperienza, Ron lingualunga ha scritto un libro di cui va molto fiero, The Flaming Cow, in cui spiattella schiettamente aneddoti che gli appassionati avrebbero fatto anche a meno di sapere.

«Expo Zoom»
Ron Geesin «Expo Zoom»

Ad ogni modo, per conoscere davvero Ron Geesin, «compositore e musicista fatto e finito, sperimentatore ecc ecc ecc», non è «Atom» che torna utile quanto piuttosto «Music From The Body» e quello che viene dopo, a cominciare da un disco appena uscito qui da noi per una etichetta di culto che sta facendo cose egregie, la Dark Companion. Il disco si chiama «ExpoZoom» ed è un nastro del 1969, l’epoca che abbiamo appena rievocato, riesumato a distanza di mezzo secolo e rimontato da Geesin. Nel 1970 era in programma l’Esposizione Mondiale a Osaka e i responsabili del padiglione britannico pensarono a una serie di diciannove installazioni audio/video per illustrare la nuova realtà industriale del loro Paese. Chissà come, arrivarono a Geesin, che accettò di buon grado l’incarico e si gettò nel suo gran mare di nastri e suoni sintetici, stressando per quanto possibile la povera tecnologia di cui all’epoca disponeva (un ragazzo, oggi, nella sua cameretta ha molte più opportunità). Lavorò con cura, selezionò una serie di nastri come elementi-base ma non arrivò mai allo stadio finale, e le bobine furono accantonate. A nulla servì proporle alla Harvest, che ritenne sufficiente l’esperimento (ostico, bizzarro) di «Music From The Body»; così tutto scivolò nell’oblio, mentre Geesin capì la lezione e da quel momento in avanti i dischi se li produsse di preferenza da solo. Di tutto un po’: colonne sonore per film e programmi tv, spunti elettronici «all’ingrosso» per la music library KPM, dediche affettuose e, chissà, forse anche un po’ seccate (To Roger Waters Wherever You Are), perfino audiogiochi per bambini musicando ragni, elefanti, coccodrilli, chiocciole. Regole d’ingaggio: pubblicazioni sporadiche, poche copie tirate, vendita diretta ben prima di Internet. E ascese quasi esclusivamente in solitaria, sulle bizzarre montagne scelte da scalare. Geesin è sempre stato un autarchico, lui e le sue macchine, nel guscio del suo studio.

Avessimo avuto sotto le orecchie «ExpoZoom» all’epoca, sarebbe stato un balsamo. Cercavamo proprio suoni del genere, questi rombi dalla fucina di Efesto, questi segnali satellitari dal profondo dello spazio, i rumorosi «passaggi mentali» che ci eravamo illusi potessero comunicarci gli artisti giovani fuggiti dalla convenzione del rock – molti però non erano all’altezza e qualcuno si tirava indietro, come appunto i Pink Floyd «della celebrità». Resta un bel viaggio ancora oggi comunque, cinquant’anni dopo, con i frammenti del progetto originario composti in quattro blocchi dal sempre vispo Geesin, che confessa di soffrire di artrite e di non potersi più esibire dal vivo ma non rinuncia a zampillare idee e a modellare i suoi «electro-melodic sound-paintings»: i più recenti in ordine di tempo sono i due volumi di «RonCycle», dove tratta «il viaggio di una melodia» e «il viaggio di un ritmo» come fossero umane avventure, con il piglio paradossale e ironico che gli è proprio.

Ron Geesin
Ron Geesin

Geesin non ama troppo l’elettronica di consumo odierna, quella che io chiamo (spregiativamente, sì) «elettrodomestica». A dire il vero neanche la colta elettronica d’antan lo affascina più di tanto, perchè in fondo è un mondo che conosce e non gli dà ispirazione. Gli stimoli che confessa di preferire vengono da altro: dal jazz afro-americano di tutti in tempi, meglio se antico, dalla musica etnica nelle sue varie diramazioni planetarie, con una inclinazione di cuore verso la musica gitana. E comunque, se si vuole definirlo, guai a usare il termine «avanguardia». «L’avanguardia è il nascondiglio più facile che un musicista possa scegliere,» ha avuto modo di spiegare una volta, una riserva protetta per velleitari, furbacchioni e signor no. «Non usate quella parola per me. Preferisco essere definito per quello che sono: un essere umano che fa musica con delle idee.»

Riccardo Bertoncelli

[da Musica Jazz, luglio 2019]

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