Masego: venticinque anni e già un nome di spicco nella black music

di Marta Blumi Tripodi (foto di Philipp Raheem)

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Masego (foto di Philipp Raheem)
Masego (foto di Philipp Raheem)

Ascoltando un disco di Masego, nell’intimo di ogni tradizionalista una domanda sorge spontanea: qual è la linea di confine che divide ciò che è jazz da ciò che non lo è? E, cosa ancora più importante, siamo sicuri che questo venticinquenne della Virginia, che definisce la sua musica «TrapHouseJazz», stia dal nostro stesso lato della barricata? Ciascuno faccia le sue valutazioni, ma la risposta probabilmente è sì, con buona pace dei puristi. Cantante, polistrumentista, autore e produttore, apprezzatissimo in patria ma soprattutto in Europa, Masego ha già toccato Milano due volte con i suoi tour: la prima l’anno scorso, in occasione del JazzMi, presentandosi sul palco praticamente da solo e armato di voce, loop station e del suo inseparabile sassofono, e la seconda a settembre 2018, per una data al Santeria Social Club organizzata da Radar Concerti (specializzata in sonorità contemporanee e all’avanguardia) e andata meritatamente sold-out. Lo incontriamo proprio in quest’ultima occasione, in una pausa del sound check: prima che l’intervista cominci, ci tiene a raccontarci tutto ciò che ha fatto e visto nella sua mezza giornata da turista, girando freneticamente per la città in fermento per la settimana della moda. Comincia una piacevolissima chiacchierata che ha per tema l’Italia e il suo volto più futuristico e innovativo; dobbiamo impegnarci non poco per riportare la conversazione sui binari della musica, in particolare del suo ultimo album «Lady Lady», uscito a settembre 2018.

Un giornalista americano ha scritto che sentirti cantare è come ascoltare la melodia di un sassofono riprodotta con la voce umana. Sei d’accordo?
Assolutamente. Adolphe Sax, l’inventore del sassofono, diceva che era uno strumento creato per imitare la voce, perciò se qualcuno pensa questo di me lo prendo come un grande complimento.

Cosa significa la definizione «TrapHouseJazz»?
Credo che la mia produzione raccolga in sé l’impatto della musica trap, che è molto ruvida e va dritta al punto, l’energia della house, che è fatta per ballare e stimola la voglia di muoversi, e la sofisticatezza e le cadenze del jazz.

E cos’è il jazz per te, invece?
È la quintessenza della creatività. È un genere fatto da persone che esplorano le potenzialità del suono, in una maniera inedita e sempre nuova.

Masego
Masego

Da dove sei partito, per creare questo caleidoscopio di generi?
Ho iniziato suonando la batteria in chiesa: a otto anni trasformavo tutti gli oggetti che trovavo in giro in percussioni improvvisate, così mia mamma si rassegnò e mi permise di prendere lezioni. Alle medie ho cominciato a suonare il sassofono, e alle superiori il pianoforte; all’università, invece, ho cominciato a cantare. Insomma, per me la vita è un continuo viaggio in cui, lungo la strada, imparo a suonare nuovi strumenti!

Come sta procedendo questo tuo viaggio?
Alla grande! Credo si capisca anche ascoltando i miei dischi: la mia musica cambia man mano che cresco, assimilo la cultura che mi circonda, respiro, sanguino.

Restando in tema: in che cosa si differenzia l’album «Lady Lady» rispetto alla tua precedente produzione?
Ha un sound più cesellato, profondo: per esempio non avevo mai lavorato con gli archi in precedenza, mentre qui li ho usati in abbondanza. Nei miei primi album, inoltre, cantavo un po’ meno, mentre ora mi tuffo più volentieri nella scrittura di canzoni. E poi c’è il fattore tempo: prima riuscivo a scrivere, produrre e registrare un disco intero in una settimana di lavoro, mentre con «Lady Lady» ci ho messo un anno. E questo mi fa capire che sono davvero maturato.

Fin dal titolo, è evidente che è assai ispirato dalle donne…
Le donne mi influenzano da sempre: sono stato cresciuto da mia mamma e dalle mie due sorelle. Amo il modo in cui si vestono, il loro senso dello stile, il loro modo di amare e parlare. Sono state le donne a introdurmi alla musica. Render loro omaggio era la cosa più giusta da fare.

È un lavoro estremamente vario. Hai una canzone preferita, tra quelle del disco?
Al momento è Black Love: si può dire che sia la mia canzone del mese! Mi piace così tanto perché in essa parlo di un giorno che per me non è ancora arrivato, quello del mio matrimonio. Il fatto che sia riuscito a renderlo così realistico è una prova del fatto che la musica è davvero in grado di trasportarti altrove, a volte.

Masego (foto di Philipp Raheem)
Masego (foto di Philipp Raheem)

Come mai, pur essendo così giovane, pensi già al matrimonio?
Ho un’immaginazione davvero vivida, perciò quando incontro una ragazza comincio subito a pensare a tutti gli sviluppi di una nostra potenziale relazione a lungo termine, e ovviamente a come sarebbe sposarla! È una specie di ricorrente sogno ad occhi aperti. Guardo un sacco di film romantici, ascolto tante canzoni d’amore, è normale che anche le mie fantasie vadano in quella direzione. Inoltre, mi sento una cosiddetta «old soul»: anche se ho solo venticinque anni, preferisco la compagnia di persone più mature e di conseguenza anche i miei progetti di vita lo sono.

A proposito di anime antiche, tra le tue grandi influenze musicali citi sempre Cab Calloway…
L’ho scoperto anni fa tramite un documentario e mi sono subito identificato con il suo modo di essere. Non solo in ambito musicale, ma anche come personalità e stile: ogni abito del suo guardaroba proveniva da un diverso angolo dell’Europa e, anche se negli anni Trenta non era un tema all’ordine del giorno, faceva di tutto per incarnare il ruolo di cittadino globalizzato e cosmopolita. Il suo suono era ricchissimo di influenze diverse, e sul palco era un performer eccezionale. Avrei tanto voluto poter vedere un concerto della sua orchestra.

In un contesto più contemporaneo, quali altri musicisti apprezzi?
Tra le proposte più recenti amo molto Lianne La Havas, Esperanza Spalding, Janelle Monáe, le King…

… che, non a caso, sono tutte donne. Mi stai davvero dicendo che al momento non apprezzi nessun musicista maschio?
Non al momento, no! Non tanto da farmi influenzare da loro, almeno.

Tornando al disco, una delle canzoni più eccentriche e divertenti è senz’altro Shawty Fishin’ (Blame The Net), ma il testo è così criptico che è difficile capire di che cosa parli. Ci sveli il mistero?
Immagina di essere su una grande imbarcazione: il mare rappresenta tutti i possibili partner con cui potresti uscire prima o poi, e con cui potresti finire per trascorrere il resto della tua vita. La canzone parla proprio di questo, di un pescatore che se ne sta sulla sua barca osservando tutti i possibili percorsi che potrebbero condurlo all’amore. Hai presente il detto «Il mare è pieno di pesci»? Ecco, il senso è quello: anche quando hai il cuore spezzato, sappi che là fuori c’è comunque qualcuno che sta aspettando te, perché i numeri sono dalla tua parte.

All’inizio pensavo che fosse una canzone sugli incontri online, per via del sottotitolo Blame the Net, letteralmente «La colpa è della rete»…
È un’interpretazione molto divertente! Penso che il bello della musica sia proprio questo: ogni canzone può voler dire una cosa diversa per ciascuna delle persone che la ascolta. E in questo caso ancora di più, perché in effetti è una canzone dal finale aperto.

Masego - Lady Lady
Masego «Lady Lady»

A proposito di cose divertenti, hai dichiarato che la tua musica è molto influenzata dalla stand-up comedy (il tradizionale cabaret americano che vede un comico impegnato in un monologo su un palco vuoto, microfono a parte). In che modo?
Ogni stand-up comedian abbraccia la semplicità: niente scenografia, niente musica, ci sono solo lui e il pubblico. È un’immagine molto potente, e quanto più è in grado di raccontare una storia e accompagnarti in un viaggio fatto solo di parole, tanto più è eccezionale. Il mio preferito in assoluto resta Eddie Murphy, perché parte con una battuta, sviluppa tutto il monologo attraversando diversi argomenti e poi chiude tornando a quella stessa battuta, in una circolarità perfetta. Mi piacerebbe davvero poter fare la stessa cosa con i miei concerti, anche se ovviamente in uno spirito differente.

Tu stesso, in effetti, sei una sorta di cavaliere solitario: in studio suoni personalmente molti degli strumenti. Anche sul palco spesso sei da solo e costruisci le tue performance grazie all’uso di una loop station. Come sarebbe stata la tua musica se fossi vissuto anche solo trent’anni prima, senza tutte le possibilità che la tecnologia fornisce oggi?
Probabilmente avrei fatto come Cab Calloway e mi sarei dotato di un’intera orchestra, e avrei chiesto aiuto anche al pubblico con i cori a chiamata e risposta. Insomma, credo che il risultato finale sarebbe stato simile: ad essere diverso sarebbe stato solo il metodo per arrivarci.

Guardando al futuro, invece, stai già pensando alle prossime evoluzioni della tua musica?
Sempre. Ogni volta che faccio una jam session con i miei amici – una cosa che adoro, perché quando improvvisi con altri musicisti c’è un’energia palpabile e potentissima – si evolve qualcosa nel mio suono. Insomma, saprò dove sono diretto solo quando sarò già arrivato: nel frattempo continuo a vivere la vita e a sperimentare cose nuove.

Marta Blumi Tripodi

[da Musica Jazz, novembre 2018]