Marcus Miller: «In me convivono molteplici influenze»

di Marta «Blumi» Tripodi - foto di Mathieu Zazzo

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Marcus Miller «Laid Black» - interview

Torna il grande bassista Marcus Miller con un disco che esplora le mille facce della black music di oggi

Dopo oltre quarant’anni di onorata carriera, si può dire con certezza che il Marcus Miller che tutti abbiamo imparato ad amare e conoscere come uno dei più brillanti bassisti jazz della sua generazione non è che la punta dell’iceberg. Avendo suonato come turnista per molti esponenti di altri generi musicali – da Luther Vandross a Carly Simon, da Roberta Flack a Billy Idol, ma anche per le numerose colonne sonore di commedie e thriller da lui composte – è diventato un artista estremamente sfaccettato e poliedrico. Non c’è da stupirsi, quindi, se il suo nuovo album «Laid Black», appena pubblicato dalla Blue Note, sia profondamente diverso dalla discografia che lo ha preceduto, e in particolare da «Afrodeezia» del 2015, che era un viaggio a ritroso nella sua matrice africana. Stavolta Marcus si è dedicato a esplorare la contemporaneità della musica nera, con particolare riferimento a sonorità che è facile trovare nelle classifiche di vendita di tutto il mondo ma che, grazie al suo tocco, diventano come per magia sofisticate e complesse. L’atmosfera dei brani è distesa e informale, come è facilmente intuibile per chi conosce l’inglese: laid black è infatti un gioco di parole tra black, come la musica che lo ha ispirato, e l’espressione laid back, che significa proprio «rilassato», «alla mano».

Quest’album è molto diverso dal precedente, come suggerisce anche il titolo…
«Afrodeezia» era un concept album in cui esploravo le mie radici, riscoprendo le melodie e i ritmi storici dell’Africa Occidentale e dei Caraibi. In questo disco, invece, volevo portare l’attenzione sulle sonorità che sono popolari oggi alle nostre latitudini, dandone una mia interpretazione in chiave jazz. In realtà potrebbe essere letto come una sorta di continuazione del viaggio dei miei antenati: con questo lavoro li ho accompagnati fino al presente.

Uno dei brani più sorprendenti di «Laid Black» è senz’altro la tua versione di Que Sera Sera, realizzata in collaborazione con Selah Sue: perché questa virata blues?
Ho incontrato Selah Sue qualche anno fa, grazie a conoscenze comuni. Nel tempo ci è capitato di fare alcuni concerti insieme e ho capito che è una cantante eccezionale, con una voce molto dolce e nel contempo molto soul e graffiante. La dicotomia mi ha fatto ripensare a una vecchia versione di Que Sera Sera, registrata negli anni Settanta da Sly and the Family Stone, uno dei miei gruppi preferiti, in cui per la prima volta il pubblico potè apprezzare delle influenze blues e gospel in quella canzone. In parte è stata la reinterpretazione fatta da Sly a ispirarmi, ma ho provato a portarla un po’ più in là, mettendoci anche un po’ di rock, che non guasta mai.

Nella coda della canzone avete aggiunto anche dei versi inediti, come mai?
Sono solo quattro versi, io e Selah ne abbiamo scritti due a testa. Volevamo elaborare meglio il pensiero contenuto in Que Sera Sera: in origine era una canzone per bambini, ma a pensarci bene può essere estesa a tutti, perciò abbiamo deciso di aggiungere delle parole che potessero aiutare chiunque, adulti compresi, a ritrovarsi nel testo. Parlano del fatto che proviamo lungamente a prendere il controllo della nostra vita, ma che a volte sarebbe meglio lasciare andare le cose come devono andare, senza forzare la mano. Penso che ci siamo passati tutti, prima o poi.

Marcus Miller «Laid Black» - interview

Un’altra canzone molto riuscita è Sublimity: stavolta c’è una somiglianza palpabile con il tuo lavoro in «Afrodeezia», con atmosfere africane chiaramente percepibili…
Infatti è stata concepita proprio come l’anello di congiunzione tra «Afrodeezia» e «Laid Black», in modo che la gente potesse capire che il loro autore è lo stesso tizio! Scherzi a parte, mentre registravo l’album io e mia moglie abbiamo avuto un periodo difficile: sua madre e mio padre sono morti a tre mesi l’una dall’altro. Erano molto anziani – lui aveva 92 anni, lei 87 – ma è stato comunque un dolore enorme, che una volta elaborato ci ha portato a una grande pace interiore. In fondo hanno avuto delle vite molto lunghe e felici, perciò abbiamo capito che non potevamo certo lamentarci. La canzone parla proprio di questa pace che abbiamo raggiunto, e di come ci abbia fatto sentire immensamente meglio.

C’è anche un altro brano che ci riconnette ad «Afrodeezia», ovvero Preacher’s Kid: era presente anche in quell’album, anche se in una versione diversa. Come mai hai scelto di inserirlo anche in «Laid Black»?
Innanzitutto bisogna specificare che si tratta di una versione risuonata. La prima, quella contenuta in «Afrodeezia», l’avevo realizzata insieme a diversi musicisti africani; questa, invece, è in collaborazione con i Take 6 e i sassofonisti Kirk Whalum e Alex Han. Volevo assolutamente che la gente potesse ascoltare anche questa versione. Il brano era stato scritto per mio padre: è lui il figlio del predicatore di cui parla il titolo, perché mio nonno era un pastore e tutti lo chiamavano così. Quando la scrissi lui stava ancora bene, era pieno di vita, e quando è morto ho sentito l’esigenza di farne una nuova versione e dedicargliela.

Tra i brani più suggestivi dell’album c’è anche Someone To Love, che è talmente
evocativo da sembrare quasi una colonna sonora…
Indovinato: effettivamente all’inizio l’avevo scritta proprio per un film! Stavo lavorando a una colonna sonora in quel periodo e mi è uscito questo pezzo, che amavo moltissimo ma che non si adattava bene alle scene per cui mi era stato commissionato. Alla fine ho deciso di scriverne un altro per il lungometraggio, e di tenere questo per me. Ho aggiunto l’unico verso presente nel brano, «I’ll be your someone to love», e l’ho intitolato proprio così. Ho scelto di non aggiungere altre parole per lasciare tutto il resto all’immaginazione dell’ascoltatore, sperando che si sentisse come se fosse al cinema a guardare un film.

Tornando all’album, un’altra sua particolarità è che hai cominciato a suonarlo dal vivo prima ancora che fosse pubblicato: il «Laid Black Tour» è iniziato parecchi mesi prima della sua uscita ufficiale…
A dire il vero abbiamo iniziato a portare sul palco i brani di «Laid Black» prima ancora di registrarli. Se ci pensi, quando ascolti un disco, la maggior parte delle volte stai ascoltando un gruppo di musicisti che suonano quella canzone praticamente per la prima volta: probabilmente il compositore stesso l’ha scritta una settimana prima e ancora non ha neanche avuto il tempo di abituarcisi. Trovo che sia una circostanza abbastanza infelice, perché se hai la possibilità di suonare quella stessa canzone davanti a un pubblico per molte volte, la musica cresce e matura. È proprio questo che abbiamo cercato di fare con questo tour: molte delle canzoni, come Sublimity o Trip Trap, hanno avuto una fase di rodaggio di mesi, durante i nostri concerti. E quando sono tornato in studio per registrarle, hanno trovato la loro veste definitiva, quella che mi ha convinto davvero. Capita che io pensi che un certo aspetto del brano sia molto importante, ma quando poi vedo la risposta della gente capisco che non lo è poi così tanto, e viceversa.

Visto che il tour è già molto ben avviato, cosa ti aspetta nel prossimo futuro?
Partiremo di nuovo in tour per suonare ufficialmente i brani del disco, ora che è uscito. Nel frattempo sto anche lavorando alla colonna sonora di un altro film, a cui per il momento mi sto dedicando la sera, in albergo, quando torno dai miei concerti. E ho anche in programma di collaborare di nuovo con Selah Sue, soprattutto dal vivo.

Marta «Blumi» Tripodi

(Estratto dall’intervista pubblicata sul numero di luglio 2018 di Musica Jazz)