«Visions». Intervista a Pietro Condorelli

Dopo un lungo silenzio discografico il chitarrista casertano pubblica il suo nuovo disco. Ne parliamo con lui.

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Buongiorno Pietro, parliamo subito del tuo ultimo lavoro discografico, «Visions». Innanzitutto, perché questo titolo?
Durante questo brutto periodo, caratterizzato da insicurezza esistenziale, clausura forzata e mancanza di relazioni umane  , tutti siamo stati costretti a porci qualche importante domanda. Tra le risposte , le intuizioni , riflessioni varie e visioni oniriche, è stato inevitabile iniziare ad avere differenti prospettive, tra queste, ritornare indietro sui propri passi e modificare qualche scelta fatta in passato, sono circa venti anni che ho abbandonato le “scene“ attive delle performances ed oggi ho pertanto cominciato nuovamente a suonare, comporre …in sostanza comunicare naturalmente  attraverso la musica.

Quali sono le tue «visioni» della musica?
Non riesco a dare una risposta univoca , detesto anche in musica i fondamentalismi , la mia crescita musicale è iniziata nel grande melting pot anni Settanta : il rock blues, il progressive, successivamente Coltrane, il free, la musica etnica. Oggi preferisco esprimermi in linguaggi mainstream ma in realtà suono di tutto con grande piacere, e, a differenza del passato suono anche con musicisti di ispirazione differente dal jazz. Nel jazz, apprezzo sempre di più i solisti con un serio background di competenze specifiche  alle spalle  ed ovviamente compositori stimolanti, spesso nella semplicità trovo motivo di interesse.

Nella tua musica risuona tutta la tradizione del jazz. Qual è il tuo rapporto con la tradizione?
Un rapporto veramente molto intenso, prima di essere un musicista sono un appassionato di  jazz, ascolto di tutto (prevalentemente in vinile) ,poi opero delle scelte estetiche e razionali.  Amo molto la tradizione fino ai solisti post Coltrane , purtroppo talvolta non mi soddisfano alcune scelte contemporanee , specialmente quando non mi convince il feeling della proposta o non percepisco l’essenziale conoscenza linguistica…

Invece, qual è il tuo rapporto con le evoluzioni del jazz, anche con l’utilizzo dell’elettronica?
Per ora ancora non ci sono arrivato…

A chi è dedicata Song For Galbraith?
Barry Galbraith è stato un chitarrista eccezionale, sebbene oggi sia stato dimenticato, un importante sideman e geniale docente. I suoi testi didattici  sono ancora utilizzati da molti insegnanti. Ha registrato di tutto dalla third stream alle colonne sonore, era in grado di suonare una fuga di Bach quanto di eseguire una jazz solo performance .Un esempio da tenere ben presente.

Non so perché, ma in Notte che va mi sembra di sentire suonare anche la tradizione napoletana, più degli altri brani. Mi sbaglio?
Il brano è dedicato a Pino Daniele , quindi le sonorità del brano sono relate a quel tipo di feeling musicale e a Napoli.

Hai dedicato un brano a Sean Connery. C’è qualcosa in particolare che ti lega al grande attore scozzese?
Ho sempre ammirato Sean Connery , un personaggio straordinario, comunica forza e nobiltà d’animo , al di sopra dell’ordinarietà.

Pietro Condorelli

I brani sono tutti firmati da te, a eccezione di It Had To Be You. Il processo compositivo degli otto brani a tua firma, quando è iniziato?
Quando  Carlo Contocalakis mi ha prospettato la produzione di un nuovo lavoro discografico (dopo oltre 10 anni da «Wildcats») mi sono attivato immediatamente, cercando di interpretare le «Visioni» in maniera semplice e diretta, un approccio scevro da  sovrastrutture logico –razionali. Il brano Visions, ispirato da Zawinul,  è forse il più organizzato strutturalmente.

A tal proposito, come si svolge il tuo processo compositivo?
Scrivo spesso alla «vecchia maniera», non uso il computer e pertanto riascolto tutto suonando dall’inizio finché le nuove idee mi convincono musicalmente, in questo percorso cerco di trovare me stesso.

Perché hai scelto come standard proprio It Had To Be You?
Questo brano ha subito spesso la stessa sorte di Tea for two , sono brani bellissimi che  talvolta sono stati banalizzati, mai dai musicisti jazz che ne hanno sempre restituito belle interpretazioni. Suonandolo mi è tornato anche il desiderio di suonare in solo guitar più frequentemente.

Un disco che è in trio (con Emiliano De Luca al contrabbasso e Claudio Borrelli alla batteria), ma con un nutrito numero di ospiti: Vito Di Modugno, John Jones, Andrea Giuntini, Carlo Contocalakis. Ci parleresti di loro e perché hai voluto quattro ospiti?
La scelta di questi artisti è legata all’aspetto di condivisione umana  e dalla straordinaria funzionalità del loro suono. Tutti,  in modo discreto, hanno contribuito al sound del disco, li ringrazio profondamente!

Come hai prodotto questo disco e come lo distribuisci?
Alma mater ars studio è un gruppo di lavoro straordinario che ringrazio per aver prodotto Visions , oltre a Carlo Contocalakis ,l’ingegnere del suono Domingo Colasurdo è stato fondamentale. Jazz 2 watch è una nuova etichetta indipendente, abbiamo stampato in Cd e vinile con buoni risultati a detta degli esperti di hi-fi.

Pietro Condorelli Trio

Pietro era veramente un bel po’ che non pubblicavi un disco. C’è un motivo in particolare che giustifica questo tuo silenzio?
Forse non ne sentivo la necessità, anche perché per  lunghi periodi mi sono dedicato a cose differenti. Adesso invece sono nuovamente interessato a registrare e produrre  musica, mia e di altri artisti.

Tra l’altro, sei in controtendenza con quanto succede nel mercato discografico italiano di jazz, dove vi è un gran fermento e una grande produzione di dischi. A tal proposito, cosa ne pensi di questa grande produzione discografica italica e, soprattutto, pensi che sia di qualità?
Sono stato talmente assorbito da altre cose e  sicuramente mi sono perso qualcosa, spero che i giovani talenti facciano sempre bella musica ed abbiano un feeling propositivo.

Quanto è differente suonare la chitarra jazz rispetto agli altri stili?
La chitarra nel jazz è molto difficile sia dal punto di vista tecnico interpretativo sia dal punto di vista dell’inserimento artistico. Tecnicamente parlando un chitarrista di jazz necessita sia di un superiore lavoro sulla meccanica pura dello strumento, sia una conoscenza in ambito compositivo ed armonico , in altri stili musicali questo non è così necessario , il chitarrista jazz diventa un compositore istantaneo e  pertanto possiede  una forma di controllo sui vari parametri musicali ed infine deve anche “lasciarsi andare” per poter improvvisare in maniera fluida e naturale. Si aggiunge inoltre la straordinaria e costante evoluzione delle varie tecniche di questo strumento tutt’ora in evoluzione. Dal punto di vista pratico ed inserimento, è ugualmente difficile per un chitarrista suonare in ambiti squisitamente jazz per vari motivi ma negli ultimi 30 anni i chitarristi sono molto più presenti sulle scene , eseguono il comping anche con riferimenti alla storia del piano jazz, fraseggiano tenendo conto del linguaggio degli strumenti a fiato e leggono le partiture  anche meglio rispetto al passato.

Tu svolgi anche un’intensa attività didattica presso il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli. Ai giovani il jazz piace?
I giovani musicisti che frequentano le scuole di musica in genere hanno un atteggiamento abbastanza aperto ed ascoltano cose differenti, spesso condizionati dalla propaganda in rete di artisti ben presenti sul web. Ovviamente in chiave critica questo diventa discriminante in quanto si dà un poco per scontato l’esistenza della tradizione, talvolta senza operare  approfondimenti dovuti. Nelle sale da concerto, nei festival e nelle rassegne, ma anche nei piccoli jazz club, si sta assistendo poi ad un innalzamento dell’età media degli ascoltatori , quasi come se non ci fosse un sufficiente ricambio generazionale nell’audience.  Tuttavia continuo ad apprezzare tanti giovani talenti e confido nella loro forza per portare la musica avanti.

Pietro Condorelli

Cosa si potrebbe fare per avvicinare i giovani al jazz e, soprattutto, a seguire i concerti di jazz?
Questa è una domanda critica, è da qualche anno che non riesco a trovare una risposta, l’appeal seduttivo del omogeneità rassicurante della collettività indottrinata dai media e dalla rete ha una forza devastante . Ovviamente ciò non riguarda solo il mondo del jazz ma della cultura in genere, la gente non legge più libri ma contemporaneamente esiste un florilegio di autori che scrivono libri, c’ è chi suona uno strumento da pochi anni e diventa una star del web (?), anzi a ben vedere, c’è gente che non sa fare praticamente nulla e tuttavia riesce a penetrare nei gusti e preferenze di followers vari e questo contribuisce a fare circolare l’idea falsata che tutti possono quasi senza sforzo riuscire ad avere successo. Un  saggio diceva ai propri allievi che la verità perde sempre, le menzogne sono tante mentre  la verità è unica e nascosta. La questione rimane aperta: occorre in qualche modo  fare proselitismo.

Hai in animo di promuovere questo disco con un tour?
Non è mia intenzione fare tour promozionali. Come sai ho smesso di suonare tanto in giro soprattutto perché non amo viaggiare sistematicamente ,avrei piacere di fare ascoltare comunque  la mia musica live, ma con ritmi più consoni e naturali.

A proposito di live: come giudichi il sistema jazzistico italiano dal punto di vista organizzativo?
Non sono molto aggiornato e pertanto non esprimo giudizi, credo di aver capito che esistono molte realtà che fanno in qualche modo squadra: festival che collaborano tra di loro e jazz club che fanno rete, auspico pertanto, specialmente per le giovani generazioni, che esista uno spazio meritocratico maggiore  rispetto al passato.

Cosa è scritto nell’agenda di Pietro Condorelli?
Fare tanta musica, registrare, produrre giovani talenti  e condividere l’esperienza maturata  in tanti anni!
Alceste Ayroldi

 

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