Jamie Saft: «La mia formazione musicale mi porta a non fare distinzione tra generi.»

di Andrea Baroni - foto di Michael Bloom

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Jamie Saft - foto Micheal Bloom

Trasversale e senza limiti, Jamie Saft vive un intenso momento di felicissima creatività e ce ne parla in occasione dell’uscita del suo nuovo album «Blue Dream».

Se alcuni musicisti hanno caratterizzato così profondamente le coordinate sonore di un’etichetta discografica da diventarne interpreti simbolici – ad esempio il John Coltrane degli anni Sessanta con la Impulse, Keith Jarrett o Jan Garbarek con ECM – quello fra Jamie Saft e la RareNoise assomiglia piuttosto all’incontro «predestinato » tra persone, il musicista e i produttori, animate dal medesimo modo di concepire l’espressione musicale. Ovvero quello di non porsi dei limiti.

I due lavori più recenti di Jamie Saft pubblicati da RareNoise sono «Solo a Genova» un concerto per pianoforte solo dedicato al personale American songbook del musicista, inciso su uno spettacolare Steinway Model D il 3 marzo 2017 nell’auditorium Montale del capoluogo ligure, e «Blue Dream», incisione in quartetto con Bill McHenry, Brad Jones e Nasheet Waits che assomiglia a un succinto riepilogo di storia del jazz, dove non banali standards (Violets For Your Furs, Sweet Lorraine e la stupenda There’s a Lull In My Life) intervallano nove composizioni ricche di echi hard bop e free, dominate dalla sensibilità bluesy tipica di Saft.

Jamie, ci puoi svelare l’identità di questi due nuovi progetti?
La raccolta di brani presentata in «Solo a Genova» mette insieme importanti capisaldi
del grande canzoniere americano. Ho sviluppato da circa quattro anni un recital di versioni per solo piano basato sul rispetto per l’architettura di ogni pezzo. Alcuni sono trasformati in forme completamente nuove mentre altri pezzi sono molto aderenti all’originale, una scelta nella quale le canzoni stesse mi hanno orientato. Includendo composizioni di molti dei miei idoli musicali, questo album mi ha permesso di immergermi nel patrimonio musicale di artisti come Miles Davis, John Coltrane, Bob Dylan, Joni Mitchell, Steve Wonder, o Curtis Mayfield. Ed è difficile sbagliare conun repertorio scritto da alcuni dei migliori compositori di tutti i tempi, che rappresenta parte dell’ immenso contributo fornito da alcuni artisti americani al panorama musicale mondiale. Sono felice che la registrazione del disco sia avvenuta proprio in Italia, paese che dimostra un’attenzione d’un amore per l’arte in tutti i sensi molto più elevato di quanto accada negli Stati Uniti. Ho iniziato a pensare a questo progetto nel 2007, un periodo buio per il mio paese, dal punto di vista politico, prima dell’elezione di Obama, e oggi purtroppo siamo di nuovo in una simile situazione. Volendo, il progetto è una reazione a questi tempi, un tentativo di valorizzare ancora di più quanto di buono è stato fatto tramite la musica. Se pensiamo a Joni Mitchell o a Bob Dylan, i loro repertori sono veri e propri universi che richiederebbero anni di approfondimento e progetti specifici. Ma per rappresentare nel modo più ampio i miei riferimenti principali ci sono anche Charles Ives con lo stupendo The Housatonic At Stockbridge, un pezzo incentrato sulla natura, oppure il jazz con Naima di John Coltrane, forse l’espressione più alta della spiritualità in musica. Per quanto riguarda «Blue Dream», si tratta di un omaggio alla tradizionale forma del quartetto jazz. L’album rappresenta una novità rispetto alle mie precedenti incisioni per RareNoise, essendo composto, oltre che da mie composizioni, da alcuni standard di rilievo. Decenni fa, quando studiavo al Conservatorio del New England a Boston, uno dei miei insegnanti, la magistrale Geri Allen, mi suggerì di imparare la versione di Nat King Cole di «Sweet Lorraine», che ho voluto inserire nell’album. È un lavoro che mette in evidenza le capacità tecniche di ciascuno dei musicisti coinvolti e, nel contempo, intende valorizzare la loro capacità di costruire un profondo lavoro di improvvisazione collettiva all’interno di strutture musicali definite.

Jamie Saft Bill McHenry Brad Jones Nasheet Waits

Come cambia il tuo approccio all’esecuzione ed all’interpretazione in relazione a linguaggi musicali così diversi fra loro come quelli che frequenti?
La mia formazione musicale mi porta naturalmente a non fare nessuna distinzione tra
generi, anzi una parte essenziale del processo creativo consiste proprio nel verificare cosa può scaturire dall’incontro/scontro tra diverse culture. Sono nato a New York nei primi anni Settanta e ho vissuto lungamente a Brooklyn, dove solo uscendo per strada puoi «respirare» decine di universi musicali, dal rock al jazz, dall’hip hop alla Jewish music, e sentir parlare fino a novanta lingue diverse. Per me è diventato quindi naturale muovermi in ambiti diversi e assorbire stimoli di segno anche opposto. Per questo, oltre a un approccio a diversi strumenti che suono fin da piccolo, il pianoforte, i synth, la chitarra, la mia discografia assomiglia ad un puzzle di tante tessere, in ciascuna delle quali non fatico a riconoscermi.

La tua musica mi ha sempre suggerito una forte connessione con la natura, e il tuo recente lavoro, «Serenity Knolls» con Bill Brovold (una riflessione per chitarre e dobro evocata dai grandi panorami americani), conferma questa impressione. Vivi ed operi immerso nel verde delle Catskill Mountains, nello Stato di New York, e questo ambiente naturale quasi si riflette sulle tue modalità espressive.
Qualche anno fa, per decisione della mia famiglia [Jamie è sposato e ha tre bambini, ndr] ci siamo trasferiti da Brooklyn nella parte settentrionale dello Stato di New York, sulle Catskill Mountains. È un ambiente completamente naturale, immerso nel verde, dove la vista spazia tra immense distese di foreste, a differenza della città dove sei immerso in un costante rumore di fondo che pare non scendere mai sotto i 40 decibel. Con mia moglie, scherzando, lo chiamavamo il rumore dell’oceano. Oggi ho la mia casa e lo studio di registrazione accanto al prato dove vivono gli animali, le galline, il cane, e questo ha influito profondamente sulla mia visione musicale – mitigando la tendenza ai suoni più duri e intransigenti che caratterizzavano la prima parte della mia carriera – a privilegio di una dimensione più profonda e talvolta rarefatta, che trae spunto ed ispirazione proprio dalla vicinanza con l’ambiente naturale in cui sono immerso. Passo lunghi momenti semplicemente ad osservare il panorama che mi circonda, e non mi stanco di assorbirne i molteplici segnali che poi si riflettono sulla mia musica.

Un altro tema ricorrente tra le tue fonti di ispirazione è il ruolo della religione, del lato spirituale che accompagna la vita di molti di noi, lato che tu a volte hai paragonato ai percorsi della musica improvvisata. Quali connessioni vedi tra questi due universi?
Credo che improvvisare musica sia una delle più alte forme di spiritualità che gli esseri umani possano sperimentare, rendendo vivo il concetto di comunione che riguarda sia l’intesa fra i musicisti, sia l’empatia con il pubblico che ascolta un concerto. Si tratta di un momento impegnativo, sia per chi suona che per chi ascolta, e nei confronti del mio pubblico avverto un senso di responsabilità che si può concretamente riassumere nell’espressione della cultura religiosa ebraica tiqqun ‘olam, (in inglese «repair of the world»), ovvero una spinta propositiva che abbraccia, insieme alla propria sfera morale e spirituale, la dimensione collettiva del benessere. Significa che il comportamento del singolo può diventare tramite per una crescita complessiva della società, ed in questo senso il mio impegno come musicista si ricollega a grandi esempi di maestri che hanno guidato la mia formazione, come Joe Maneri, un maestro dell’improvvisazione che era animato da una profonda pulsione spirituale. Per questo, pur non essendo un praticante
assiduo della religione, ritengo che ci sia un profondo legame fra la musica e questo modo di intendere una visione spirituale.

L’abbinamento tra il trio New Standard e Iggy Pop ha suscitato parecchia curiosità.
L’idea è stata di Giacomo Bruzzo, un’apparente follia che si è rivelata felice intuizione. Abbinare un personaggo sopra le righe come l’Iguana alla raffinata dimensione di un luminare del basso elettrico come Steve Swallow poteva sembrare un rischio, invece
l’operazione ha convinto ed emozionato tutti, da Iggy, che ci ha creduto fino in fondo, mettendo a disposizione una dimensione da crooner, fino a noi tre. A volte un pizzico di azzardo, se abbinato a un’onestà intellettuale di fondo, può portare a buoni risultati.

jamie Saft

Sappiamo della tua passione per gli ZZ Top, di cui hai eseguito una cover anche nel concerto a Genova del trio New Standard, nel 2015. Da dove nasce?
Sono stato ad un loro concerto qualche tempo fa e ho avuto modo di parlare con Billy Gibbons sul suo modo di interpretare il blues da uomo bianco. Quello che mi ha colpito è il suo profondo rispetto per la cultura musicale afro-americana, il jazz ed il blues, di cui si sente non un esponente diretto ma un interprete, sia pure nella forma tipicamente heavy che caratterizza la musica degli ZZ Top. Questo modo di porsi rispetto al grande patrimonio culturale che deriva dalla nostra storia mi coinvolge completamente, e costituisce per me una vera stella polare da seguire.

Un accenno alle novità discografiche in arrivo da parte tua.
Ce ne sono parecchie. Innanzitutto il capitolo 3 di The New Standard con Previte e Swallow, in uscita nei primi mesi del 2019. Comprenderà un paio di standard, alcune improvvisazioni, cover di The Moving Sidewalks, Burt Bacharach, Bill Evans e una
composizione di uno dei miei eroi musicali, Roswell Rudd, che da poco ci ha lasciato. Non ho usato il piano acustico ma solo l’organo Hammond, un clavicembalo elettrico Baldwin e un raro organo Whitehall Combo. Quindi una seduta registrata da un quintetto con i grandi Marshall Allen e Danny Ray Thompson dell’Arkestra di Sun Ra più Trevor Dunn e Balázs Pándi, una seduta improvvisata dedicata allo spirito di Sun Ra e alla quale aveva preso parte anche Roswell Rudd. Infine una nuova avventura per il New Zion Trio, che includerà un altro eroe del free e del reggae come Hamid Drake. Dopo il successo al festival di Tampere del 2017, io, Hamid e Brad Jones stiamo lavorando a una registrazione che spingerà la musica reggae-dub del gruppo verso la dimensione del jazz spirituale di artisti come Alice Coltrane, Pharoah Sanders e Walt Dickerson.

Andrea Baroni

(Estratto dall’intervista pubblicata sul numero di luglio 2018 di Musica Jazz)