«AFTER THE STORM». INTERVISTA A VITO LITURRI

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«After The Storm» è il nuovo lavoro discografico da leader del pianista Vito Liturri, con Marco Boccia e Lello Patruno alla batteria, pubblicato con la Dodicilune. Ne parliamo con lui.

Vito, cosa rappresenta per te «After The Storm»?

Questo disco rappresenta la sintesi di un lungo periodo di lavoro, durante il quale ho cercato di forgiare uno stile personale mettendo ordine tra diverse influenze e di creare un’alchimia tra i tre musicisti, che rendesse il trio un’entità unica e riconoscibile. Negli ultimi anni ho anche scritto una grande quantità di composizioni, selezionando per questo disco quelle che più potessero rappresentare il mio momento attuale, dando una continuità e una coerenza al lavoro, pur nella varietà delle atmosfere.

A quale «tempesta» fai riferimento?

Gli ultimi tre anni per me sono stati ricchi di stimoli, di esperienze, di incontri ma anche piuttosto travagliati, dal punto di vista sia personale che artistico. Anche la formazione ha subito diverse vicissitudini e attraversato momenti di difficoltà e di tensione prima di approdare a questa formula del trio. Fare musica per me è, oltre che un potente mezzo di espressione, una maniera per superare i momenti negativi e cercare di trovare un equilibrio personale. Credo fortemente nel valore terapeutico dell’arte.

Un disco in cui non c’è neanche uno standard: non ne sentivi il bisogno o non c’era spazio?

Non sentivo il bisogno di inserire standard nel disco perché la lezione di questo tipo di repertorio è già presente, in maniera sotterranea, in tutto il disco. La mia esigenza è sempre stata quella di filtrare i materiali della tradizione in maniera personale, al fine di tirarne fuori qualcosa di nuovo.

Un lavoro che tiene a mente diverse lezioni: quali sono i tuoi riferimenti musicali?

Anche se cerco di tenere separata la mia attività di jazzista da quella di compositore di musica contemporanea, il mio lavoro non può prescindere da quella che è la mia formazione classica: la ricerca armonica e quella timbrica tengono presente la lezione di compositori del Novecento come Alexander Scriabin, Arnold Schönberg e Olivier Messiaen con i suoi modi a trasposizione limitata. In ambito jazzistico, i miei riferimenti principali sono Paul Bley per il suo legame con le avanguardie del Novecento e in particolare con la seconda scuola di Vienna, Wayne Shorter per la ricerca armonica e Sun Ra per la sua capacità di reinventare la tradizione guardando al futuro.

Da cosa traggono ispirazione le tue composizioni?

Una composizione può nascere dagli stimoli più diversi. A volte, alla base c’è un’idea astratta, ad esempio la ricerca di combinazioni armoniche particolari, come in Deserti di verde. Altre volte, c’è la necessità di rendere omaggio a uno stile o a un musicista che è stato importante per la propria formazione. Nel mio caso, anche il lavoro di questi ultimi anni con il teatro e con la danza mi ha offerto molti stimoli. Ma qualunque sia l’ispirazione di partenza, penso che essa debba essere rielaborata dalla nostra personalità, e che la musica che facciamo finisca sempre per parlare di noi.

Qual è il tuo rapporto con la tradizione jazzistica?

Le mie esigenze espressive mi portano a cercare strutture e soluzioni armoniche il più possibile originali, ma la tradizione jazzistica è sempre presente in quello che faccio. Ad esempio, Deserti di verde è una ballad di dieci battute, come Blue In Green di Bill Evans, The Dream Is Gone è una sorta di trasfigurazione del Rhythm Changes; Agave richiama il jazz modale degli anni Sessanta-Settanta. Questi riferimenti sono però reinventati in maniera personale, pur mantenendo un legame più o meno evidente con il modello di partenza.

Ci parleresti del tuo trio, dei tuoi compagni d’arte?

Marco Boccia e Lello Patruno sono due compagni d’avventura insostituibili, oltre che grandi amici. Capiscono sempre quello che voglio senza bisogno di troppe parole, e danno un grande contributo a livello creativo e di arrangiamenti. Il disco è frutto di un lavoro collettivo, e uno dei suoi tratti distintivi è l’interplay tra i musicisti, sviluppato in anni di lavoro e di affiatamento.

Ogni brano, una storia. Ce ne è uno al quale sei particolarmente legato?

Ogni brano ha una storia e, nello stesso tempo, i dieci brani che compongono il disco sono legati da un filo rosso, descrivono una sorta di percorso interiore. Difficile, quindi, dire a quale brano sono particolarmente legato, anche se, forse, con In penombra, più che con altri brani, sono riuscito a esprimere emozioni e pulsioni profonde in maniera assolutamente personale.

La Puglia è in fervente attività dal punto di vista musicale e jazzistico, in particolare. A tuo avviso, quali sono i fattori di questo crescente successo?

La Puglia è sempre stata molto attiva dal punto di vista musicale. A livello jazzistico, molto ha contato la moltiplicazione delle cattedre nei conservatori e la meritoria attività di scuole di musica private, in cui io stesso ho mosso i primi passi, prima di perfezionarmi presso i seminari di Siena Jazz.

Cos’altro manca per completare il quadro? Funziona tutto veramente bene in Puglia?

Il mio auspicio è che si dia maggiore spazio a chi tenta strade nuove, personali. Spesso, a livello organizzativo, si preferisce battere strade già note; e, a volte, anche la didattica tende ad appiattire. Penso, invece, che anche il pubblico desidererebbe ascoltare cose nuove. Fare jazz significa, per me, trovare la propria voce personale, andando oltre la tecnica e le mode del momento.

Tu svolgi anche attività didattica. Pensi che il jazz sia ben strutturato all’interno dei conservatori?

Insegno composizione in conservatorio da circa vent’anni; la mia attività didattica si svolge, quindi, nell’ambito della musica cosiddetta «colta», anche se cerco di mantenere un approccio il più possibile aperto e anti-accademico. Le mie considerazioni sull’insegnamento del jazz nei conservatori, quindi, sono svolte, in un certo senso, dall’esterno. Ho salutato con favore l’introduzione di una maggiore specializzazione delle materie d’insegnamento, in conseguenza della riforma dei conservatori. Esiste, però, il rovescio della medaglia: c’è il rischio che l’insegnamento del jazz si riduca alla trasmissione delle conoscenze tecniche (accordi, scale, pattern, nozioni di arrangiamento e così via), mentre la cosa più importante dovrebbe essere lo sviluppo di un linguaggio personale. Ovviamente, ci sono anche ottimi insegnanti che tengono presente questo aspetto.

Quali sono i tuoi studi? Il jazz è arrivato subito?

Ho fatto studi classici, ho studiato pianoforte in conservatorio e poi mi sono diplomato in composizione e in direzione d’orchestra. Sono sempre stato molto curioso, da adolescente amavo il rock, in particolare il rock progressivo, e, attraverso gruppi come i King Crimson e i Soft Machine e, in seguito, i gruppi di jazz-rock guidati da Chick Corea e Herbie Hancock, ho cominciato ad appassionarmi al jazz e all’improvvisazione, facendo poi un percorso a ritroso che mi ha portato ad approfondire la tradizione jazzistica. Mi dedico al jazz in maniera professionale da dieci anni circa, dopo una serie di esperienze maturate soprattutto nell’ambito della musica contemporanea. Penso sia naturale che in quello che suono si rifletta questa pluralità di esperienze.

A quali altri progetti stai lavorando?

Da circa tre anni mi occupo anche di teatro, ho fondato insieme a Marco Boccia e allo scrittore e regista Giovanni Gentile la Compagnia Teatro Prisma, che ha sede a Bari. Siamo molto attivi nella produzione di spettacoli originali, la cui caratteristica principale è la ricerca di un’interazione tra il teatro, il jazz e la danza. Inoltre, sto ultimando la scrittura di una serie di nuove composizioni, che potrebbero diventare, magari, il materiale per un futuro disco del trio.

Come prevedi di promuovere il tuo disco? E’ difficile farsi strada in Italia?

È difficile farsi strada in Italia in ambito jazzistico, specialmente se non collabori con grossi nomi o non hai ospiti importanti. Nelle prossime settimane produrremo il videoclip di uno dei brani del disco, con due giovani registi baresi, Simona Debernardis e Marco Ranieri. Sarà, spero, un lavoro originale e personale, in linea con le premesse del disco.

Alceste Ayroldi

Foto di copertina: Millaphotographer