Il Jazz dietro le quinte: Intervista a Daniele Pitteri

Prima puntata di una serie di interviste con alcune figure di grande importanza nella scena jazzistica italiana: personaggi che non salgono sul palco – se non, magari, per presentare qualche concerto – ma la cui presenza è determinante per il buon funzionamento della macchina organizzativa. Il nostro viaggio inizia da Roma.

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Piacere di conoscerla dott. Pitteri. Vorrei orientare i lettori da subito, quindi la mia prima domanda è quali sono i compiti e gli obiettivi della Fondazione Musica per Roma?
I compiti della Fondazione sono semplici: gestire due straordinari plessi, l’Auditorium Parco della Musica che è il più grande luogo di spettacolo d’Europa, e la Casa del Jazz; sviluppare attività e produzioni culturali, in particolare nel settore della musica. Gli obiettivi sono un po’ più complessi, proprio perché i compiti sono apparentemente semplici e molto generici. Ma in due parole possiamo dire che gli obiettivi principali da realizzarsi nei prossimi anni sono, in primo luogo, imporre sulla scena nazionale e internazionale l’Auditorium Parco della Musica per quello che è e che merita di essere, un grande luogo di spettacolo, ma soprattutto un grande luogo di produzione, un centro in cui far convergere le migliori energie internazionali; in secondo luogo, far diventare la Casa del Jazz il principale polo di settore in Italia, affiancando all’attività concertistica anche quella formativa. Infine, pur continuando a proporre musica a pubblici molto differenziati, qualificare la nostra attività culturale, da un lato valorizzando le culture artistiche italiane dal secondo novecento ad oggi, dall’altro ibridando i linguaggi espressivi fra loro e con le opportunità offerte dalle tecnologie.

La sua nomina ad amministratore delegato è arrivata in un momento particolarmente delicato: in piena emergenza COVID-19. Quali sono state le sue prime mosse in tal senso?
La prima mossa è stata pormi una domanda: se tutto ciò non dovesse finire, se tutto ciò dovesse durare molto nel tempo, come si fa a gestire una macchina così grande e complessa, che solo per stare chiuda costa alcuni milioni all’anno? La secondo mossa è stata cercare delle risposte a questa domanda, risposte che si sono orientate sin da subito in due direzioni: continuare a produrre, sperimentando forme nuove di relazione col pubblico; avere uno sguardo di lungo periodo, immaginando che ciò che si sperimenta oggi non può essere solo un palliativo momentaneo, ma può costituire una strada per innovare e rinnovare un settore, quello della musica dal vivo, un po’ troppo statico e già poco in salute prima della pandemia.

Pandemia a parte, quali sono stati i problemi più rilevanti che si è trovato a dover affrontare?
In quest’anno i problemi e le risposte sono state tutte inscritte nell’alveo della pandemia. Tuttavia esiste un elemento di fondo che costituisce il vero obiettivo del nostro lavoro: pur essendo un luogo sicuramente importante, l’Auditorium non è percepito, né a livello locale, né a livello nazionale e internazionale, per quello che è, ossia il più grande centro di spettacolo d’Europa. Non un problema, per come vedo io le cose, ma un’enorme opportunità.

Il mondo dello spettacolo è stato messo in ginocchio dalla pandemia. Qual è l’apporto che la Fondazione Musica per Roma può dare in tal senso?
Io capisco che da che mondo e mondo lo spettacolo richiede due soggetti compartecipi in presenza: gli artisti e il pubblico. Tuttavia, la pandemia ci impone di pensare che questo rapporto debba necessariamente rinnovarsi, sia per rispondere al momento attuale, sia per cogliere e cercare opportunità di relazione diverse, che comunque si innestano nelle dinamiche relazionali contemporanee. Si deve sviluppare un nuovo patto fra artisti e spettatori. Noi stiamo provando a lavorare in tal senso. Durante tutto l’inverno non ci siamo mai fermati, abbiamo continuato a produrre, abbiamo imparato le tecniche di ripresa, di regia e di montaggio, abbiamo sviluppato una nostra piattaforma per la diffusione in streaming, abbiamo sviluppato delle modalità per far sì che anche le conferenze in video fossero stimolanti, spettacolari e mantenessero la possibilità si dialogo diretto fra pubblico e artisti/relatori. I dati ci danno ragione: fra Lezioni di Storia e Lezioni di Letteratura, due cicli distribuiti esclusivamente in streaming, abbiamo venduto ventincinquemila biglietti; colle conferenze gratuite del Festival delle Scienze abbiamo raggiunto un milione di persone e 17 mila studenti si sono iscritti ai laboratori on line, mentre i concerti del Roma Jazz Festival hanno venduto mediamente 250 biglietti.

Cavea, auditorium Foto di Musacchio & Ianniello

Sotto la sua guida ha ripreso vigore anche la produzione discografica del Parco della Musica. Anche se il mercato discografico è sempre asfittico. Crede in una ripresa del mercato, oppure ha preventivato una valida alternativa che possa far tornare gli utenti all’acquisto della musica?
Il consumo di musica è aumentato moltissimo negli ultimi anni. Semplicemente sono diversi i supporti e le modalità attraverso cui ciò avviene. Un’etichetta discografica, per quanto di nicchia come la nostra, deve continuare a produrre, tuttavia non pensando necessariamente ad una distribuzione del supporto fisico. Per ora noi stiamo aumentando il catalogo e ampliando anche l’offerta. Nel frattempo, stiamo studiando e mettendo a punto modalità di distribuzione e vendita del nostro prodotto in maniera differente. I dati ci dicono che la fascia d’età più propensa a comprare musica in formato digitale è quella compresa fra i diciotto e i ventiquattro anni. Sono loro il pubblico del futuro e noi dobbiamo assecondare le loro modalità di fruizione. L’obiettivo non è vendere cd o vinili, l’obiettivo è far sì che un numero sempre più ampio di persone fruisca di prodotti musicali.

Le sue considerevoli esperienze pregresse hanno natura quasi sempre diversa rispetto alla musica, da ultimo la Fondazione Modena Arti Visive. L’avere a che fare quasi esclusivamente con la musica l’ha portata a una diversa visione manageriale?
Anche operando nello stesso settore, le esperienze non sono mai uguali. Ognuna richiede una visione diversa, fortemente collegata ad una serie di elementi che sono specifici dell’istituzione in cui si opera e del territorio in cui essa si colloca. Personalmente, ogni volta che inizio una nuova esperienza tento di affrontarla libero da pregiudizi, in primis il pregiudizio di me stesso. Devo dimenticarmi ciò che ho fatto e ciò che so fare e affrontare l’esperienza come fossi un bambino che deve imparare da zero.

A tal proposito, quali sono le sue preferenze musicali?
Io sono cresciuto in un ambiente familiare pieno di musica, orientato alla musica. Pensi che la prima volta che sono andato all’opera avevo cinque anni, al San Carlo di Napoli, a vedere la Kovancina di Mussorgsky. Crescere in un ambiente così mi ha insegnato ad amare la musica e ad essere aperto a qualunque forma musicale. Non preferisco un genere, ascolto tutto, con grande curiosità anche nei confronti della musica nuova che man mano di afferma, quella, ad esempio, che si rivolge ai giovanissimi. E le assicuro che anche lì trovo sempre qualcosa di interessante e, talvolta, di geniale.

L’azione sinergica con la Casa del Jazz di Roma sembra che stia funzionando. Anche qui la domanda è: quali sono gli obiettivi che vi siete dati?
La Casa del Jazz è, per quanto diversa, importante come l’Auditorium, è una parte integrante e caratterizzante di Musica per Roma. L’ambizione principale è quella di svilupparvi una ricca e continuativa attività formativa di livello internazionale, anche connessa alla programmazione concertistica estiva e invernale, che già oggi è quantitativamente e qualitativamente senza eguali in Italia.

Sarebbe interessante sapere quali sono i criteri che stabiliscono le scelte artistiche del Parco della Musica. Può dirci qualcosa in proposito?
Noi ci chiamiamo Musica per Roma, gestiamo luoghi di proprietà pubblica, abbiamo soci pubblici: il nostro dovere principale è programmare musica per tutti i pubblici. La nostra ricchezza è proprio la loro eterogeneità. Tuttavia, facciamo sempre delle scelte qualitative, perché l’importante è che sia buona musica. Dobbiamo fare un passo avanti editorialmente, ossia rendere più leggibili le linee e i generi che proponiamo al pubblico. Affianco a questo però c’è la scelta produttiva, che per noi principalmente si innesta sulle nostre orchestre, la Parco della Musica Contemporanea Ensemble, l’Orchestra Popolare Italiana di Ambrogio Sparagna, l’orchestra jazz che stiamo facendo rinascere assieme a Paolo Fresu e poi, l’orchestra jazz dei giovani talenti guidata da Paolo Damiani e l’AuditoriumBand, un gruppo di solisti che spazia fra il blues, il rock e il pop, la cui direzione musicale è affidata a Gigi De Rienzo che sta sviluppando un bellissimo progetto – “Tutto su Eva” – incentrato sulle donne compositrici. E poi l’idea degli artisti residenti, musicisti che per qualche anno si legano a noi e sviluppano dei progetti con noi. Il primo è Nicola Piovani. A partire da questo stiamo sviluppando dei programmi pluriennali, delle linee di ricerca e produzione da cuoi far nascere spettacoli da circuitare in Italia e, il prima possibile, all’estero.

Invece, quali sono i rapporti con l’istituzione conservatoriale Santa Cecilia?
Di buon dialogo e di collaborazione. In particolare in alcuni ambiti che frequentiamo entrambi, la musica contemporanea e quella elettronica. E poi siamo legati dal comune scopo di far assumere al Parco della Musica quella dimensione internazionale che gli spetta.

Dott. Pitteri, forse la domanda potrà risultare troppo personale. L’attività di manager culturale che lei ricopre era il suo scopo primario dal punto di vista lavorativo?
Quando io ho iniziato a lavorare, nel 1979, la figura del manager culturale non esisteva. Anzi, affiancare la parola manager (che pure era termine raro in Italia) a cultura era quasi una bestemmia. Quindi: no, non ero il mio obiettivo, non lo immaginavo neanche. Poi, l’evolversi del settore da un lato, e la molteplicità di esperienze che ho avuto in ambiti diversi dall’altro, mi hanno progressivamente guidato e indirizzato verso questa professione.

Quali sono le maggiori difficoltà nell’essere un amministratore di patrimoni immateriali?
In realtà chi fa il mio mestiere amministra cose molto materiali – l’Auditorium, la Casa del Jazz – la cui vita è possibile solo grazie a contenuti immateriali. Quindi in qualche modo noi “giochiamo” con l’immateriale, perché è quello che ci consente di dare un’anima agli spazi materiali. Il nostro lavoro consiste nel trasformare il patrimonio materiale che gestiamo in qualcosa di vivo, da semplice da spazio fisico a luogo di vita, due concetti diversi e quasi opposti, perché i luoghi sono innanzitutto ciò che non si tocca, ma si percepisce e si “respira”. I luoghi si introiettano dentro di noi e alimentano la nostra immaginazione, la nostra capacità di sentire e di sognare.

Quali sono le linee programmatiche della prossima stagione 2021/2022?
Rilanciare appunto le nostre formazioni musicali; continuare a sperimentare proposte culturali e di spettacolo fruibili sia in presenza che a distanza; ricominciare con la danza, che negli ultimi tempi abbiamo un po’ abbandonato e riprendere con il festival Equilibrio, con la consulenza artistica di Emanuele Masi; intensificare relazioni e scambi con istituzioni internazionali simili alla nostra.

Un’ultima domanda più personale. Qual è l’ultimo libro che ha letto e qual è l’ultimo concerto che ha visto?
L’ultimo libro è Indipendenza di Javier Cercas. L’ultimo concerto lo ascolterò stasera, John Patitucci Trio alla Casa del Jazz.
Alceste Ayroldi

Intervista pubblicata sul numero di ottobre 2021