Umbria Jazz Summer 2024
Perugia, dal 12 al 21 luglio
Premessa: chi scrive ha seguito il festival dal 12 al 18 luglio e di tanto cercherò di rendere notizia.
Prima Parte
Senza che i puristi possano storcere troppo il naso di fronte ai nomi rock-pop presenti in cartellone, l’edizione numero cinquantuno di Umbria Jazz è contrassegnata dalla qualità della musica che ha scorso tra le strade e i luoghi deputati ai concerti.
Iniziamo proprio da quest’ultimi, dal pop-rock tanto criticato, a priori, senza motivo e senza alcun approfondimento. Il primo nella lista (si è esibito il 13 luglio) è Lenny Kravitz, che ha messo in scena un concerto memorabile, costruito da professionisti della musica. Batteria e chitarre da applausi a scena aperta. E lui inossidabile protagonista del palco che ha recitato anche il mantra di A Love Supreme per omaggiare John Coltrane, ma anche il festival che lo ospitava. Il sound tra il rock e la fusion ha costituito un forte legame tra palco e pubblico; un pubblico che ha seguito anche altre performance, quelle che – nell’accezione più casalinga – sono definite jazzistiche. Kravitz ha declinato tutti i suoi più grandi successi. E il suo live è, comunque, da incorniciare.
L’altra personalità musicale discussa (il suo concerto si è tenuto il 14) è Raye, pseudonimo di Rachel Agatha Keen, classe 1997, di padre inglese e madre svizzera-ghanese. Sicuramente conosciuta dai più giovani, è un’artista completa: è vocalmente preparata, dalla voce soul-latina. Le piattaforme streaming urlano a gran voce il suo nome con numeri da record. Dal vivo è un’eccellente performer, ma chiacchiera un po’ troppo.
Chiude la terna oggetto dell’attenzione dei perbenisti, una band storica: i Toto, la cui performance si è consumata il 17.
In realtà, della band dei tempi andati, quella che scassinava le casseforti degli ascolti e delle vendite negli anni Ottanta, c’è il solo Steve Lukather al comando di un drappello di session man di assoluto valore (manca Marcus Miller, come inizialmente previsto) e con al fianco una voce “quasi” storica: quella di Joseph Williams. La band non si risparmia. Declina il vocabolario completo: dalle armonie più conosciute (Hold The Line; Georgy Porgy; Rosanna, Africa). Ma se è vero che la band solletica i ricordi dei fasti degli anni Ottanta, è altresì vero che il linguaggio che tira fuori è quello di una fusion di altissimo livello, con gli assoli di Lukather di altissimo profilo, inebrianti.
A far pariglia con i sopradetti, c’è anche Nile Rodgers & Chic (20 luglio) che, a quanto riferito, hanno fatto sold out (anche loro) e scatenato gli animi anche dei benpensanti.
Archiviate le superstar, ritorniamo alla visione cronologica. Il 12 luglio è il tempo di Richard Galliano con Adrien Moignard e Diego Imbert, trio che apre i concerti all’arena Santa Giuliana. Galliano non è secondo a nessuno, tantomeno a chi lo seguirà (Vinicio Capossela che, però, ha il suo pubblico già schierato e «chiacchieronamente» menefreghista di quanto l’eccellente terna stia realizzando sul palco). Il trio è in perfetta simbiosi, l’amalgama si tocca con mano. Sciorina un repertorio inossidabile, fatto di musette e valse e di richiami al Grande Maestro Astor Piazzolla (Vuelvo al sur), Oblivion (che Galliano offre a Mario Guidi). Nel mezzo troviamo la vellutata Giselle, dedicata alla moglie del fisarmonicista nizzardo e una versione di Gnossienne di particolare rilievo. Una nota merita Adrien Moignard, chitarrista sopraffino che mette insieme le regole di Django e quelle del chitarrismo flamenco.
Il teatro Morlacchi apre le sue settecentesche porte il 13 luglio per ospitare il trio di Kenny Barron, che avrebbe dovuto annoverare alla batteria Jonathan Blake, mentre si accomoda allo sgabello di tamburi e piatti siede Greg Hutchinson, che fa coppia con l’inattaccabile Kiyoshi Kitagawa al contrabbasso. Il pianista di Filadelfia non si risparmia e mette sul piatto tutta la bellezza del suo fraseggio, sempre in gran spolvero: dal linguaggio bebop a quello più moderno, con una particolare cura per le sonorità e il consueto sviluppo armonico raffinato, arricchito da inaspettate formule ritmiche e ricoperto da una grande dose di swing.
Kitagawa si ritaglia un cammeo nell’assolo di Monk’s Dream, mettendo in mostra tutta la sua sapienza maturata in tanti anni al fianco di Barron e non solo. La scelta dei brani da parte del leader è particolarmente significativa: si passa dal linguaggio di Caetano Veloso con Aquele frevo axé, alla bellissima Nightfall di Charlie Haden per chiudere con un calypso entusiasmante e trascinante. Probabilmente l’innesto all’ultimo minuto di Hutchinson non ha giocato in favore di un’interplay che avrebbe meritato un miglior senso ritmico e un minor fragore nell’utilizzo dei piatti.
Qualche ora prima la Galleria Nazionale dell’Umbria ha ospitato il duo Miguel Zenón e Luis Perdomo con il bel progetto El arte del Bolero. Un duo che si trova a meraviglia e che sa coniugare il mainstream jazz, le sonorità latine e qualche spruzzata di jazz oltre confine.
I Giardini Carducci, quotidianamente, hanno offerto concerti a ingresso libero di particolare qualità. Da Accordi Disaccordi ai Lovesick, che hanno contribuito ad allargare il lessico – già ampio – di Umbria Jazz e divertire il pubblico, a Mitch Woods & His Rocket, passando per le raffinate soluzioni swing di Ray Gelato. Tra questi spicca l’ensemble Sammy Miller and The Congregation, che hanno messo su uno spettacolo fresco, nuovo e coinvolgente, con un’interpretazione attoriale che s’accoppiava alla perfezione con un jazz neworleanseano di pregio e qualità: insomma, ci auguriamo di poterli rivedere in Italia, e non solo dalle parti di Perugia e dintorni.
Altra menzione la merita la vocalist di Detroit Thornetta Davis, che ha letteralmente incendiato l’audience di piazza IV Novembre con il suo blues ruspante, di quelli che non s’ascoltavano da tempo.
E, per chiudere il capitolo dei concerti gratuiti, c’è Lorenzo Hengeller, che ha allietato, in diversi luoghi, con il suo jazz cantautoriale d’antan, che mescola – con particolare arguzia e bravura – il linguaggio jazzistico pianistico e quello dei cantautori di un tempo, quando il jazz si respirava anche nelle canzoni italiane.
Le attività, per così dire, collaterali, sono completate con presentazioni di libri, le attività laboratoriali di avvicinamento alla musica per bambini, le esibizioni al conservatorio di Musica con i concerti degli studenti e il Blindfold Test in collaborazione con Downbeat, gestito sempre magistralmente da Ashley Kahn, che questa volta ha coinvolto Fabrizio Bosso (18 luglio).
Ritorniamo all’andamento cronologico e apriamo la pagina del 14 luglio, dove troviamo Raye, di cui si è già detto, preceduta dai singolari e dirompenti Cha Wa e, nel pomeriggio al teatro Morlacchi, ha dato prova delle sue abilità il chitarrista Kurt Rosenwinkel, accompagnato da un trio di eccellenze: Mark Turner, Ben Street e Jeff Ballard.
Alle 12 la Galleria Nazionale dell’Umbria ospita il fisarmonicista francese Vincent Peirani. Non c’è che dire: un concerto solitario di quelli che fanno emozionare, che ti portano in un’altra dimensione. Non c’è il sold out (forse il solo di fisarmonica fa vacillare il pubblico?), ma chi non ci è stato non sa cosa si è perso, perché la bellezza e la meraviglia hanno albergato nella Galleria Nazionale dalle 12 alle 13 e dispari. Peirani suona, si esalta ed emoziona. Dopo Choral arriva Nouchka, dove si respira l’aria di Parigi. Se non fosse che l’assetto scenico parli chiaro, sembrerebbe che vi sia un’orchestra sinfonica al seguito del fisarmonicista, che mette in campo una meravigliosa interpretazione di The Sound of Silence, che si adagia sulle note di Smile, prima di intonare Il camino firmato da Aldo Romano. Vitti ‘na crozza chiude la prova d’autore di Peirani, tra un fiume in piena di applausi e di gente entusiasta (alcuni di questi, inizialmente, scettici) e che apre al concerto del pomeriggio in duo con Emile Parisien che, fortunatamente, s’annuncia sold out (probabilmente si è sparsa la voce della meraviglia consumatasi nella mattina). E sin da Temptation di Xavier Cugat si capisce bene quale sarà l’andamento: due eccellenti solisti che si confrontano, che si scrutano, ma che si conoscono da oltre un decennio.
Quindi, l’interplay che si assapora nella suite dedicata a Piazzolla è la costante di un concerto dove il sopranista e il fisarmonicista non si risparmiano: Parisien scandisce ogni nota anche con il suo corpo; crea un universo di simboli e suoni, di imprevedibilità e con influenze a cavallo tra il parossismo coltroniano e la nitidezza shorteriana. Peirani accompagna, apre e chiude le armonizzazioni, detta il ritmo e sciorina una poetica che non s’ascolta con facilità, di questi tempi.
Alceste Ayroldi
Tutte le foto sono di Elena Carminati
*La seconda parte sarà pubblicata lunedì 5 agosto