The Residents: compra o muori!

di Riccardo Bertoncelli

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Non c’è più sordo di chi non vuol vedere, diceva un vecchio proverbio Fluxus.

Chissà se Richard Nixon avrà mai aperto il curioso pacchettino che gli fu recapitato un giorno del 1972: le biografie tacciono. Sembravano gli auguri di Natale di qualche agenzia d’assicurazione, in realtà erano due 45 giri incollati insieme con una copertina che raffigurava un cane travestito da Santa Claus e la malferma scritta a mano «The Residents». Duecento copie a tiratura limitatissima inviate a personalità della politica e della cultura. Anche Frank Zappa ne ricevette una, ma pare che l’indirizzo fosse sbagliato e la missiva tornò al mittente. Peggio per lui, anzi, per i suoi eredi: oggi varrebbe una fortuna.

Nacque quel giorno il mito dei Residents, o forse no. Forse era già nato quando quei ragazzi venuti da chissà dove (mistero e incertezza sono le chiavi di questa storia) avevano inviato un demo a un funzionario della Warner Bros. sperando in un positivo riscontro. Questo signore poi sparito nell’oblio, Hal Haverstadt, lavorava all’epoca con Captain Beefheart e i nostri musicisti si erano affidati a un lampante sillogismo: se noi amiamo la musica strana di Beefheart e così anche Haverstadt, allora Haverstadt amerà la nostra musica strana. Non andò proprio a quel modo. Il pacchetto tornò al gruppo, e siccome chi aveva spedito aveva indicato il solo indirizzo, il discografico aggiunse un generico «to the residents». Ottimisti a tutti i costi, i ragazzi vollero cogliervi un segno degli dei; non avevano trovato un ingaggio ma il nome sì, e da quel momento furono The Residents.

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Questa e altre fantastiche storie popolano un curioso libro appena edito in Italia ma in larga parte scritto in lingua inglese, The Residents – Ralph Records. Artworks 1972-2016. L’ha curato Matteo Torcinovich e lo pubblica Goodfellas, ed è un catalogone di 400 pagine che sprizza colori nello spazio; un libro straordinario e limitato, per come non cerca di svelare i misteri ed evita di interpretare la band e le sue numerose filosofie/fisime ma semplicemente accosta «una collezione di immagini originali rare e introvabili tratte da copertina di dischi, cataloghi per fan, poster e vario materiale promo», comprese lunghe e contorte note stampa. Lì i Residents giocano il loro gioco preferito: scrivere scrivere scrivere per non dire, eludendo & depistando con «verbosa verbosità», rovesciare addosso a chi legge/ascolta storie fantastiche e irreali, leggende metropolitane, alias e avatar: a cominciare dal mitico N. Senada, sommo teorico della confraternita, della cui esistenza è più che lecito dubitare ma a cui sono accreditati i manifesti dell’attività Residents, «La teoria dell’oscurità» e «La teoria dell’organizzazione fonetica».

The Residents
The Residents

Dicevo prima che questo Artworks è un libro limitato, ma a pensarci il suo è forse l’unico modo di affrontare i Residents: figli di Zappa e del suo «project/object», dove ogni singola parola di intervista, foto, copertina di album, testo, musica è parte di un continuum, nipotini di Alfred Jarry e della sua patafisica, che quello sfrenato bevitore di assenzio definiva «scienza dei mondi supplementari» – quando i Residents giurano che il loro scopo non è tanto allietare le orecchie di chi ascolta ma suscitare «mondi alternativi», eccoli dalle parti di Ubu. I «mondi alternativi» dei Residents sono le loro bislacche iconografie volentieri a collage, meglio ancora a fumetti, le provocazioni surreali e horror, le fantasmatiche esplorazioni del mondo video esplorato centimetro per centimetro, compresi i vicoli ciechi (i CD-ROM di inizio millennio). Il libro ne trabocca e seguirle è in effetti una credibile storia del gruppo, scegliete voi se la copertina di «Third Reich & Roll» (meglio quella pluri-censurata) o le sagome da Klu Klux Klan (in realtà prese da un libro religioso fiorentino del 1875!), se le invenzioni per il Fan Club (non a caso W.E.I.R.D.) o i mostricini disegnati da Gary Panter, geniale figlioccio di Cal Schenkel e Matt Groening: o l’immagine di gran lunga più famosa, quella di «Eskimo», con i Residents con cilindro, bastone e una maschera a forma di bulbo oculare. Ma buttando lì degli esempi ho fatto dei torti; perché sarebbe delittuoso dimenticare le copertine del primo lp, «Meet The Residents», dove «i nuovi Beatles», come i Residents amavano chiamarsi tra sfida e sarcasmo, parodiavano classiche immagini dei Fab Four presentandosi come sirenetti beat, con i nomi di Paul McCrawfish, John McCrawfish, George McCrawfish e Ringo McCrawfish.

Il libro parla dei Residents ma anche dei loro addentellati, anzi, pone l’accento proprio su uno di questi «bracci creativi»: la Ralph Records, che dalla sua base nel quartiere di Mission, San Francisco, per anni ha pubblicato anche opere di altri artisti, da Snakefinger agli Art Bears, dagli Yello ai Tuxedomoon. È giusto considerare la Ralph non una semplice etichetta ma un laboratorio creativo, un crocevia di artisti di varia estrazione che è impossibile, inutile e tutto sommato ingiusto isolare e distinguere. Si torna all’idea che i Residents siano un universo parallelo, un mondo alternativo, un paesaggio immaginario, e tanto basti. Nelle sue brevi considerazioni il curatore parla della Ralph come di «un sistema sociale costituito da piccoli gruppi sostanzialmente indipendenti, una sorta di società tribale. Una struttura sociale relativamente semplice, acefala, con gli artisti in ruoli interscambiabili… Mantenendo l’anonimato di ogni singolo collaboratore, viene a crearsi una sorta di tribù particolarmente egalitaria. Si percepisce una vaga nozione della proprietà artistica e intellettuale, raramente viene attribuita la paternità artistica a un singolo individuo.» Per dirla con Hardy Fox, «The Residents è giusto un marchio, un parola che si può applicare a quello che la gente fa. Non riguarda la loro filosofia e nemmeno chi sono veramente. I Residents sono quello che fanno».

«The Residents - Ralph Records. Artworks 1972-2016» di Matteo Torcinovich (Goodfellas)
«The Residents – Ralph Records. Artworks 1972-2016» di Matteo Torcinovich (Goodfellas)

Se non ho fin qui messo l’accento sulla musica è perché i protagonisti stessi la considerano tutto sommato un accidente, un’eventualità. In quaranta e più anni di provocatoria attività hanno suonato di tutto, inventando e deformando, irridendo e corrodendo, masticando rumori, digerendo nostalgie. Nelle loro velenose pozioni hanno distillato Beatles, Stones, Elvis, perfino la Bibbia, evocato il sacro spirito di Harry Partch, unito in nozze contro natura George Gershwin con James Brown e Hank Williams con John Philip Sousa (un altro matrimonio del genere, Sun Ra con Ray Charles, è sfumato sull’altare). Ma la musica è sempre stata eventuale e già agli inizi i ragazzi giuravano che «le macchine di registrazione erano più importanti degli strumenti», e figuratevi il resto. Sfacciati e perfidi fino alla villaneria. «I Residents» è scritto nel Complete Residents Handbook del 1978 «ritengono che i manuali di tecnica musicale facciano ridere. Ogni tanto li leggono quando vanno al gabinetto.»

Ho lasciato in fondo la questione più importante, che peraltro gli appassionati già conoscono e il lettore più attento a questo punto avrà capito; coerentemente con quel che si è detto, nessuno sa chi siano veramente i Residents, quanti e chi abbiano suonato dietro quel nome o se, come nel caso di Wu Ming, la sigla sia giusto un marchio appaltato di volta in volta in franchising. Da anni circolano dei nomi, che portano ad artisti in effetti non californiani ma del Sud degli Stati Uniti. Posso dare un contributo a questo discorso, anzi potrei, perché tiro il sasso e nascondo la mano. Nel profondo della pancia del mio computer conservo prove certe sull’identità di due leader, acquisite anni addietro così come il mio amico Roberto Masotti a suo tempo scoprì la vera età e identità di Sun Ra. Ma neanche sotto tortura svelerò nomi e indirizzi. Posso solo confermare che gli allegri ventenni che mandarono quei pacchettini ai due Presidenti (Nixon e Zappa) hanno superato in gloria i settanta e non hanno alcuna intenzione di smettere. «Artworks» è sbilanciato verso i primi anni ma arriva fino ai giorni nostri e lascia spalancata la finestra sul futuro. E quei titoli di scatola in fondo alle pagine sappiamo bene che non sono un modo di dire: To Be Continued!

Riccardo Bertoncelli

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