Quarant’anni dopo torna un mitico film poco visto, con musiche tra le più belle di tutto il catalogo dell’Arkestra.
Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta Sun Ra tentò una personale conquista del West, predicando alle nuove generazioni non solo nere di California con una serie di concerti e iniziative. Suonò al Fillmore e all’Ho Chi Minh Park di San Francisco, scese fino a Los Angeles (dove, a leggere il biografo John Szwed, metà del pubblico se la filò a concerto appena iniziato) e nel 1971 ottenne sorprendentemente una cattedra alla facoltà di studi afroamericani dell’università di Berkeley, dove propose un efficace mix di considerazioni filosofiche, poesie, letture, esempi musicali. La sua base in quella occasione fu Oakland, in una casa che le Black Panthers di Bobby Seale avevano messo a disposizione sua e dell’Arkestra.
La conquista fallì, come non era difficile prevedere. Alle lezioni si presentarono in pochi, le Black Panthers scoprirono presto che i loro ideali non si adattavano a quelli del Ra e l’università ritenne di non pagare l’insegnante, sostenendo che non era stato presente per tutto il tempo pattuito ma si era allontanato per un viaggio in Egitto – un equivoco mai chiarito. Nonostante le disavventure, quei viaggi in California fruttarono bene perché Sun Ra fu avvicinato da un produttore, Jim Newman, che aveva in mente di girare con l’Arkestra un documentario tv per la rete Pbs ambientato nel planetario di San Francisco. Quel progetto si perse per strada ma il contatto portò a un lungometraggio vero e proprio, ispirato fra le altre cose a un brano (una «filastrocca spaziale», se vogliamo chiamarla così) che il Ra aveva appena composto, Space Is The Place. Newman affidò la regia a John Coney e per il testo affiancò a Sun Ra il giovane Joshua Smith, uno sceneggiatore appassionato di storie di gangster neri in un periodo in cui l’argomento furoreggiava al cinema (Shaft è del 1971, Superfly dell’anno dopo). Nel paradossale mondo del Ra si era già visto di tutto, ma un simile mix trascendeva ogni immaginazione: un incrocio di musica cosmica, avventure nello spazio, esoterismo e ghetto gangstas, «in parte documentario, in parte fantascienza, in parte blaxpoitation ed epopea biblica revisionista».
La trama del film è esile e balla pericolosamente sul filo tra proselitismo, assurdità e ingenuità. «Dopo avere vagato nello spazio per anni a bordo di un razzo alimentato a musica, Sun Ra individua un pianeta che ritiene adatto alla rinascita della razza nera» e si ritrova a Oakland, con tutti i problemi di quel grande suburbio negli anni di Nixon, dell’eroina dilagante e della protesta politica. Ai giovani che sprecano il loro tempo tra droga, alcol e malaffare, il Ra offre di seguirlo nello spazio, e per quello apre un fantastico «Outer Space Employment Center». Ma gli umani non capiscono, sono pigri o hanno paura, quando non avversano direttamente il maestro cercando di eliminarlo. Ci provano gli agenti della Cia naturalmente, i cattivi per antonomasia, ma ci prova anche e soprattutto l’Overseer, «il Sorvegliante», «un pappone soprannaturale che sfrutta la schiavizzazione del popolo nero» e si propone come alter ego del dio Sole, sorta di angelo del Male che al suo avversario contende a carte il dominio del mondo. Intorno, sopra, sotto l’evanescente sceneggiatura c’è la musica, che invece è solida e potente, con riprese dell’Arkestra in scena nello splendore di maschere e paramenti rituali. È proprio la musica a conferire al Ra i suoi poteri soprannaturali, che gli consentono di dileguarsi e di far sparire cose e persone, e di evitare la morte; anche se morte e vita sono concetti ambigui nel mondo di Space Is The Place, in cui le più radicate convinzioni degli umani vanno ribaltate. «Io vengo da un sogno che un uomo nero ha fatto tanto tempo fa», spiega il Ra a un certo punto, ribadendo il concetto a lui caro di questa vita come illusione da cui occorre risvegliarsi. E ancora, con un irresistibile paradosso: «Hai un’aria proprio bella stasera. Da quanto tempo sei morto?».
Space Is The Place uscì nelle sale nel 1973 ma terminò presto la sua corsa e dopo un paio di proiezioni a San Francisco e New York finì nell’angolino del cinejazz, sullo scaffale ben noto dei film che nessuno ha visto ma di cui tutti parlano. In quegli stessi mesi la Blue Thumb pubblicò un lp con identico titolo e maestose immagini tratte dalla pellicola, e furono in molti a pensare che si trattava della colonna sonora della (non vista) (non ascoltata) pellicola. In realtà i cinque brani del long playing non c’entravano nulla con il film e la Arkestra che li aveva registrati, nell’ottobre 1972, non era nemmeno la stessa. Un album equivoco dunque, ma tutt’altro che trascurabile; lì è possibile ascoltare la versione originale di Space Is The Place, lunga più di ventuno minuti, un fuoco d’artificio jazz vocal noise che ancora lascia a bocca aperta, uno dei punti più alti del «canzoniere» di Sun Ra. Per la vera colonna sonora si sarebbe dovuto attendere il 1993 e un cd della Evidence che oggi si fatica a trovare; ma poco male, perché la Harte ha appena pubblicato negli Stati Uniti una edizione speciale per i quarant’anni di Space Is The Place in lussuosa confezione e tiratura limitata di tremila copie. È un libro splendidamente illustrato con foto di scena che contiene un cd con tutta la musica registrata per l’occasione (più due bonus) e un dvd in tre sezioni: con la versione originaria del film di ottantuno minuti che il Ra consigliò di scorciare (levando soprattutto un paio di scene di sesso), con la seconda «ufficiale» di sessantaquattro e inoltre alcuni filmini amatoriali.
Sarebbe ingiusto liquidare Space Is The Place con note solo «di colore»: ci sono scene suggestive e più di uno spunto interessante. La sfida a carte nel deserto tra il Ra e il Sorvegliante, per esempio, riporta alla mente la partita a scacchi tra Antonius e la Morte nel Settimo sigillo (e John Coney ricorda nelle note quanto fosse influente Bergman in quel periodo tra i cinefili statunitensi). La scena iniziale, poi, è un fantastico flashback nella vita di Sun Ra, quando negli anni della guerra il Nostro suonava il pianoforte nei club di Chicago e subiva ogni sorta di umiliazioni e minacce. Nella trasfigurazione di Space Is The Place, un gangsta umilia il giovane Sonny che accompagna lo strip tease delle ballerine sul palco suscitando la reazione del pianista, che con la sola forza dei tasti e un dissonante devastante boogie woogie distrugge letteralmente il locale. Dal piano solo il film passa all’Arkestra e la potenza della musica non cambia, un’eruzione di gioia e colori, un fiato caldo che scuote e travolge. I sedici brani sono tra i momenti più alti di tutta la discografia Solare, con la tempesta delle tastiere del leader e il rombo squassante della sezione fiati e ottoni, clamorosamente senza Pat Patrick ma con Gilmore, Allen, Kwame Hadi e compagnia che esplodono i pensieri del maestro fornendo energia infinita per la sua navicella spaziale («Music as fuel», per citare una volta ancora Szwed). C’è il gusto per la sperimentazione evidente in tutte le pagine degli anni Sessanta e Settanta ma c’è anche la voglia di spiegarsi con una lingua più dolce, divulgativa, popular, prediche e sogni in forma di paradossale canzonetta. Space Is The Place, Satellites Are Spinning, Cosmic Forces, We Travel The Spaceways… L’album è un monumento a June Tyson, mai tanto presente in un disco, e alla sua voce di muezzin che sul pinnacolo dell’Arkestra chiama a raccolta tutti gli uomini di buona volontà per un altro fato e un altro senso della vita, nel segno della musica e della consapevolezza. Cantando soavemente o predicando con impeto, è lei il tramite tra Sun Ra e i musicisti, che spesso non hanno bisogno di strumenti convenzionali e accompagnano il flusso sonoro con qualunque oggetto capiti. «Come tutti i marines sono fucilieri», spiegava una noticina in fondo allo Space Is The Place della Blue Thumb, «così tutti i membri della Arkestra sono percussionisti».
Riccardo Bertoncelli
(leggi anche: «Sun Ra: cento di queste orbite»)