«In The Park». Intervista a Marco Boccia

«In The Park» è il primo album da leader del contrabbassista pugliese. Ne parliamo con lui.

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Quali consideri i passaggi fondamentali della tua vita artistica?
I passaggi fondamentali sono stati quelli della mia formazione, in conservatorio e al Cpm di Siena. Ho avuto l’opportunità di approfondire i linguaggi musicali con grandi maestri dai quali ho ricevuto gli strumenti per decodificare e approfondire i concetti chiave e l’espressività multiforme della musica. Il mio rapporto con il suono è cresciuto gradualmente grazie all’esperienza orchestrale e cameristica fino alla dimensione del combo jazz. In questi anni ho maturato, inoltre, una certa propensione per l’«artigianalità» nella creazione di un fraseggio e nella gestione dell’armonia.

Dopo la musica classica, perché hai scelto il jazz?
Sostanzialmente per onestà nei confronti di questi due grandi linguaggi. Suonare in una compagine di ottanta elementi ed eseguire una sinfonia mi ha dato sensazioni incredibili ma ad un certo punto mi sono accorto che non potevo servire due padroni e ho scelto, quasi naturalmente, il jazz che mi dava quella completezza espressiva e creativa che ho sempre cercato e soprattutto quella forma di comunicazione diretta che mi consente di manipolare il suono e offrirlo a chi ha voglia di ascoltare un nostro concerto.

Parliamo di «In The Park». E’ il tuo primo disco da leader: troppo tardi o troppo presto?
Direi al momento giusto.  Non nascondo che, in passato, ho deciso di non pubblicare altri lavori, che giacciono nel cassetto, perché non li sento ancora pronti per essere proposti ad un pubblico che oggi più che mai merita rispetto. Questo lavoro, al contrario, fin da subito mi è parso solido nei contenuti e scrivendolo mi sono accorto che stavo percorrendo una strada finalmente adeguata al mio concetto di estetica musicale. Questo concetto, non solo è stato accolto dai miei colleghi ma anche condiviso e approfondito. «In The Park» ha, a mio avviso, una sua dignità espressiva, confermata dalla fiducia di un’etichetta come l’AlfaMusic di Fabrizio Salvatore.

Le composizioni escono tutte dalla tua penna e non hai inserito nessuno standard. Una scelta consapevole o casuale?
In realtà non ho mai considerato l’ipotesi di inserire uno standard in questo lavoro. Nel nostro concerto ci sono arrangiamenti di brani che amo suonare, non solo jazz ma proponiamo autori come Nick Drake oppure una rilettura di un pezzo dei Radiohead che abbiamo stravolto sia nelle armonie che nei tempi ma il progetto «In The Park» ha una sua identità. Sarebbe stato inopportuno aggiungere brani verso i quali non avrei avuto quella giusta spinta creativa. Diciamo anche che ho molto rispetto dei grandi autori del Jazz e questo mi suggerisce una certa cautela.

 Nel tuo processo creativo, quanto è importante il tuo strumento?
In generale il mio strumento è fondamentale. Ho un buon rapporto con il mio contrabbasso, tuttavia in questo progetto i brani sono usciti tutti dal pianoforte – regalatomi peraltro da Kekko Fornarelli, pianista jazz e carissimo amico –  sul quale ho sperimentato armonie e melodie nel tentativo di conferire un corpo sonoro non esclusivamente legato al mio strumento ma più vicino al respiro del piano trio Successivamente ho interpretato le idee sul contrabbasso confinandolo al suo ruolo originale di sostegno e spinta ritmica.

Le tue composizioni risentono degli influssi classici e presti molta attenzione alla melodia. In alcuni brani vi è una profonda cantabilità. Quali fasi caratterizzano il tuo processo compositivo?
Inevitabilmente quando si scrive qualcosa escono le proprie origini, e forse è anche giusto così. Ho sempre avuto un’attitudine melodica più che armonica e questo lo si evince ascoltando i brani di «In The Park». Difficilmente porto a termine un brano che non mi fa emozionare autenticamente. Identificando in questa mia idea una certa tradizione italiana. Dunque, il processo creativo è molto semplice: parto da un’idea melodica che si sviluppa in modo naturale, come un flusso che cerco di non interrompere. Così è stato per Breathless, ad esempio. Sono partito da un’immagine astratta: quella del respiro. I temi hanno risentito di una certa idea espressiva quasi a voler descrivere quelle variabili che caratterizzano un gesto fisico apparentemente naturale ma suscettibile a continue mutazioni. Da questo presupposto è nato l’interludio presente nel brano, apparentemente lontano dai contenuti ritmici e solistici espressi nella prima parte come a rappresentare un evento a se stante come fosse uno shock vissuto all’interno di una giornata qualsiasi. In ultimo, quando ritengo chiuso il brano, apporto quelle modifiche di natura artigianale che non cambiano l’idea di partenza ma lo rendono concreto e coerente.

Quali sono i tuoi riferimenti nella composizione? C’è qualcuno, in particolare, a cui ti ispiri?
Senza ombra di dubbio i grandi compositori e i pianisti Jazz, che amo in modo particolare: da Bill Evans a Robert Glasper. In generale, però, sono un tipo curioso sempre alla ricerca di nuovi stimoli che possano provenire indifferentemente dalla letteratura, da una mostra d’arte o da un film. Insomma mi piace credere che l’arte si alimenti d’arte e ciò che si esprime è sempre frutto di un certo bagaglio esperienziale che attinge  alla vita stessa.

 Perché hai optato per il classico trio piano-jazz? E, a tal proposito, vorresti parlarci dei tuoi sodali?
Il trio è una dimensione espressiva che trovo molto stimolante: partendo dal concetto di pochi elementi che affrontano la densità di un tessuto sonoro al pari di una più grande compagine. A tal proposito i miei compagni di viaggio Marino Cordasco al piano e Gianlivio Liberti alla batteria si sono dimostrati grandi interpreti di questa formazione.  Marino e Gianlivio sono due virtuosi del loro strumento e hanno scavato in profondità nella musica che gli ho proposto dando un contributo essenziale alla riuscita di questo lavoro.

Se volessi aggiungere uno strumento, quale sarebbe?
Sono tanti gli strumenti che vorrei approfondire per caratteristiche sonore e timbriche, così su due piedi, mi piacerebbe lavorare, ad esempio con un flauto che ritengo essere uno strumento molto agile e allo stesso tempo in grado di dare una dimensione cameristica, enfatizzando l’elemento di sonorità acustica che da qualche anno cerco di approfondire.  Penso in particolare ad un disco di Kevin Eubanks, «Turning Point», con uno strepitoso Kent Jordan al flauto, o ancora a certi dischi di Yusef Lateef che mi hanno letteralmente catturato mostrandomi le innumerevoli doti espressive di questo strumento.

Ti senti più vicino al jazz europeo o statunitense?
Sinceramente non mi sono mai posto il problema. Amo entrambe le scuole nonostante siano profondamente diverse. Cerco, come tutti del resto, una mia identità musicale che ovviamente non può prescindere dalle mie basi culturali che sono senza dubbio europee. Piuttosto mi piace pensare ad un jazz metropolitano dove le culture si incontrano e cercano di fondere i propri linguaggi  nella semantica del Jazz. Penso ad elementi del blues, del tango, del funk e del r&b, elementi che tento di trasportare nella mia musica, non sempre riuscendoci pienamente, ma è sicuramente una via che mi piace percorrere in questo momento.

Si diceva prima che è il tuo primo disco. Ma vale la pena pubblicare dischi oggi?
L’argomento è spinoso. Personalmente, pur affascinato ed incuriosito dai mezzi che la tecnologia più recente offre alla produzione discografica, mi ritengo per certi versi un tradizionalista incallito. Nella composizione della mia musica, per esempio, la scrittura sulla carta pentagrammata è parte integrante del lavoro creativo. Così il supporto fisico, sul quale sono incise le tracce di un album, contribuisce a fissare in chi ascolta non solo le note ma tutto il corredo paratestuale dell’opera. Questo sarebbe già sufficiente a farmi dire che vale ancora la pena di pubblicare. Non nascondo quindi lo sconforto che avverto guardando al mondo dell’editoria piegata alle logiche del mercato.  Ma questa è un’altra storia, ben più complessa e verso la quale sento di non aver competenze tecniche specifiche che mi possano far approfondire tale questione in modo esaustivo.

Suonare jazz in Italia è un vantaggio oppure è una penalizzazione?
L’Italia è da sempre una fantastica officina musicale. Molti sono i musicisti che hanno un’ottima fama anche a livello internazionale e non mi riferisco ai decani come Rava o Pieranunzi ma penso ai tanti giovani che stanno riscuotendo un meritatissimo successo.  Le note dolenti, però, sembrano a volte superare gli aspetti positivi. Viviamo un momento storico in cui la politica pare  ossessionata da concetti come produzione e produttività e ben poco incline alla cultura intesa come educazione intellettuale. Alla musica, quella non «istituzionalizzata», è riservato uno spazio ancora minore. Occorrono non solo incentivi economici ma soprattutto una seria riorganizzazione normativa dell’intero settore. Detto questo sono comunque fiducioso che, nonostante tutto, anche in Italia i nostri sforzi avranno un senso.

 Cosa è scritto nell’agenda di Marco Boccia?
Nella mia agenda, oggi c’è la promozione di “In The Park”. Cerchiamo di far conoscere il nostro lavoro anche ad operatori del settore che possano accogliere una nostra performance al fine di introdurci ad un pubblico che sia il più vasto possibile e per questo mi aiutano Fabrizio Salvatore di AlfaMusic e Alessandra Savino che mi affianca ormai da qualche tempo. Poi sono fuori anche con un nuovo testo didattico uscito per Florestano Edizioni ed in fine le collaborazioni. E’ pronto il secondo disco del trio di Vito Liturri con il batterista Lello Patruno che dovrebbe uscire in estate quindi stiamo lavorando intensamente anche su questo versante.

E cosa nel diario segreto?
Non voglio sembrare banale o peggio patetico, ma nel mio diario segreto c’è solo il desiderio costante di serenità, per me e la mia famiglia per tutti coloro che mi sono vicini e che con amore mi sostengono ogni giorno in un percorso che come si sa’ non è mai semplice e scontato. Tutto qui!

Alceste Ayroldi