Vincenzo Caporaletti. Toccare la musica

La teoria delle musiche audiotattili, elaborata da un musicologo – e musicista – come Caporaletti, ha da qualche tempo rivoluzionato l’approccio accademico allo studio del jazz e del rock (ma non solo). Ne parliamo quindi col diretto interessato

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Professor Caporaletti inizierei, se per lei va bene, con precisare subito l’argomento principale di questa nostra chiacchierata e fare chiarezza anche con i nostri lettori. Che cosa si intende per musiche audiotattili e quali sono?
Le musiche audiotattili sono quelle in cui da parte dei musicisti prevale una modalità cognitiva/formativa che chiamo, con un neologismo, “audiotattile”: il jazz, il rock, le musiche pop, world, ecc. Ma anche le musiche tradizionali (distinte però dalle prime da ulteriori criteri). Queste, a loro volta, si differenziano dalla musica cosiddetta “classica”, dove agisce un altro tipo di cognitività che definisco “visiva”. Questa classificazione è il risultato di una prospettiva interpretativa che pone l’accento sui modi di concettualizzare, percepire e fare musica, anziché basarsi, come si fa di solito, sulle differenze formali ed esteriori tra musiche. Questa «svolta cognitivista» musicologica, dagli Oggetti ai Soggetti, ha molti vantaggi. In primo luogo, riduce il campo pressoché infinito delle pratiche musicali alle gradazioni di una coppia oppositiva. Poi, non distingue più, ad es., il jazz dalla musica classica in base a giudizi di valore, ma li pone su uno stesso piano metodologico in modo da poterli confrontare con criteri oggettivi, evidenziandone le rispettive specificità. Con ricadute sui relativi modi corretti di intervento didattico-pedagogico.

Il suo ultimo libro Teoria delle musiche audiottatili. Una introduzione, edito in ristampa da LIM – Libreria Musicale Italiana, precisa un aspetto non da tutti conosciuto: quella dei prodromi nell’antichità greca. Ce ne vorrebbe parlare?
Se si considera l’approccio cognitivista cui mi riferivo, appare chiaro che il modo audiotattile di rapportarsi al mondo non si limita alla musica. Ci rimanda alla metis, ad una antica forma di comportamento intellettuale nella Grecia arcaica che combinava l’intuito, l’astuzia, la fulmineità d’azione, la previsione, il senso del momento opportuno, la mira verso un fine da conseguire (e non finalizzata alla conoscenza “astratta” della Verità, come sarà con la filosofia occidentale). Erano le qualità razionali considerate fondamentali per «farcela» in battaglia o per cavarsela nel deserto, dove non vi sono regole precostituite per raggiungere la meta e bisogna procedere ogni momento per congetture. Il parallelo con l’esperienza dell’improvvisazione mi sembra lampante.

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Professor Caporaletti, alla luce delle sue teorie e dei suoi studi, possiamo ancora parlare dell’esistenza della musica jazz?
Il termine jazz ci rimanda ad una cultura e a una tradizione musicale cui siamo tutti affezionati. Il problema sorge quando è utilizzato come categoria estetica o pedagogico-didattica: come quintessenza dell’idea di improvvisazione, ad esempio. L’approccio improvvisativo, infatti, è sempre esistito: nella musica barocca, nei partimenti settecenteschi, nelle musiche tradizionali, nel rock. Se si utilizza il termine jazz come sinonimo o epitome della creatività improvvisativa si compie un grave atto di essenzialismo, che cancella altre culture. Per questo è più idonea la categoria “audiotattile”, riferita ad una facoltà generalmente umana, la cognitività/formatività, e più democraticamente trasversale rispetto alle diverse musiche.

Da qualche anno a questa parte, con Nicholas Payton in testa, si è formata una corrente denominata B.A.M. – Black American Music; corrente che rivendica la paternità afroamericana di alcune musiche (jazz, soul, blues, R&B, hip hop, rap). Lei cosa ne pensa in proposito?
Che vi siano musiche in cui la componente antropologico-culturale africana-americana sia preponderante (aggiungerei alla lista il gospel) è innegabile. Sul jazz comincerei ad avere dei dubbi, visto l’apporto della cultura europea – con gli italo-americani in primis –, della musica klezmer, ecc., accanto alle caratteristiche fondanti africane-americane. E gli africani-americani in Brasile? I blocos afro non sono musica afroamericana? Qui sorge il dubbio che BAM voglia dire USA, e si innescano molti problemi identitari e politici. Non dimentichiamo che per intervento legislativo statunitense, con il Jazz Preservation Act del 1987, si definisce ex lege il jazz «una sintesi culturale originale americana attraverso l’esperienza africana-americana».

Poi, c’è ancora chi sostiene che il jazz è solo americano e quello suonato dagli europei non sia jazz, lei che ne pensa?
Ecco un altro mito che la teoria audiotattile sfata. Questa idea nasce dalla concezione (erronea) del jazz come musica di tradizione orale. Se noi ci recassimo dai Suyá della foresta amazzonica, pur dipingendoci il corpo con i loro simboli magici e danzando nei loro riti, non saremmo però credibili come insider. Non diventeremmo, cioè, per questo “uno di loro”. Le culture orali, infatti, sono tendenzialmente conservatrici e esclusiviste. Lo stesso schema è stato applicato, più o meno consapevolmente, al jazz per gli africani-americani. Ma se vediamo il jazz come musica audiotattile e transculturale, mediata dalle strutture informative tecnologiche globali (radio, tv, dischi, internet, ecc.), ecco che perde valore quel complesso genetico-linguistico-territoriale che costituiva in antropologia il paradigma identitario etnico-oralistico nel XX secolo (e che nel caso del jazz individua una minoranza geneticamente africana di lingua inglese stanziata negli USA). È chiaro che poi questa dinamica “globale” va negoziata dialetticamente con le specificità “locali”, che sono da custodire con la massima cura. Questa prospettiva apre alla legittimazione delle tradizioni locali del jazz fuori dagli USA.

Oralità vs. composizione. Dopo aver letto il breve trattato di W.J. Ong (Oralità e scrittura, edizione Il Mulino) che sostiene: «Sebbene le parole siano radicate nel discorso orale, la scrittura le imprigiona tirannicamente e per sempre in un campo visivo.». Lei ritiene che questa affermazione sia da estendersi anche alla musica?
Gli studi sull’oralità (Parry, Ong, Zumthor, Goody, ecc.) sono stati molto importanti. Ma oggi sono d’accordo con Jean Molino che considera «confuso» il concetto di oralità. Infatti, la nozione di audiotattile raffina quella di oralità, evidenziando il funzionamento cognitivo degli attori in una cultura orale. E questo ci porta alla considerazione che la cognitività audiotattile può essere condivisa anche da chi “orale” non sembra affatto, come gli scrittori (pensiamo a Joyce o Kerouac) o i pittori (tutta l’arte visuale contemporanea). Oppure, dai jazzisti quando leggono e eseguono le partiture, o le compongono.

L’atto improvvisativo costituisce una «impronta» tale da poter essere ricondotta a un determinato musicista e, quindi, costituire il suo marchio di fabbrica?
Certamente: questo ci rimanda alla nozione di autografia musicale, altro caposaldo della teoria audiotattile. Non sono forse i dripping di Pollock la sua impronta? O i tagli di Fontana? Piero Manzoni nel 1961 giocò con questo concetto, portando il discorso alle estreme conseguenze scatologiche … Questa idea dell’impronta audiotattile potrà avere, grazie agli sviluppi dell’informatica, notevoli risvolti in ambito di diritto d’autore.

Cosa ne pensa della bipartizione teorizzata da Theodor W. Adorno: popular music da una parte e musica classica dall’altra?
Colgo l’occasione per segnalare un mio saggio in cui interpreto in maniera innovativa il rapporto tra Adorno e il jazz, uscito in questi giorni nel volume The Mediations of Music. Critical Approaches after Adorno. La distinzione adorniana tra ernste Musik e Unterhaltungsmusik (musica seria e musica leggera) è stata mal compresa e spesso capziosamente sfruttata per meri interessi di politica economico-culturale. Adorno, nonostante ciò che si è creduto sinora, conosceva bene il jazz (compresi gli sviluppi post-bop) e, soprattutto, ne aveva intuito molto chiaramente l’essenza audiotattile. Il problema è nel valore da lui attribuito all’audiotattile, che, in effetti, come ripeto sempre ai miei studenti, se non è ibridato in parte con una attitudine razionale visiva, come ci ha insegnato il grande jazz nel XX secolo, di per sé, nella sua essenza assoluta, può rivelare aspetti problematici.

Tornando al jazz, sappiamo che in alcuni casi (non oso dire spesso) i jazzisti guidano, per così dire, l’assolo su degli accordi, su delle note già in precedenza assunte. In pratica, hanno memorizzato un assolo e lo ripetono con nonchalance. In questo caso, non si andrebbe a tradire la natura dell’atto improvvisativo?
A questa importante questione ho dedicato uno studio che Henri Martin nel suo fondamentale Charlie Parker. Composer ha voluto definire Caporaletti’s model. Parker ripropose esattamente uguali (come da trascrizione) i breaks in Night in Tunisia nelle tre famose incisioni DIAL del 1946. Erano segno di scarsa autenticità e creatività? Direi di no. Il problema è prescindere dal criterio “visivo” per cui si commisura il senso musicale solo nella dimensione lineare ritmo-melodica: diciamo, attraverso le note che compongono una frase musicale. Se questo ha un senso nella musica classica, nelle musiche audiotattili prevalgono altri aspetti, specifici di queste culture, come lo swing, il groove o il drive nel jazz, o il balanço brasiliano: per farla semplice, l’energia senso-motoria esplicata dal performer. Analizzando dal punto di vista di queste qualità i tre breaks apparentemente gemelli, si scoprirà un caleidoscopio di micro-varianti percepite sensitivamente come “spinta”, “propulsione”, “euritmia” che ne fanno dei cristalli meravigliosi. (È chiaro che questo non esime dal saper estemporizzare e improvvisare, come Parker peraltro faceva in modo trascendente).

Quali sono stati, dal punto di vista musicale, i movimenti che hanno attuato una rivoluzione copernicana?
Oggi più che di movimenti si tende a parlare di individualità. Ogni grande musicista di jazz ha impresso il proprio principio audiotattile nella musica, modificando l’assetto del sistema-musica nel suo insieme e negoziando gli sviluppi storici della tradizione culturale.

Con il Decreto Ministeriale 483 del 22/01/2008 il termine audiotattile è stato recepito dal M.I.U.R. aggiungendo una nuova area operativa al campo d’azione dei Conservatori e dei Licei Musicali intitolato «Discipline interpretative del jazz, delle musiche improvvisate e audiotattili» e comprendente alcuni nuovi settori artistico disciplinari. Con il D.M. 9.08.2017 n. 611 sono state introdotte le «Discipline interpretative del pop-rock, delle musiche improvvisate e audiotattili». Ora, visto che lei è l’unico titolato a poter delimitare il campo di operatività, quali sono i requisiti che un docente dovrebbe avere per poter insegnare musiche audiotattili?
Oltre alla qualificazione professionale indiscussa, occorre la consapevolezza di agire come didatta all’interno di una dimensione audiotattile. Sembra banale, ma non lo è. Dico sempre che la teoria audiotattile per un dipartimento di jazz o pop è come il corso di linguistica generale in un dipartimento di lingue. La mancanza di una teorizzazione dei principi generali e specifici delle musiche audiotattili si è ripercossa sulle metodologie didattiche accademiche del jazz e del rock-pop, spesso basate su un pragmatismo intuitivo dei singoli docenti o modellate più o meno inconsciamente su quelle della musica “classica”. Questo comporta delle distorsioni molto gravi. Uno dei problemi più difficili è riuscire a far improvvisare in maniera stilisticamente significativa chi si è formato esclusivamente in ambito classico. Per questo occorre un importante aggiornamento professionale dei docenti di jazz rispetto alla teoria audiotattile o l’introduzione di questa materia nei programmi di studio. Non basta essere ottimi musicisti per insegnare.

Professore, facciamo un salto indietro. Quando è iniziata la sua ricerca in questo campo e quali sono i motivi che l’hanno spinta in questa direzione?
Direi che il salto è molto… «all’indietro», e ci riporta a metà anni Settanta. In quel periodo ero un giovane e motivato studente di musicologia che però non trovava in ambito accademico la risposta agli interrogativi che lo avevano indirizzato verso quella disciplina. Venivo come musicista dal mondo del prog rock, e oltre agli studi di chitarra classica stavo già progettando il difficoltoso passaggio al jazz. Il problema era che sul piano musicologico non venivo a capo della concettualizzazione di un fenomeno che avevo incontrato nei discorsi dei musicisti più anziani: lo swing. Fu così che decisi di dedicare la mia tesi di laurea alla definizione di questo quid che risultava imprendibile attraverso le categorie della teoria musicale. Per questo approfondii gli studi di filosofia, in particolare riguardo alla teorizzazione delle proprietà formativo-strutturanti della corporeità e della sensorialità nella tradizione esistenzialista e fenomenologica, e da lì è iniziata una riflessione che dopo quasi cinquanta anni continua ancora.

C’è stato un evento, una lettura, un incontro che ha fatto scattare la scintilla?
Posso dire che la teoria audiotattile è stata la risposta ai miei interrogativi da musicista. Oggi si parla tanto di artistic research: ma la teoria audiotattile è forse il primo modello teorico musicologico di un musicista per gli altri musicisti (e ovviamente per gli ascoltatori). Ricordo sempre, credo si fosse nel 1969, quando cercavo invano di riprodurre il tagliente e perentorio intro di chitarra dell’Hey Joe hendrixiano. Provavo e riprovavo, ma il risultato poco confortante era un suonetto patetico privo di ogni senso. Ad un certo punto pensai: «Non devo concentrarmi sulle note, ma sul gesto che genera queste note …», e fu così che, di colpo, magicamente riuscii ad imitare l’afflato energetico del grande Jimi. Credo che l’intuizione del principio audiotattile nasca da esperienze fondanti come queste. Potrei dire lo stesso per la ricerca dell’equilibrio fraseologico nell’improvvisazione. Poi, dal punto vista più intellettuale, e qui siamo intorno al ’76, c’è stato l’incontro con McLuhan e la sua teoria mediologica: e per questo devo ringraziare la compianta Francesca Alinovi.

Probabilmente la sua teoria ha trovato accoglimento prima all’estero che in Italia. Mi sbaglio?
In parte è vero, ma ricordiamo che già dal 2008 il MIUR adottò il mio paradigma nelle declaratorie dei Corsi Jazz. Qui occorre precisare che non ho mai avuto tessere di nessun partito, e tantomeno utilizzato entrature politiche; è molto triste vedere carriere – artistiche e non – costruite soprattutto grazie ad appoggi politici. Nel contesto internazionale i valori sono più trasparenti: non ci sono mediazioni di sorta. Poi ricordiamo che in Italia si è generato, di ritorno, un enorme interesse, ad esempio il convegno organizzato da Claudio Angeleri a Bergamo sulla didattica audiotattile.

Lei dirige il Centre de Recherche International sur le Jazz et Musiques Audiotactiles dell’università La Sorbona di Parigi. Un incarico più che prestigioso e che attesta ancor più quanto all’estero trovino agio le sue teorie. Come è strutturato il lavoro del centro?
Il CRIJMA, fondato nel 2018, è diventato immediatamente un punto di riferimento per il movimento di studiosi internazionali che lavorano nell’ambito della teoria audiotattile. I miei colleghi alla direzione del Centro sono le più eminenti personalità del mondo del jazz francese e della musica brasiliana: i professori. Laurent Cugny e Fabiano Araújo Costa. Credo che sia un caso unico al mondo di collaborazione tra tre musicologi professori universitari titolari ciascuno di una carriera musicale nel jazz: Laurent ha diretto l’Orchestre National de Jazz e ha collaborato a lungo con Gil Evans; Fabiano ha suonato con i più grandi musicisti brasiliani. Il CRIJMA pubblica una rivista annuale online open access, la Revue d’Etudes du Jazz et des Musiques Audiotactiles, in quattro lingue (inglese, francese, italiano, portoghese, ma ultimamente anche in cinese). Oltre alla pubblicistica organizza seminari di ricerca, master e dottorati. Presso la università UFES brasiliana è stato recentemente istituito un Centro di ricerca omologo al CRIJMA, sempre dedicato alla teoria audiotattile.

Il suo è anche un passato da musicista professionista. Quando ha deciso di cambiare rotta e perché?
Bella domanda. In realtà le mie due anime, musicologica e musicale, sono andate sempre di pari passo. Mi sono formato musicologicamente con grandi intellettuali e l’esperienza nel prog rock è stata determinante. Si consideri che nel primo LP dei Pierrot Lunaire, nel 1974, ho suonato tutti i tipi di chitarra, il basso, la batteria, e pure eseguito assoli di flauto: e non avevo nemmeno 19 anni. Poi nel jazz, anche grazie al sodalizio di vecchia data con Giulio Capiozzo e in nome della comune militanza prog, ho collaborato con molti musicisti europei e statunitensi. Negli anni Novanta sempre con Giulio demmo vita ad un gruppo praticamente stabile con Tony Scott, un pianoless combo in cui come chitarrista avevo la responsabilità anche armonica, e dove militava anche come cantante mia moglie Lorena. Poi, nel giro di pochi anni ci fu la scomparsa di Giulio, il lento declino di Tony, e anche la morte del mio più caro collaboratore dai tempi del prog, il poeta e compositore Gaio Chiocchio. Io interpretai questi fatti come un segno destinale. Intanto avevo ripreso l’attività di ricerca, e il mondo universitario mi accolse, devo ammettere, con grande interesse: avevo molto da dire, sulla scorta della mia formazione musicologica e della lunga esperienza maturata sul campo. Da lì è cambiato tutto. In poco più di venti anni ho pubblicato 24 monografie musicologiche e centinaia di articoli tradotti in molte lingue.

Qual è il suo giudizio sulla scena musicale attuale? Per esempio, cosa ne pensa della musica trap?
Possiamo dire che il trap è uno dei casi cui mi riferivo prima, un genere in cui la dimensione audiotattile è scarsamente contemperata da attitudini razionalmente visive. In molti casi, l’effetto ossessivo nasaleggiante dell’autotune, con curiosa connotazione mediorientale, unita a una ambientazione armonica in minore con tipico ostinato di I-VI e alla spossatezza iterativa e desistente nella prosodia, dipinge un quadro di disperazione generazionale. Negli esempi più eclatanti, credo sia un fenomeno che abbia a che fare più con la sfera dell’ordine pubblico che con la critica artistica, per l’istigazione alla violenza e l’intolleranza razzista nei confronti delle minoranze che tanti trapper propugnano. Molti artisti in tutti i campi hanno trattato temi scabrosi, anche politicamente scorretti, ma alla luce di una trasfigurazione estetica che ne trasmutava il segno. Qui quello che manca è proprio quella trasfigurazione. Non ci si può trincerare dietro l’alibi della libertà di espressione: quando il livello artistico è carente o nullo resta solo il messaggio antisociale.

Quali sono i suoi prossimi obiettivi?
In genere non mi pongo obiettivi precostituiti. C’è un’intuizione di Luigi Pareyson cui penso spesso: «L’opera d’arte la fa l’artista, eppure si fa da sé”. Chiaramente, questo riguarda l’opera d’arte riuscita. Ebbene, credo che anche la vita stessa certamente la facciamo noi, ma purtuttavia si faccia da sola, suggerendoci delle vie segrete da percorrere, aprendo e chiudendo possibilità. Occorre saper intuire e seguire audiotattilmente la corrente.
Alceste Ayroldi

Intervista pubblicata sul numero di novembre 2022 di Musica Jazz
Foto di Lorena Scariglia

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