Sidney Bechet, Salomone e un cuore spezzato

L’anomala interpretazione di un’oscura canzone di cent’anni fa

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Sidney Bechet
Sidney Bechet, New Orleans 1950 circa

Se si cerca su internet il titolo The Song Of Songs, la gran massa dei rimandi è a quello che noi chiamiamo Il cantico dei cantici: la grande celebrazione biblica della donna attribuita a Salomone. Qua e là spunta però un’oscura canzone di cent’anni fa, traduzione inglese effettuata da tal Clarence Lucas nel 1914 di un’altrettanto dimenticata Chanson du coeur brisé scritta dalla coppia Moya – Maurice Vaucaire (e ottimisticamente annunciata, sullo spartito anglosassone, come «The success of the century»). Jazzisticamente è tutt’altro che uno standard; ne esiste forse una sola versione, incisa nel luglio 1947 da Sidney Bechet, ed è probabile che molti appassionati del grande clarinettista la releghino al posto che musicalmente le compete, una canzonetta melensa con una melodia che sta tra Malafemmena e Tu che m’hai preso il cuor. Eppure l’anomala interpretazione bechettiana stimola qualche riflessione.

Capita sempre più spesso, grazie alle raccolte cronologiche più o meno integrali diffuse anche a prezzi molto economici, di poter fare appassionanti «immersioni» nell’attività di un musicista documentata su disco, seguendone lo sviluppo nel corso degli anni e immaginando così di riuscire a comprenderne gli andamenti estetici e psicologici. È un’illusione, naturalmente; chissà quanto rimane fuori da questo percorso, spesso anche dolorosamente, per i più vari motivi (difficoltà a ottenere un contratto, pressioni dei produttori, autocensure, mancanza dei partner giusti…).

Ma è sempre meglio di niente. Così, è un piacere e un’avventura seguire un filo particolarmente aggrovigliato qual è quello della carriera in studio d’incisione di Sidney Bechet, ascoltando i quattordici volumi del cofanetto Universal «The Complete American Masters», nei quali si coglie il suo esplosivo esordio nel 1923, il lungo iato fino al 1931, la documentazione a singhiozzi degli anni successivi e soprattutto il grandioso decennio (abbondante) tra la fine del 1938 e l’inizio del 1950, gli anni della vera felicissima maturità del musicista, che approfitta del New Orleans Revival per suonare tutto quello che gli passa per la testa.

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La copertina del cofanetto «The Complete American Masters – 1931-1953»

Appunto entro questa copiosa stagione (praticamente dieci cd, e non ci sono le versioni alternative!) si colloca anche l’incisione di The Song Of Songs, nell’unica occasione che Bechet ebbe di incidere per la potente Columbia. Ciò avvenne grazie al giovane George Avakian, produttore agguerrito benché alle prime armi, infuocato amatore del jazz dei primordi; ma anche lui non dev’essere rimasto convinto da quel brano, che non uscì mai come 78 giri (il formato in uso all’epoca) e fu recuperato solo anni dopo.

L’esecuzione è costruita come una romanza d’opera. Dopo una breve introduzione di pianoforte, Bechet «canta» in rubato la strofa iniziale con il suo sassofono soprano, quindi suona a tempo buona parte del tema (che non ha la forma classica con l’inciso a separare la melodia principale, secondo lo schema AABA, ma è invece costruito alternando idee diverse, ABAC); sull’ultima parte del tema, la sezione C, torna al rubato che culmina in un finale soltanto apparente, che infatti rimane armonicamente irrisolto, per chiudere trionfalmente su una coda con acuto finale.

Non sono solo questa chiusura a effetto e la retorica dell’alternanza tra momenti a tempo sospeso e a tempo definito che ricordano le arie d’opera eseguite nei salotti del tempo; anche il vibrato, caratteristica tipica di Bechet, è fortemente accentuato. È evidente che Bechet «pensa» con intensità il testo della canzone; l’effetto è particolarmente affascinante all’apertura del brano, perché la strofa nelle canzoni del tempo aveva un valore introduttivo più sul piano della narrazione che su quello musicale, e Bechet riesce a conservare questa sensazione anche senza usare le parole.

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La copertina dell’autobiografia di Sidney Bechet uscita nel 1961

La modalità espressiva di The Song Of Songs contrasta con quella, esuberante ma senz’altro più sintetica, delle tante incisioni effettuate dal nostro musicista in questo periodo. È come se il brano anticipasse la fase successiva della sua carriera, quella dei trionfi francesi, giudicata unanimemente più commerciale e superficiale. Ma in realtà esso non è affatto la prefigurazione di un discutibile futuro, piuttosto il fossile di un glorioso passato. Nella sua autobiografia Treat It Gentle, Sidney Bechet parla diffusamente del suo primo viaggio in Europa, quello che nel giugno del 1919 lo conduce a Londra assieme alla Southern Syncopated Orchestra di Will Marion Cook: sono i giorni in cui Ernest Ansermet, dopo averlo ascoltato, scrive una celebre recensione su questo prodigioso solista.

All’epoca Bechet suona solo il clarinetto, ma già prima di partire da New York è stato colpito dal suono di un soprano ricurvo; a Londra decide di acquistarne uno diritto: «Ero per strada con Arthur Briggs quando ne vidi uno nella vetrina di un negozio di musica. Entrammo e provai Whispering: fu il primo brano che suonai con quello strumento. Lo apprezzai dal momento in cui il venditore me lo dette, e piacque anche a Will Marion Cook. Così lui scrisse qualche arrangiamento speciale perché potessi suonarlo; uno di questi si chiamava Song Of Songs. Fu un colpo di fortuna, perché non molto tempo dopo la gente cominciò a dire che non voleva più clarinetti nei propri gruppi; e io ero lì pronto con il mio sassofono».

Ecco dunque che cosa si nasconde dietro questo brano ebbro di retorica: la gioventù, la scoperta dell’Europa, la prima fama, l’intesa con musicisti del suo stesso sentire, perfino il tanto significativo passaggio tra i due strumenti.

Forse tutto sarebbe rimasto racchiuso negli archivi di un lontano passato se, qualche mese prima dell’incisione, Bechet non avesse cominciato una lunga scrittura al Jimmy Ryan’s di New York con un gruppo comprendente il pianista Lloyd Phillips. Bob Wilber, all’epoca giovanissimo allievo di Bechet, racconta che Phillips aveva un repertorio enciclopedico di vecchie canzoni con le quali si divertiva a cogliere in fallo i partner. Una sera iniziò a suonare The Song Of Songs e, con sua grande sorpresa, scoprì che il suo leader la conosceva alla perfezione. A quel punto un’incisione s’imponeva (ed è probabile che senza questo richiamo mnemonico non ci sarebbe stata neppure la citazione del brano nell’autobiografia, che doveva ancora essere scritta); e senza dubbio Bechet la riprende evocando l’enfatico arrangiamento del 1919.

E forse gustandosi anche una piccola vendetta su Phillips. Il brano fu infatti tentato due volte, una (subito scartata) il 23 luglio 1947, l’altra il 31 luglio. È chiaro che la prima versione fu eliminata per una scivolata di Bechet sul momento cruciale, l’acuto conclusivo; ma, quando si trattò di rifarla, il ruolo del pianista, che otto giorni prima era quello di un facondo accompagnatore tutto preso a mettersi in mostra con rapide volate negli istanti in cui il leader prendeva fiato, venne bruscamente ridimensionato a un anonimo sottofondo.

Bechet non era ancora le Dieu, ma certo già si sentiva importante come Salomone.

Claudio Sessa