Ricordo di Curtis Fuller

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Fotografia di Carlo Verri

Scomparso a 86 anni lo scorso 8 maggio, Curtis DuBois Fuller era nato a Detroit il 15 dicembre 1934 da genitori giamaicani, ed era rimasto quasi subito orfano. Aveva iniziato studiando il violino, poi era passato al sassofono e infine al flicorno baritono, per scegliere infine – ormai sedicenne – il trombone dopo l’ascolto di un concerto di J.J. Johnson. Durante il servizio militare suonò in una band con i fratelli Adderley (la dirigeva Cannonball) e, tornato alla vita civile, si fece notare da Miles Davis (che lo scritturò brevemente in un suo gruppo mai entrato in sala d’incisione). Fu l’ingresso nel sestetto di Yusef Lateef, nel 1955, a dargli una rapida notorietà anche sulla scena newyorkese e a farlo collaborare anche con Lester Young, Pepper Adams e altri musicisti di rilievo. Quando Lateef, nel 1957, cominciò a incidere per la Savoy, il giovane trombonista divenne subito uno dei nomi «caldi» del periodo. Parallelamente Fuller iniziò anche a registrare da leader, come testimoniano «New Trombone» con Sonny Red, Hank Jones, Doug Watkins, Louis Hayes e «With Red Garland» (entrambi poi riediti su Original Jazz Classics). In quello stesso 1957, poi, fu messo sotto contratto dalla Blue Note, per la quale in meno di un anno registrerà quattro ottimi dischi in varie configurazioni. In seguito apparve come leader per la Savoy, la United Artists, la Epic, la Impulse! e la Mainstream. A metà anni Settanta entrò nell’orchestra di Count Basie, con la quale figurerà in svariati album per la Pablo, e a fine decennio riprese a incidere a suo nome con un bel disco per la BeeHive di Chicago («Fire And Filigree», 1979). Dopo circa 25 anni di attività come sideman di lusso, spesso e volentieri a fianco del suo vecchio amico Benny Golson per svariate riunioni del Jazztet, solo nel 2003 Fuller tornerà a registrare con regolarità da leader («Up Jumped Spring» per la Delmark). Ma non si possono certo trascurare le sue numerose collaborazioni, tutte di altissimo livello: di particolare spicco la presenza del trombonista accanto a John Coltrane (in «Blue Train», 1957); nei Jazz Messengers di Art Blakey (dal 1961 al 1965, in una front line che comprendeva Freddie Hubbard – poi Lee Morgan – e Wayne Shorter); e a più riprese, infine, nel suddetto Jazztet di Art Farmer e Benny Golson. Da ricordare anche un Timeless del 1982, «Curtis Fuller Meets Roma Jazz Trio», con Danilo Rea, Enzo Pietropaoli e Roberto Gatto.

Lo ricordiamo con un’intervista che ci volle concedere nei primi mesi del 2004.

Mister Fuller, è vero che Moment’s Notice, il brano che Coltrane ha inciso su «Blue Train», è dedicato a lei? No, non è andata proprio così. Casomai, senza volerlo, ho contribuito a dargli un titolo. Anzi, via, diciamo che il titolo a quel brano gliel’ho dato proprio io! A differenza mia, che sono sempre stato un tipo parecchio estroverso, John era una persona molto seria e riservata, straordinariamente timida. Quando abbiamo registrato «Blue Train», poi, era più teso del solito perché sapeva che incidere per la Blue Note era un passo significativo per la sua carriera, e si era preparato bene. Io, Lee Morgan e Trane non eravamo una front line improvvisata, perché ci conoscevamo da tempo e suonavamo spesso assieme. In più, Alfred Lion pretendeva che per le sue sedute di incisione i gruppi facessero almeno una prova. È questo – lasciami divagare un attimo – che ha sempre distinto la Blue Note: l’attenzione che Alfred rivolgeva anche ai piccoli particolari. Quando, più avanti, sono entrato nei Jazz Messengers e ho iniziato a scrivere e arrangiare brani più complessi, ho tenuto ben presente l’insegnamento di Alfred: mai andare in studio impreparato. Insomma, tornando a «Blue Train», avevamo già messo a punto i brani da incidere, ma il giorno della seduta John arrivò da Van Gelder con un pezzo nuovo, che nessuno aveva mai visto e che ci parve subito un osso duro. Già eravamo tutti quanti preoccupati anche senza di quello, e lui ancora più di noi, e io gli dissi, tanto per sdrammatizzare: «Mica siamo tutti bravi come te, che riesci a suonare roba così difficile su due piedi [“At a moment’s notice”]». «Ecco!» rispose John, e io non capii che cosa intendesse dire. Poi, quando uscì il disco, scoprii che la mia battuta gli era servita per intitolare il brano.

Fotografia di Carlo Verri

Tra l’altro ben pochi trombonisti possono vantarsi di aver suonato e inciso con Coltrane. Amico mio, io non sono mai stato vanitoso, né un grande agente di me stesso, e questo ha finito per costarmi caro in termini di notorietà, però una cosa te la devo dire. L’unico trombonista ad aver inciso con Coltrane in piccole formazioni è il sottoscritto, altro che. E se vuoi saperla tutta, l’unico trombonista ad aver inciso in quartetto con Bud Powell è sempre il qui presente Curtis Fuller. E chi sarà mai l’unico ad aver inciso con Jimmy Smith? Eccomi qui! Insomma, diciamo pure che qualcosa in vita mia l’ho combinato. Ormai ho una lunga carriera alle spalle e posso anche permettermi di parlar chiaro. Coltrane amava molto il trombone, ma soprattutto gli piaceva quando era suonato da me! Per questo cercava spesso e volentieri di coinvolgermi nei suoi progetti. Il fatto è che all’epoca io ero molto richiesto, perché di più bravo di me c’era solo J.J. Johnson, che però era un leader e voleva suonare soltanto la sua musica, e di conseguenza la prima scelta ero io. Mi volevano tutti, ma per Coltrane ho sempre avuto un riguardo e un rispetto particolari. È lui che mi ha mostrato la strada, è lui la mia più grande influenza.

Prima di «Blue Train» avevate già fatto qualcosa assieme, se non erro. Sì, qualche disco per la Savoy. Coltrane l’ho conosciuto grazie a Miles Davis, che mi aveva fatto la mezza promessa di prendermi fisso nel suo gruppo. Per questo avevo deciso di lasciare Detroit e trasferirmi definitivamente a New York. Ho suonato per qualche mese con Miles, e nella band c’era anche John, eravamo un sestetto. Poi la cosa non è andata avanti, ma io e Trane avevamo stretto amicizia, e quando Ozzie Cadena, il produttore del mio primo disco per la Prestige («New Trombone», maggio 1957), ha cominciato a chiamarmi sempre più spesso per delle sedute di incisione alla Savoy, alla fine si è deciso a mettere in piedi un disco con Coltrane e il sottoscritto. Comunque Ozzie era uno strano tipo, aveva la mania di cambiare titolo ai brani degli altri. E si era fissato con i titoli d’ispirazione africana, era convinto che funzionassero meglio e vendessero di più… Così due mie composizioni furono ribattezzate (da lui) Tanganyika Strut e Gold Coast. Solo che di africano non avevano proprio nulla! Del resto la Savoy non era come la Blue Note, dove si potevano fare le cose con calma; con Cadena toccava sempre lavorare col fiato sul collo, anche se poi tutte quante le etichette andavano a registrare da Rudy Van Gelder. Un giorno della settimana era riservato alla Prestige, un altro alla Savoy, un altro ancora alla Blue Note e così via. C’erano periodi che finivo per andare da Rudy quasi tutti i giorni, avrei fatto prima a dormire sul divano di casa sua… Però Cadena, a differenza di Alfred Lion e Bob Weinstock, era solo un produttore, non il titolare dell’etichetta. Era alle dipendenze di un tipo poco simpatico come Herman Lubinsky, che nella Savoy ci metteva i soldi ma che di jazz non sapeva niente, e niente voleva sapere. Anzi, il jazz non gli piaceva proprio! Ozzie lo rividi nel 1993, quando la Denon mi chiese di realizzare una nuova seduta di incisione che riprendesse i temi di un mio vecchio album Savoy, «Blues-ette», con quasi la stessa formazione di allora. Fece un salto in studio, senza preavviso, a salutarci. Credo che adesso abiti in California [è poi scomparso nel 2008, NdA].

In quel disco Savoy con Coltrane suonano anche Wilbur Harden e Tommy Flanagan, che come lei erano originari di Detroit. A cosa si deve il gran numero di musicisti di Detroit sulla scena del jazz di quegli anni? Al fatto che eravamo i più bravi! [ride di gusto]. In quel disco, al contrabbasso c’è Alvin Jackson, il fratello di Milt. Anche la famiglia Jackson era di Detroit. Così come Paul Chambers e Donald Byrd. E poi Barry Harris, Kenny Burrell, Louis Hayes. Pure Hank, Thad ed Elvin Jones vengono da lì vicino. Anche Pepper Adams, per non parlare di Sonny Red, che è stato uno dei miei migliori amici. E non posso dimenticare Yusef Lateef, che non è nato a Detroit ma ci ha passato anni e anni. Per Yusef ho una venerazione particolare, perché è stato grazie al suo quintetto che mi sono fatto conoscere sulla scena del jazz. Comunque sì, è vero, si può dire che dalla fine degli anni Quaranta i musicisti di Detroit hanno invaso New York. Penso che il suono del jazz sarebbe stato molto diverso senza di noi. Yusef, in particolare, ha sempre avuto le sue idee, e soprattutto la testardaggine di andare avanti, senza mai lasciarsi condizionare dalle opinioni correnti. Le cose che abbiamo fatto assieme sono ancora di un’avanguardia assoluta, anche quasi cinquant’anni dopo. Si parla tanto degli esperimenti di Sun Ra, ma Yusef non è mai stato da meno. Un musicista grande e originale.

Ho letto che, dopo lo scioglimento del gruppo di J.J. Johnson e Kai Winding, qualcuno aveva proposto di formare un gruppo analogo: Curtis Fuller con Bob Brookmeyer. Vero. Però non se n’è mai fatto niente, perché chi ce l’aveva proposto pretendeva che anch’io dovessi suonare il trombone a pistoni, sul quale non mi sono mai trovato a mio agio (e poi non ero certo al livello di Bob), anche se da ragazzo ho suonato il flicorno baritono. Poi, per fortuna, è andato tutto a monte perché Alfred Lion non ha voluto farci incidere con questa formazione. Neanche a lui piaceva il trombone a pistoni, e in più non aveva simpatia per Brookmeyer… Così il mio ultimo disco da leader per la Blue Note l’ho fatto assieme a Slide Hampton («Two Bones», gennaio 1958). La cosa buffa è che vent’anni dopo mi sono ritrovato a suonare proprio con Kai Winding, in un quintetto con due tromboni che avevamo battezzato Giant Bones. Era un gruppo eccellente, abbiamo anche inciso un paio di dischi ed eravamo molto richiesti dal vivo. Il fatto è che Kai non aveva più molta voglia di girare, voleva stare con sua moglie. Peccato, perché riuscivamo a farci pagare un sacco di quattrini [ride ancor più di gusto].

E il Jazztet? Lei è apparso solo nel primo album di quel memorabile gruppo, anche se ha fatto in tempo a lasciare un’impronta indelebile. Ah, guarda, aspettavo solo che tu tirassi fuori quest’argomento, perché anche qui avrei qualcosa da puntualizzare. È vero che dal Jazztet me ne sono andato quasi subito, ma è ancor più vero che l’idea originaria del gruppo era mia. Sono stato io ad aver inciso in sestetto per la Savoy, come Curtis Fuller Jazztet, ben due dischi; e l’ho fatto addirittura un anno prima del debutto del Jazztet di Art Farmer e Benny Golson, che ha tratto origine e ispirazione dal mio (nel quale, tra l’altro, c’era Benny, mentre Art è arrivato dopo). Nessun rancore, figurati, erano miei grandi amici e tali sono sempre rimasti, ma sai come si dice, no? Troppi galli nel pollaio… E comunque, la verità è che sia il mio Jazztet sia quello di Art e Benny si ispiravano al sestetto di Coltrane, quello di «Blue Train». Alla fine, quello di John resta ancora il disco più importante della mia carriera, e l’avervi preso parte mi riempie ancora di soddisfazione. Certo, pensare che oggi sono l’unico sopravvissuto di quella seduta mi mette una certa malinconia; ma, se passo in rassegna la mia carriera, posso dire di essere stato un uomo fortunato. Oltre che bravo, naturalmente: non scordartelo mai, ahahah! [si alza, saluta e se ne va sghignazzando].

 

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