Nina Simone e il successo, il declino e la caduta

Come un esattore implacabile, il destino riscuote gli oboli dovuti da coloro ai quali è stato concesso l’onore del talento: e quello di Nina Simone è un caso emblematico

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Nina Simone, nata nel 1933 in North Carolina come Eunice Kathleen Waymon e diventata Nina – come la chiamava il suo primo amore – Simone in onore dell’adorata Simone Signoret, è stata una delle più grandi cantanti del secolo scorso. Probabilmente l’unica a esprimersi ai massimi livelli sia nel jazz sia nel blues, soul, folk, pop, o qualsivoglia genere musicale che le fosse vicino per sensibilità e radici culturali. Poteva rivaleggiare sullo stesso terreno, e con la medesima intensità, con Billie Holiday, per esempio in una I Loves You Porgy da brividi; con Aretha Franklin in una Save Me trascinante come un treno; persino con Screamin’ Jay Hawkins in un’indimenticabile I Put A Spell On You; o addirittura con Bob Dylan in una struggente I Shall Be Released.

La locandina del film di Liz Garbus

Nina Simone era tra l’altro un’eccellente pianista, con un curriculum di studi classici di altissimo livello. Anzi, il suo massimo desiderio era fin da bambina quello di diventare la più grande pianista classica d’America; «e nera», come lei stessa orgogliosamente aggiunge nel bellissimo documentario che le ha dedicato la regista Liz Garbus. Il titolo, emblematico, è What Happened, Miss Simone?. Chi conosce appena un po’ la storia di Nina Simone sa bene che molte cose sono successe nella sue vita travagliata; e il film non le nasconde affatto: dai tormenti infantili all’isolamento per dedicarsi agli studi pianistici; quindi le discriminazioni razziali, l’amore devastante per il manesco marito manager, la gioia della nascita di una figlia e il rapporto poi violento anche con lei, i successi eclatanti e le cadute, le sparizioni dalle scene, fino ai tardi anni contrastati, vaganti, minati da forti crisi maniaco-depressive.

In un momento illuminante, durante un colloquio rilassato, a casa, Nina Simone si chiede, e forse inconsciamente chiede anche a un pubblico immaginario: cosa significa essere liberi? La sua risposta è precisa, determinata: non avere paura. In quell’istante puro e vero la tenerezza dello spettatore, già ampiamente provata dall’arte incommensurabile della donna, si fonde con la sua ingenuità, come se a parlare fosse non più la navigata cantante dalle mille esperienze ma la bambina che sognava di trovarsi in cima al mondo, con il rispetto e l’ammirazione di tutti, bianchi e neri.

Quel sentimento di estraniazione e di contrastata ambizione è ampiamente leggibile in tutta l’opera di Nina Simone, così come la sua spasmodica ricerca d’amore, sempre avversata da ruvide violenze. Non sorprende che i dualismi che hanno marchiato a fuoco la sua esistenza l’abbiano portata da un lato alla gloria per via di una musicalità, una potenza e una capacità forse anche spaventosa di rendere l’essenza stessa di una canzone; dall’altro verso una follia quasi inevitabile. Una sensibilità esasperata e tormentata si è riflessa dunque su tutto, travolgendo gli animi, le cose, i rapporti umani, la carriera artistica tra splendori eccelsi e miserie inenarrabili. Di sicuro la sua integrità di donna e di artista l’ha trascinata verso la purezza della sincerità assoluta di fronte alla musica, al cospetto dell’esistenza.

Nina Simone, sempre intensa nelle sue fotografie

Nelle interpretazioni di Nina Simone, anche in quelle poche che manifestano segni di incrinature e debolezza, non c’è mai un attimo di falsità. Non si sente mai un momento in cui lei sembri andare verso il cliché, il risaputo. Eppure in tutti i percorsi artistici dei grandi cantanti ci sono quelle sfasature, quelle «vacanze da se stessi» che si riflettono inevitabilmente nella musica. Non in Nina Simone e questa è una delle sue forze. Chi l’ha potuta ammirare dal vivo – e nel film ci sono innumerevioli spezzoni di concerti – si è immediatamente accorto di ciò, senza scampo.
Durante una canzone impegnativa, da sola al pianoforte, a un certo punto si ferma e dice alterata: «Siediti!». E lo ripete più volte a un non inquadrato spettatore che aveva malaguratamente deciso di alzarsi in piedi. La sua perentoria richiesta di attenzione è il contraltare della paura di non essere valutata nella propria assoluta dedizione verso l’arte; ed è anche l’orgoglio di una donna che sa bene di non potersi estraniare dal palcoscenico se non per consunzione e repulsione, come poi ha puntualmente fatto a un certo punto della vita. Quando si è trovata, suo malgrado, a parlare con uno psichiatra, ha esordito dicendo: «Io non sono non violenta!».

Nina Simone con lo scrittore James Baldwin nei primi anni ’60.

A quel punto, la strada tortuosa ma inevitabile del movimento dei diritti civili l’aveva avvicinata alle posizioni estreme del Black Power di Stokely Carmichael, leader rivoluzionario dei neri statunitensi. A fine anni Sessanta molti concerti di Nina Simone si erano trasformati in comizi, suscitando ovviamente le paure e l’avversione dei benpensanti e dei bianchi razzisti.
Il culmine di tutto quello scontro interiore, che diventerà personale e infine sociale, non è nei vari momenti di presa di coscienza, negli scritti intimi di un diario preciso e ineluttabile come un bisturi, nemmeno nelle interviste a chi ha avuto a che fare intimamente con lei. No. Giunge invece verso l’inizio del film, in una delirante serata televisiva a casa del proprietario di Playboy, un giovane Hugh Hefner che in smoking, attorniato da belle donne e altri invitati, presenta affabilmente l’unica donna nera tra gli astanti: proprio l’esordiente Nina Simone, che si avvicina timidamente al pianoforte e in piena atmosfera da cocktail canta una I Loves You Porgy da straziare il cuore del più cinico tra gli ascoltatori. In quel momento commovente ci sono tutte le storie, i conflitti e le tenerezze di Nina Simone.
Non si può che adorarla e sentirsi al suo fianco come invisibili angeli custodi per dirle: «Non ti preoccupare, diventerai così grande che tutto il mondo si inchinerà di fronte alla tua arte», tacendole l’alto prezzo che le costerà quel successo. Come un esattore implacabile, il destino riscuote gli oboli dovuti da coloro ai quali è stato concesso l’onore del talento. Nina Simone è morta il 21 aprile 2003, all’età di settant’anni. Ha vissuto più di Billie Holiday o Dinah Washington, meno di Ella Fitzgerald o Carmen McRae, ma di tutte loro ha riassunto in una vita le celebrazioni e le angosce, gli alti e i bassi, distinguendosi per l’integrità assoluta e l’amore viscerale per le proprie radici, che l’ha portata persino a vivere in Africa, in Liberia, in un momento particolarmente difficile della propria esistenza.
Ciò che ci ha lasciato sicuramente non morirà mai. Una lunga serie di dischi e filmati di concerti testimonia la profonda, ineluttabile bellezza della sua arte. E ora c’è anche questo bellissimo What Happened, Miss Simone?, che per fortuna potrà far dimenticare il mediocre film di finzione su di lei, già presentato a Cannes. Nessuno si è mai potuto impadronire della sua vita quando ancora era formidabilmente attiva; nessuno si impadronirà mai veramente di lei adesso che non c’è più. Ascoltiamola sempre e comunque: è una miniera d’oro di cui non ci si stanca mai. Non è certo un caso che Nina Simone sia stata definita The High Priestess of Soul.

Enzo Capua