«Non hai bisogno del meteorologo per sapere dove soffia il vento». Qualche canzone, in ogni caso, può servire.
Non avevo previsto di ascoltare nella mia vita musicale il vocione di Tom Waits che mugugna Bella ciao, sì, proprio quella, in anglo-italiano bestemmiato tra i denti. Eppure accade nello spazio di un disco, «Songs Of Resistance 1942-2018», che accoglie altre sorprese e pezzi interessanti, mettendo in musica rabbia e indignazione per il vento che fischia sulle cose del mondo da qualche tempo in qua. Ognuno di noi ha insetti nocivi nel suo orticello e il protagonista, il chitarrista newyorkese Marc Ribot, parte naturalmente dalla sua zecca, la più grossa, Donald Trump, anche se allarga il discorso: «Sono allarmato dal nuovo Presidente ma non solo, capisco che c’è una tendenza in atto. Ho passato un bel pezzo della mia vita a suonare in giro per il mondo, mi piace definirmi un “internazionalista per caso”; e proprio per questo vedo che Trump non è un fenomeno isolato. E allora bisogna fare qualcosa; se non saremo noi a occuparcene, saranno i fatti a occuparsi di noi». Il «qualcosa» è un’antologia di canti di protesta e ribellione che parte dall’Italia partigiana della seconda guerra mondiale e arriva ai giorni nostri, passando per il movimento dei diritti civili degli anni Sessanta e per il Messico dei Novanta: non un piagnisteo ma un grido forte di rinnovamento, per ricostruire dalle macerie della terribile foto di copertina: «Addio bellezza», è l’amara didascalia. Forse resterà un grido isolato, forse invece un seme potente che porterà a grandi fioriture. Quello che è certo, assicura il protagonista, è che «Non esiste movimento che abbia segnato la storia senza una buona colonna sonora».
Marc Ribot fa musica da trent’anni e ha una discografia impressionante, non solo la trentina di album come leader ma anche la sterminata fila delle collaborazioni. Come il suo amico John Zorn è un vulcano in perenne eruzione, con lava e lapilli di chitarra delle più diverse fogge e dimensioni: «libri degli angeli» e colonne sonore, sonorizzazioni di film muti, Shoe String Symphonettes, il Latin finto di finti cubani. Gli piace svoltare dove uno non direbbe, e quando decide l’umore. Un suo disco di qualche tempo addietro si chiamava «Esercizi di futilità»; ecco, qui siamo dalla parte opposta della scala, è tutto molto vero e serio anche se giocato non seriosamente, e non come rassegna museale su un tema politicamente (molto) corretto. Ribot ha chiamato amici per cantare e movimentare il paesaggio, e ha disegnato arrangiamenti vari che non prevedano soltanto il «solenne scorbutico» alla Waits o il «desolato commovente» alla Meshell Ndegeocello (The Militant Ecologist, basata su Fischia il vento). John Brown per esempio, il mitico eroe di «Glory glory, hallelujah!», viene rapito dai cieli della tradizione con macchine volanti di soul funk guidate dalla voce di Fay Victor; e We Are Soldiers In The Army, memorabile inno del Civil Rights Movement ai tempi delle lotte per l’integrazione razziale negli anni Sessanta, subisce un trattamento Ribottiano che gli cambia pelle, anzi, corazza. È ancora Fay Victor che canta, immersa in un fiammeggiante bosco sonoro con un sax che evoca gli strappi e gli urli di Archie Shepp, di Pharoah Sanders, di Gato Barbieri.
Gli inni del movimento nero sono una bella fonte di «Songs Of Resistance». We’ll Never Turn Back è un altro pezzo che viene da lì, e non dal profondo della tradizione ma dal cuore e dalla testa di una giovane attivista dei Sessanta, Bertha Gober, più volte arrestata per la sua attività con i Freedom Riders e lo Student Nonviolent Coordinating Committee. Una decina di anni fa Mavis Staples si ricordò di We’ll Never Turn Back e lo riprese in un bell’album prodotto da Ry Cooder che volle intitolare proprio così. Qui Justin Vivian e Dominique Fossati non hanno la profondità e possanza di Mavis, ma anche con accenti più leggeri la canzone arriva dove deve: «Non ci volteremo mai/ fino a che non saremo tutti liberi/ e tutti eguali». Ain’t Gonna Let Nobody Turn Me Around è invece un pezzo centenario, interpretato fin dagli anni Venti dai Dixie Jubilee Singers e ripreso poi in ambito blues dal grande Willie McTell. Sarebbe rimasto a riposare in quell’angolo di storia black se nella estate del 1962 il reverendo Ralph Abernathy non l’avesse recuperata per denunciare gli arresti di massa alle manifestazioni di protesta contro la segregazione razziale ad Albany, Georgia. Non è uno degli inni più famosi ma qualcuno ogni tanto se ne ricorda. I Roots qualche anno fa ne fecero una ripresa incendiaria, mentre qui Steve Earle la sposta in un suo mondo country rock, con l’aiuto della soave Tift Meritt; senza smancerie però, anzi, sulla coda Nobody Turn Me Around diventa un indemoniato rockabilly a rotta di collo.
Steve Earle non poteva mancare in questa cospirazione musicale, lui che ha sempre avuto il cuore acceso di indignazione e sogni, lui che anni addietro pubblicò un album che si intitolava «The Revolution Starts Here». Ribot lo ha voluto a tutti i costi e non si è accontentato di un pezzo solo, lo ha chiamato anche per Srinivas, un original scritto rievocando un fatto vero, la morte di un immigrato sikh, Srinivas Kuchibhotla, ucciso nel febbraio del 2017 da un razzista che pensava si trattasse di un musulmano. Giurerei di ricordare che qualcosa di simile era già accaduto la sera dell’11 settembre 2001; un motivo in più per non dimenticare e denunciare la follia del genere umano in uno tanti accessi di cieca stupidità. «Inizialmente nel testo c’era anche il nome dell’assassino,» spiega Ribot, «ma Steve mi ha convinto a eliminarlo. Ha detto che era solo un povero idiota e che la colpa non era sua, ma di quelli che lo hanno spinto a farlo. Mi è sembrato un ragionamento saggio, e ho capito che è proprio questa saggezza a rendere Steve Earle tanto grande ai miei occhi.»
Srinivas è un pezzo molto dritto e puntuto, ma non il più acuminato del disco. In questo senso vince Ratas de dos patas, «ratto con due gambe», una impressionante filippica che mi ha ricordato le canzoni di ingiuria di certa tradizione del nostro meridione, che Vinicio Capossela ha così bene illustrato nel suo ultimo «Canzoni della cupa». Il pezzo risale ai primi anni Novanta e porta la firma del compositore messicano Manuel Eduardo Toscano, ma il successo arriva solo nel 2004 con la versione di Paquita del Barrio; così convincente nell’interpretazione, così violenta e insolente che gira voce che il protagonista ingiuriato nel brano sia il suo ex marito. No, invece. Dopo un po’ si fa vivo Toscano, l’autore, chiarendo che il soggetto ispiratore era stato in realtà Carlos Salinas de Gortari, presidente del Messico dal 1988 al 1994. Siamo abituati a considerare le canzoni di protesta come lamentosi blues ricchi di alate metafore e ci stupisce quando il tono è diretto e le parole letteralmente esplodono tra labbra e gola. Ecco un bell’esempio, e bravo Ribot a proporre qualcosa di mai arrivato alle nostre latitudini, avendo in mente un cambio di bersaglio che non è difficile da intuire. «Ratto sporco/ Animale che striscia/ Scoria di vita/ Pazzo venuto male/ Subumano/ Spettro dell’inferno/ Troia maledetta/ Quanti danni mi hai fatto/ Serpente velenoso/ Spreco di vita/ Ti odio e ti disprezzo.»
Per Marc Ribot quest’album è un bengala che sentiva di dover sparare nei cieli della musica. Non sa che effetto farà ma, appunto, era uno sfogo che non andava contenuto. «Fare musica che tratti temi politici comporta dei rischi di contraddizione. Devi andare contro e senza diventare tu il bersaglio, per non finire a somigliare a ciò che detesti. Spesso è difficile capire cosa sia giusto fare ed è facile commettere degli errori, anche se poi dagli errori si può sempre imparare. Ma che io dovessi fare qualcosa l’ho capito nel momento in cui Donald Trump è stato eletto. Mi sono reso conto che non sarei mai stato il Furtwangler di un tipo con il ciuffo arancione che sogna di diventare un dittatore. Non esiste.»
Riccardo Bertoncelli
[da Musica Jazz, settembre 2018]