Monsieur Sclavis, come procede il lavoro con Federica Michisanti?
Direi bene. La porta d’ingresso all’universo di Federica è stato un concerto a Roma, nel 2020, un rencontre con il suo Horn Trio. In quell’occasione ho cominciato a entrare in contatto con un mondo che si è rivelato del tutto personale, diverso da qualsiasi altra cosa in circolazione nel jazz contemporaneo. Federica ha una propria voce, un universo compositivo che le se addice e che sta elaborando con attenzione. Avere una propria voce in questa musica significa tanto, è la cosa più importante. In secondo luogo, sia negli sviluppi improvvisativi sia quando accompagna, Federica ha uno stile strumentale molto interessante, si esprime con grande chiarezza. Una bella personalità.
Parla di rencontre, che, al plurale, è anche il titolo di un suo vecchio disco pubblicato da Nato nel 1985. A volte tendiamo a sottovalutare l’importanza che i musicisti francesi della sua generazione attribuiscono a questa parola. Lei che valore le assegna?
In realtà non è che gli accordi chissà quale importanza, però va detto che incontrare altri musicisti per me rappresenta una necessità. Ogni volta che voglio fare un nuovo progetto, la prima tappa è sempre la stessa: costituire un nuovo gruppo. Parto sempre dai musicisti, sono le fondamenta. Assemblato il gruppo, comincio a comporre per quel gruppo specifico. Le fasi si susseguono: rencontres con nuovi musicisti che conducono a nuovi gruppi e a nuovi repertori. Ma i rencontres mi dicono anche con chi non voglio suonare. Poi ci sono altri tipi di incontri. Nella mia carriera ho avuto l’opportunità di incontrare tantissimi musicisti con i quali ho suonato una volta sola, due o tre al massimo. Mi capita ancora oggi. Quelli sono incontri fugaci, una parte integrante di questa musica. Per esempio, l’incontro con l’Horn Trio di Federica avrebbe potuto restare un unicum, invece ha dato il via a una collaborazione che ci ha condotti fino al quartetto di «Afternoons».

Quattro anni fa, dopo la pubblicazione di «Characters on a Wall», aveva lasciato intendere che il percorso con il quartetto di quel disco non era ancora terminato, che bastava trovare un nuovo soggetto per rimettersi in marcia. Si direbbe che l’abbia trovato perché in questo periodo è tornato a lavorare con quei musicisti ai quali si è aggiunto il trombettista Olivier Laisney. Trovo curioso l’arrivo di Laisney, classe 1982, animatore del collettivo Onze Heures Onze, leader vicino alle teorizzazioni ritmiche di Magic Malik e Stéphane Payen. Un ingresso stimolante?
Non c’è dubbio. Anzitutto desideravo continuare a lavorare con Benjamin Moussay, Sarah Murcia e Christophe Lavergne. Ho ribattezzato il quintetto India, per fare eco al mio primo gruppo da leader, il quartetto di «Chine». L’ingaggio di Olivier mi ha costretto a ripensare la musica in modo sensibilmente diverso, stimolandomi a intraprendere un altro sentiero rispetto al precedente, culminato con «Characters on a Wall». Senza Olivier non avrei scritto diversamente, è stato un ingresso benefico per l’intero ensemble. Ma siamo ancora in una fase iniziale del lavoro. A settembre abbiamo suonato ai Rendez-vous de l’Erdre e a ottobre al Triton di Les Lilas, a Strasburgo e all’Opéra di Lione.
A febbraio ha compiuto settant’anni. Considerando la sua attività, non è ancora «tempo di bilanci», però le andrebbe di ricordare dei momenti in cui si è detto che la direzione imboccata era quella giusta?
Capisco cosa intende, ma nel mio caso sarei più propenso a parlare di fasi, di tappe, più o meno lunghe. Ce ne sono state tante e hanno avuto tutte uno stesso obiettivo: spingermi a esplorare la musica sotto un’angolatura diversa.
Ne ricorda qualcuna in particolare?
Quando decisi di diventare leader, dopo aver vissuto esperienze fortemente collettive. Sentivo l’esigenza di misurarmi con me stesso, di provare a vedere se ero in grado di comporre da solo e, se questo fosse accaduto, di approfondire la composizione. Accanto a questa volontà ce n’era un’altra: affermarmi come leader e quindi tentare di dare una direzione ben precisa a un gruppo. In quella fase ho esplorato aspetti che fino ad allora mi erano sconosciuti. Più di recente, direi nell’ultimo triennio, ho deciso di abbandonare il sassofono e di dedicarmi interamente al clarinetto e al clarinetto basso. Scelta che mi consente di scavare tutti i tipi di musica con un solo strumento. Non ho mai compiuto svolte radicali, virate improvvise. Ho quasi sempre proceduto per gradi.

Forse l’interesse per l’immagine rappresenta la costante di tutte queste fasi?
Mio padre era un fotografo, perciò mantengo da sempre un rapporto abbastanza stretto con le immagini, soprattutto con la fotografia. Ho composto per il teatro, per la danza e, con frequenza abbastanza regolare, per il cinema. La mia duratura collaborazione con Guy Le Querrec è cosa nota. Assieme abbiamo realizzato diversi concerti con immagini. Sono molto contento di aver instaurato un rapporto con i lavori di Ernest Pignon-Ernest, che, per «Napoli’s Walls», sono stati una fonte di ispirazione diretta. L’ultimo disco che ho inciso, «Les cadences du monde», dipendeva indirettamente da un libro del fotografo Frédéric Lecloux, un omaggio fotografico a L’usage du monde, racconto di viaggio dello scrittore svizzero Nicolas Bouvier. In questo caso, non mi sono ispirato direttamente a una foto specifica. Una volta terminato di scrivere, sono tornato al libro di Lecloux per immaginare dei fili conduttori. A seconda del progetto, l’ispirazione visiva può essere diretta o indiretta, più vicina o più lontana.
Le piace sempre fotografare?
Sì, anche se in questo periodo non ho un soggetto a cui dedicarmi. La fotografia è una passione che continuo a coltivare. Ho esposto delle foto qualche volta ma non pretendo di essere un fotografo. Un vero fotografo, al pari di un vero musicista, pensa alla sua forma di espressione ventiquattro ore su ventiquattro, trecentosessantacinque giorni l’anno.
Oltre al quintetto India, su quali altri gruppi si sta concentrando?
Il percorso con il quartetto di «Les cadences du monde», composto dai violoncellisti Bruno Ducret e Annabelle Luis, e da Keyvan Chémirani alle percussioni, prosegue davvero bene. Mi auguro di poter continuare a suonare con loro perché mi danno grandi soddisfazioni. India e Les cadences sono i gruppi più importanti a mio nome. Seguono gli inviti e le partecipazioni a gruppi di altri leader, come il quartetto di Federica. Collaboro pure con Andy Emler, con dei musicisti belgi, rumeni e con un altro musicista italiano, Federico Marchesano.
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