Jon Balke: un architetto dei suoni

Il poliedrico pianista e compositore norvegese festeggia il sessantesimo compleanno con un nuovo album che svela un nuovo lato della sua attività

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Jon Balke

Iniziamo dal tuo nuovo album, «Warp», e in particolare dall’idea di richiamare alla mente i suoni della città.
Ho sempre prestato attenzione ai suoni di tutti i luoghi in cui mi trovo, anche per il fatto che viaggio a lungo: aeroporti, le strade della città, centri commerciali, le voci e le radio che provengono dalle case, e così via. Ho voluto inserire tutto questo mondo nel mio pianoforte, per raccontare la quotidianità.

Quali strumenti hai utilizzato per evocare queste sonorità?
Ho usato varie tastiere, campionatori, sintetizzatori, macchinari vari ed effetti. In più, registrazioni in presa diretta in luoghi particolari.

Cosa vorresti «distorcere», «curvare»?
Personalmente non voglio piegare o distorcere nulla, ma penso che la realtà sia distorta costantemente: dalla nostra stessa coscienza, da ciò che sentiamo dalle altre persone e così via. L’artista è altresì distorto dai mass media per gli ascolti. E le programmazioni dei media distorcono l’immagine dell’artista: lo piegano alle loro esigenze. Ci sono veramente pochi posti nell’attualità dove si può incontrare la realtà e la verità.

Hai tratto ispirazione da altri pianisti che avevano sviluppato lo stesso percorso?
Non esattamente. Conosco molte persone che hanno sperimentato con l’elettronica e con strumenti acustici, ma non mi sono rifatto esattamente a loro in questo progetto.

A tale proposito, puoi dirci come è nata l’idea di questo progetto?
Ho lavorato per diverso tempo con ciò che chiamo architettura del suono. Sono affascinato dalla psicologia dello spazio. Da ciò che inconsciamente avvertiamo quando entriamo in una stanza o nello spazio di una città. Potremmo perderci in altri pensieri ma la sensazione che trasmette un luogo specifico ci tocca inesorabilmente.

Possiamo definirlo un album di solo piano?
Penso proprio di sì. Tutti i suoni sono nello spazio che ci circonda, e dietro a essi il solo pianoforte.

 

Ci sono influenze di musica classica che padroneggi perfettamente, come in Bucolic.
A un certo punto della mia vita ho iniziato ad ascoltare con attenzione i pianisti classici, specialmente i grandi interpreti di Bach come Glenn Gould. Ma chi mi ha veramente colpito è stato Ivo Pogorelich, che è diventato oggetto dei miei lavori, per la sua incredibile precisione artistica e il controllo delle dinamiche e del tempo.

A un ascolto più attento, il tuo disco potrebbe essere un’eccellente colonna sonora di un film. Inoltre, vi è un brano esplicito in tal senso: There Is The Movie. Quale trama potrebbe avere un film con la tua musica?
Il brano di cui parli, in realtà, è stato scritto in origine per musicare un testo di Sidsel Endresen dallo stesso titolo. Ma volevo che gli ascoltatori si immaginassero un film: il loro film personale. Quindi non posso dire di quale film si tratti: chiudi i tuoi occhi, ascolta la musica e immagina il tuo film.

Per poter eseguire dal vivo il tuo lavoro avrai bisogno di una sala particolare, con specifiche caratteristiche. Qual è la situazione ideale per eseguire «Warp»?
Penso che possa essere eseguito in diverse ambientazioni e l’ho sperimentato già qualche volta in una chiesa e in una piccola sala, per esempio. Un buon pianoforte e quattro canali su un impianto audio è tutto ciò di cui ho bisogno.

È una sfida suonare in piano solo?
È un viaggio solitario. In gruppo suoniamo le nostre idee che possono essere in contrasto le une con le altre, come se fossimo dei calciatori. Suonando da solo si ha un’unica opportunità, senza possibilità di vedere coperto un tuo errore da un altro compagno. Il vantaggio è che tu puoi sfruttare quest’opportunità ovunque tu voglia andare: in campagna, in città, a mare…

Ci dici qualcosa sul progetto Jøkleba?
Jøkleba ha compiuto venticinque anni. Con Per Jørgensen e Audun Kleive ci siamo subito piaciuti e abbiamo voluto esplorare insieme una musica senza porci limitazioni. Fin dal primo momento, abbiamo iniziato a salire sul palco senza decidere in precedenza cosa suonare. Il rischio di fare delle cose stupide e maldestre ci ha messo nelle condizioni di suonare sempre al meglio delle nostre possibilità! E abbiamo cercato sempre di mantenere questa energia andando sempre alla ricerca di nuove situazioni e senza avere un programma concordato a priori.

Jøkleba con Per Jørgensen – tromba, voce, percussioni, flauti; Audun Kleive –percussioni; Jon Balke – piano, tastiere e percussioni

Sei anche un eccellente fotografo. Secondo te, è la musica a influenzare la fotografia oppure è il contrario?
È bello avere un hobby. Ho iniziato con la fotografia quando ero ragazzino, sviluppando le pellicole nella mia camera oscura. Così, immagino che sia stato questo che mi abbia dato l’abitudine a cercare un angolo, una macchina fotografica ovunque mi trovi. Quando sei in tour come musicista, nelle autovetture, negli aeroporti, negli alberghi e in città straniere, è una benedizione avere qualcosa da fare: andare in giro in nuovi posti e guardare le luci, le forme, i colori.

La tua musica crea paesaggi, gli stessi che immortali nelle tue foto. Ma sembra che tu abbia deciso di non ritrarre le persone. Hai mai pensato di dedicare un disco a qualcuno?
Una dedica esplicita è una questione strettamente privata, mentre voglio che i miei dischi appartengano a chiunque si interessi alla mia musica. Certo, potrei ritrarre esseri umani ma penso che in questo campo si debbano avere certi doni: essere capaci di far sentire le persone a proprio agio e rilassate, e sapersela cavare da professionisti. Se avessi questi doni… Chissà, forse un giorno…

Qual è il ruolo che attribuisci all’elettronica nel tuo lavoro di musicista?
A suo tempo, quando usavo l’elettronica mi annoiavo. Quelle sonorità mi risultavano rigide e faticose all’orecchio. Ma nel corso degli anni Novanta, con il progresso della tecnologia, rimasi affascinato dalla possibilità di creare dei suoni nuovi che gli strumenti acustici non potevano riprodurre. Così ho deciso di buttarmi, e oggi questo viaggio mi diverte moltissimo.

E quanto è importante l’apporto dell’elettronica nell’improvvisazione?
L’elettronica è una cosa differente quando si improvvisa. Con il pianoforte ho un riflesso intuitivo che segue l’idea e direttamente si protrae nello strumento. Con l’elettronica l’approccio è differente e più lento, ma lavoro un sacco per renderlo il più intuitivo possibile.

Vuoi parlarci dei tanti collettivi dei quali fai parte? Ne cito alcuni: Batagraf, Magnetic North Orchestra, Siwan.
Sono tutti progetti differenti. L’unico collettivo vero e proprio è Batagraf, un gruppo di percussionisti che segue una differente via per allargare il ritmo, suonando grooves ma sempre cercando il modo più organico nel farlo: un ritmo elastico, più umano. La Magnetic North Orchestra lo è assai meno, perché si basa sulle sonorità individuali dei partecipanti. Nella Magnetic, composizione e improvvisazione si integrano. E lo stesso discorso vale per Siwan. Scrivo alcune idee per il gruppo, loro prendono le idee e le modificano, le piegano fino a trasformarle in qualcosa di nuovo.

Hai saputo fondere musica, danza, poesia e le tradizioni di diversi paesi, come a voler unificare l’arte e le etnie.
Penso che la creatività umana sia senza fine. Noi dobbiamo solo cercare il modo di svilupparla e farla conoscere. È questo il nostro dovere.

Ritieni che la tua musica abbia subito qualche influenza dalla tradizione norvegese?
Sono cresciuto ascoltando le nostre melodie melanconiche. Tutto questo è parte di me e non posso liberarmene. Ma non voglio neanche farlo.

Chi sono stati i musicisti più importanti nei tuoi anni formativi?
Senza dubbio Miles Davis, Thelonious Monk, Paul Bley, Lennie Tristano, Ornette Coleman. Ma potrei andare avanti all’infinito: la lista è molto lunga.

Quali sono i tuoi progetti futuri?
Sono appena stato in India a lavorare su un interessante progetto con la danzatrice Sudesh Adhana. Abbiamo cercato di applicare l’antica forma di danza Kathakali alle tragiche vicende attuali, tra ostaggi e terrorismo. A settembre ci esibiremo a Oslo per poi proseguire nel resto dell’Europa e tornare in India. E vorremmo anche aprire un nuovo capitolo del progetto Siwan.

Alceste Ayroldi