«The Princess Theatre». Intervista a Vanessa Tagliabue Yorke

Nuovo disco e nuove avventure musicali per una delle cantanti e autrici più originali della scena italiana.

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Vanessa Tagliabue Yorke © Roberto Cifarelli

Buongiorno Vanessa, inizierei con il titolo del tuo ultimo disco «The Princess Theatre». Tra l’altro, non troviamo alcun brano eponimo nel disco. Qual è il suo significato/messaggio?
Credo che dopo la rivoluzione concettuale di Marcel Duchamp si sia posta una straordinaria attenzione sulla natura e sul destino dei potenziali titoli per le opere degli artisti. Il titolo fa parte dell’opera e ne amplia il raggio di indagine. Scegliere un titolo concettuale è un atteggiamento che ormai siamo soliti adottare senza pensarci, ma che allorquando ne siamo consapevoli e lo usiamo coerentemente porta con se un sottotesto: ci si sta inoltrando nel terreno pretenzioso dell’invenzione e si intende rielaborare un linguaggio anziché reiterarlo. Ho preso spunto dall’intimità di una certa produzione di Jerome Kern che era nata nel teatro Princess di New York, un teatro molto piccolo che lo aveva costretto a ragionare su arrangiamenti sintetici ed efficaci, esattamente come io sono stata costretta dai lockdown e dalle restrizioni del mio tempo e ho messo in discussione il mio linguaggio. Questo titolo mi ha dato anche una evocativa chance di autorappresentazione consentendomi la licenza poetica di giocare su un ideale «Teatro della Principessa Vanessa», liberando quindi il mio immaginario interiore fatto di emozioni stratificate, immagini solo mie cristallizzate in elementi musicali che mi ossessionano, coinvolgendo musicisti specifici che incarnano per me la sintesi di un atteggiamento ideale, elegante, virtuoso ed opalescente.

L’inizio con A Flower Is Lovesome Thing di Billy Strayhorn è sognante, fiabesco e gli fa eco I’ve Stolen a Dream, a tua firma. Poi, già con I Cover The Waterfront c’è un cambio di colori, anche nella tua voce. Come hai concepito la scaletta dei brani?
La mia idea di esperienza di ascolto, per questo disco, è stata fin dall’inizio di creare una specie di sipario che potesse schiudere ad un mondo intimo e potente, così ho immaginato che l’ascoltatore dovesse addormentarsi nelle prime tracce e ritrovarsi del tutto inerme a girovagare per i sentieri dell’inconscio lasciando che le sue visioni si liberassero sotto forma di fantasmi, ombre, paure, passioni, insicurezze, sogni, luci, permeabilità sensuali, emergenze mnestiche. Sogni e incubi nei quali io non lascio l’ascoltatore da solo, gli permetto di aggrapparsi alla mia voce come se fluttuasse su una striscia di arcobaleno assolutamente certo di essere al riparo da ogni male, come ogni voce potrebbe e dovrebbe fare, come fanno le voci che piacciono a me. Così, cullato nel sonno, l’ascoltatore si ritrova in un concerto live dove eseguiamo alcuni brani che sono degli standard e alcuni brani originali, tutti scelti per evocare dei mondi interiori. Il mio timbro cambia colore perché attraversa la diversificazione emozionale del viaggio al quale io sottopongo chi mi sta ascoltando. La mia voce non ti lascia mai, fa quello che tu non potresti fare e lo fa senza fatica oppure con dolcezza, ti mostra la sofferenza ma poi si risolleva e riprende il canto con maggiore brillantezza, combatte con il destino e sorride con amore per poi tacere e attendere che quell’amore sia restituito.

Un disco totalmente differente rispetto al tuo precedente «Diverso, lontano, incomprensibile», dove hai sperimentato percorsi sonori e vocali. E’ un’evoluzione, un cambio di direzione? Come si inserisce nel tuo percorso artistico?
«Diverso, lontano, incomprensibile» è stato fino ad ora il mio lavoro più visionario e più sofferto. E’ stato un disco di definizione (l’ho capito soltanto dopo) di un colore e di una preferenza per certe caratteristiche armoniche e melodiche, ritmiche, timbriche ed emotive che ancora adesso rappresenta bene la mia sensibilità. Mi ha indicato la strada, oppure me la sono indicata io, comunque ora vedo che sto proseguendo su quel tracciato soltanto che lo sto facendo da un punto di vista differente. Chris May ha detto che mi sono inserita in un genere che si può definire art music e Paolo Birro era molto favorevole infatti mi aveva detto: «potresti farne un tuo marchio». Questa idea mi aveva affascinato enormemente ma poi io però di fronte all’urgenza espressiva in fondo me ne frego della coerenza e vado soltanto dove ho voglia di andare, senza limiti predefiniti. Ricordo che all’accademia di belle arti avevo visto un professore reiterare delle strisce rosse nelle sue installazioni affinché fossero il suo marchio: in quel preciso istante, cioè quando mi è stato detto che l’artista contemporaneo deve essere riconoscibile io mi sono sentita oppressa da un sistema e sono andata a studiare regia alla scuola di cinema. «The Princess Theatre» è una riflessione sulla forma canzone, dove però io ho usato la mia palette di colori e di timbri, i miei testi con le immagini che occupano i miei sogni. E’ la stessa palette che ritrovi in certi tratti del disco precedente solo che l’ho usta per disegnare qualcosa di diverso dai paesaggi sterminati che c’erano in “Diverso Lontano Incomprensibile”, qualcosa di veramente intimo, perché oggi è un altro momento: un momento in cui si riflette su due piccole cose che sono andate in crisi nel modo più assoluto e devastante: Io e Noi.

Vanessa Tagliabue Yorke
Vanessa Tagliabue Yorke ha incantato con la sua estensione vocale ed espressività.

E’ un disco intimo, non solo perché sei accompagnata solo da Paolo Birro, fatta eccezione per due brani in cui è ospite Fabrizio Bosso, ma per la resa sonora del disco: caldo e vibrante. Perché hai voluto fare questa scelta?
Non è stata una scelta. E’ una forma necessaria, la forma propria del suono che si è definito da solo, nel corso degli anni, contestualmente alla pratica musicale condivisa che è intercorsa tra me e Birro attraversando repertori di ogni genere e giocando con diversi materiali sonori. Io quando canto con lui ho questo suono, e volevo rendere un omaggio discografico a questa nostra collaborazione così significativa per me nella quale mi sento così libera di essere me stessa e di non fare strisce rosse. Inoltre mi identifico tantissimo nel suono della tromba di Fabrizio, perché ha tutti gli elementi che io stimo in un solista e credo che timbricamente appartenga allo stesso mondo nel quale io ho forgiato il colore del mio strumento, quindi l’ho invitato per creare una connessione immaginativa ulteriore di questo viaggio iridescente.

Troviamo diverse tue composizioni in questo disco. Le hai concepite appositamente, oppure sono il frutto di un lavoro iniziato in precedenza?
Non le ho concepite appositamente, il disco è nato dopo avere raccolto i frutti. Da tanto tempo, praticamente nei due anni appena trascorsi io stavo ragionando su varie formule di ricostruzione estetica dei materiali che mi piace usare, e lo stavo facendo in modo non sistematico, perché io scrivo canzoni e musiche di vario tipo che poi lascio li da qualche parte e non pubblico, fino al momento in cui mi accorgo che sono coerenti tra loro in qualche modo. C’è stata una convergenza di fattori, l’occasione di un concerto live in un posto adeguato, il ripensare a alcuni brani che avevo iniziato ad incidere nello studio di Stefano Stefanoni che è un ricercatore sonoro molto talentuoso e la voglia di costruire un nuovo percorso con le caratteristiche che ho raccontato.

Sei autrice dei testi e compositrice delle musiche. Nella tua fase compositiva, i testi fanno da traino alla musica o viceversa?
Succede di tutto, non c’è una regola. Un giorno di dieci anni fa mi trovavo nell’ascensore della sala Sinopoli all’Auditorium Parco della musica di Roma e un certo timbro di risonanza del vano mi ha fatto cominciare una melodia che a voler guardare è il brano Mlyana del disco «Diverso Lontano Incomprensibile», ho soltanto dovuto aggiungere un testo arabo e fare un arrangiamento. Magari a tarda notte sono li a casa che guardo il muro e penso a delle cose, e scrivo un testo, poi accendo il registratore e provo a cantarlo, e si crea un oggetto che sta in piedi di per se, e che contiene già una sua struttura. Oppure prendo una poesia e la canto, come è il caso del brano Aedh Wishes For The Cloths Of Heaven (in The Princess Theatre) in cui ho improvvisato la melodia cantando insieme alla tromba di Fabrizio, e poi soltanto dopo ho fatto le armonie vocali che sostengono entrambi. Però c’è una cosa da dire, io parto sempre dalla melodia o dal testo, non dall’armonia, perché come dice Paolo Birro, è il terreno che frequento maggiormente essendo una voce. La sfida che mi sono trovata a lanciare a me stessa è quindi immaginare melodie che contengano una indicazione dell’armonia in se stesse invece di, per esempio, scrivere una melodia e poi appiccicare su degli accordi che la riarmonizzano in base a un gusto o a un genere musicale.

Vanessa Tagliabue Yorke © Roberto Cifarelli

Perché hai scelto proprio questi standard?
Rappresentano per me dei punti di altissimo rilievo nell’arte compositiva, sono brani dalle soluzioni inusuali oppure hanno melodie e armonia così belle da emanare una luce eterna, in alcuni casi hanno testi straordinari, e in altri casi hanno testi inefficaci che ho preferito rifare da capo per restituire la musicalità dei temi in modo più intenso, come è il caso di Too young to go steady. Su questo brano ho deciso di sgomberare il campo e concentrarmi sul modo in cui John Coltrane pronuncia questo tema quando lo esegue nel disco “Ballads”, ogni parola che ho usato è il mio modo di restituire il suono di Coltrane sulla pronuncia del tema. Lo stesso procedimento immersivo ho adottato per scrivere un testo dove non c’era, ossia sul brano di Strayhorn Ballad For Very Sad And Very Tired Lotus Eaters identificandomi con il suono del sax di Johnny Hodges.

Fra i tredici brani, a un certo punto fa capolino Notturno di Maurizio Fabrizio, la cui interpretazione di Mia Martini è sicuramente da ricordare. Perché hai scelto questo brano?
Anche nella musica italiana ci sono esempi di composizione elegante per quanto “leggera”. La nostra espressione musicale non è solo commerciale o cantautorale. Sembra quasi che ci siamo dimenticati come parecchi compositori esimi abbiano regalato al repertorio italiano alcune perle. Anche noi abbiamo i nostri piccoli Gershwin e i nostri Cole Porter, solo che si chiamano Giovanni D’Anzi, Carlo Alberto Rossi, Maurizio Fabrizio, Umberto Bindi, Bruno Canfora…

Parliamo del tuo connubio artistico con Paolo Birro.
In fondo ne ho già parlato, qui potrei solo esagerare! Come direbbe lui, che è sempre così modesto e schivo, ma che per me è uno dei più grandi pianisti italiani, con una eleganza unica e una naturale tensione verso la ricerca, sempre intenso, sempre appassionato.  In una intervista lui ha detto che si sente libero quando suona con me. Per me è lo stesso, mi piace questa dimensione che si è instaurata nel corso del tempo, mi ha fatto crescere molto, perché mi spinge a perfezionare sempre il mio modo di fare le cose. Mentre io canto succedono cose sempre nuove che lui si inventa in quel momento, è davvero bello. Se c’è una cosa che non mi stimola è la reiterazione delle forme. Farei la cantante pop se non fosse così. E c’è una cosa che lui fa a differenza di quasi tutti gli strumentisti: ascolta e ricorda che cosa dice il testo dei brani. E’ importante saperlo, non puoi eseguire I’ll Get Along Without You Very Well senza sapere di cosa parla: questo brano di Carmichael se consideri il titolo e basta puoi rischiare per esempio di suonarlo come se fosse una revenge song, esprimendo: «arrangiati! Io me la cavo senza di te!!» Invece il testo poi ti dice «si, starò bene… eccetto quando sento i tuo nome oppure quando cade la pioggia e mi ricordo la sensazione di essere protetto dalle tue braccia…starò bene…eccetto in primavera, dove mi si spezzerà il cuore». Mi piace scoprire ogni volta cosa può succedere a un brano. Io a volte mi adeguo a quello che lui fa e modulo la mia vocalità sugli stimoli che arrivano dalle sue invenzioni sonore, altre volte prendo il timone e vado da una parte che scelgo io, e lui mi segue amplificando la mia intenzione. Se io mi fermo e creo una sospensione ci fermiamo e guardiamo insieme il vuoto.. ma a volte io mi fermo perché ho capito che lui il vuoto l’ha visto arrivare per primo!

Vanessa, tu sei scultrice e pittrice, oltre che musicista. C’è un ordine di priorità che dai alle tue attività artistiche? Interagiscono tra loro?
Sono tutte confluite nella mia attività musicale, anche se qualche volta emergono autonomamente e faccio ancora qualche scultura perché ne ho voglia. Ultimamente ho finito però per creare dei vasi di terracotta concepiti per trasmettere la mia musica.. quindi difficile tenere a bada la mia magnetica attrazione verso il suono.

Vanessa Tagliabue Yorke © Roberto Cifarelli

Ti sei mai cimentata nella scrittura letteraria? Intendo romanzi, racconti, novelle.
Sì, mi sono laureata alla Nova Accademia di belle Arti di Milano dove ho studiato con Giancarlo Majorino. Scrivevo e scrivo poesie, ho vinto qualche piccolo riconoscimento che non ho pubblicizzato.. le lascio nel mio famoso cassetto per il momento in cui avrò voglia di usarle… Adesso sto scrivendo un romanzo che nessuno leggerà. In passato è stato pubblicato il racconto fantastorico che è allegato al disco «Bix Factor» di Mauro Ottolini Sousaphonix con cui per dieci anni ho collaborato strettamente e scritto molto, inoltre ho contribuito a scrivere il racconto allegato al suo disco «Heaven Sent» anche se non c’è nel credito per un errore di stampa. Nell’editoria italiana penso ci sia tanta gente incapace che scrive a ruota libera, scrivono così tanto e leggono così poco e vengono pubblicati perché la loro faccia ha già un pubblico che se lo beve e che vuole il feticcio con la loro foto in copertina sperando di scoprire elettrizzanti retroscena delle loro vite private. Io siccome non mi sento all’altezza di Dostoevskij e non prendo sul serio la mia arte letteraria non ho mai tentato di pubblicare nulla, scrivo perché mi diverte e mi svaga, poi ho una forma mentis ecologica, odio gli sprechi di carta.

Nella tua discografia è ben presente la Francia. C’è qualcosa in particolare che ti lega alla chanson française?
Mia Nonna Rita. Lei era una indossatrice di moda nella Milano dei secondi anni Quaranta, di origine veneta immigrata in Francia nel 1932 circa venne notata per la sua straordinaria bellezza e per l’eleganza del suo portamento. Entrò nell’atelier Marucelli dove conobbe parecchi artisti che disegnavano gli abiti che lei avrebbe indossato. Non parlava solo in italiano, parlava in francese, ascoltava la radio e la televisione francese, aveva otto sorelle e fratelli francesi molti dei quali ho conosciuto, unitamente a prozii, cugini di terzo grado e storie simili. Andavo ad Avignone da piccola, cantavo le canzoncine francesi per bambini camminando in campagna e guardando il ponte romanico costruito sul Rodano.

In generale, mi sembra che tu sia legata alla struttura della canzone, indipendentemente dalla lingua. Hai anche un buon rapporto con il cantautorato italiano: penso al tuo lavoro su Guccini, così come la tua collaborazione al Club Tenco di Sanremo. Pensi che la struttura della canzone sia quella che tramette più emozioni?
No, non lo penso. Io penso che la musica si la struttura del mondo, l’essenza del mondo come forse direbbe Mahler. Il mondo se pensiamo in senso hegeliano è qualcosa di cui noi possiamo appropriarci tramite il linguaggio, che lo comprende, lo circoscrive o lo amplia e lo definisce o lo distrugge, lo struttura… Che cosa è la musica se non una intenzione e cos’è il linguaggio? Per me il linguaggio è una serie di intenzioni che determinano relazioni tra eventi. Può essere una forma canzone, oppure può essere una composizione spettrale francese degli anni settanta, ma io assorbo una pura intenzione e la vivo, nell’ascolto, posso raggiungere mondi e relazioni che trascendono la mia soglia. Certo il compositore esperto sa quale struttura meglio si concilia con i mondo sonoro che vuole evocare, e con il sistema relazionale che ha intenzione di mettere in gioco. Se parliamo di Guccini parliamo di una superba arte della cristallizzazione di sentimenti e immagini, siamo su un piano meno astratto rispetto a quello di partenza, per il quale io ho posto un orizzonte, siamo su un piano colloquiale descrittivo. La forma canzone non si applica strettamente al cantautorato, che invece secondo me è più vicino al flusso di coscienza, specie nel caso di Dylan e in questo caso, di Guccini. Questo flusso di immagini e parole configura una presa di coscienza immersiva progressiva e specifica: è come guardare un film, conoscere le sfaccettature dei personaggi, i colori dei paesaggi e c’è una storia che si sviluppa. Mentre ascoltare Les Espaces Acoustiques è per me come contemplare una montagna e provare una sensazione sublime.

Vanessa, qual è il tuo giudizio sullo stato dell’arte in Italia, dal punto di vista economico-politico-sociale?
I soldi che servono per sostenere una cultura profonda delle pratiche artistiche vengono perlopiù dirottati in vario modo e sprecati in progetti ambiziosi che sono come un coperchio su una pentola vuota. C’è a mio avviso un atteggiamento globalizzante in Italia, e apprezzo enormemente quelle esperienze di ripensamento dei confini estetici che attecchiscono nella cosiddetta arte pubblica. C’è una bella mostra in questo momento La natura e la preda – Storie e cartografie coloniali che è una collettiva e si trova a PAV di Torino, a cura di Marco Scotini. Riflettere su una estetica della violenza in un momento come quello che stiamo passando è molto saggio. Per esempio rappresentare la “bestia” domata e uccisa rendendo la battuta di caccia una “impresa eroica” è qualcosa che vediamo ancora oggi senza saperlo, è funzionale metafora esotizzante dell’assoggettamento delle popolazioni più deboli, nemiche o che ci fa comodo dominare. L’arte italiana è ancora in grado di riflettere, solo servono gli spazi adatti e deve essere concesso anche all’arte di entrare nella case delle persone, non di sola spazzatura vive l’uomo.

Vanessa Tagliabue Yorke © Roberto Cifarelli

E quello del jazz, in particolare?
Il jazz subisce lo stato delle cose, come tutto. Anche se è così nessuno potrà mai soffocare le voci di quelli che fanno jazz con un atteggiamento di vera ricerca e di profondo amore per questo linguaggio. Ci sono tante persone che non vengono a compromessi, che scrivono, cantano, suonano e se ne fregano delle mode, e della politica, e se ne fregano di invitare il musicista pop decaduto di un talent a fare la comparsata per attirare più pubblico (dato che quello non decaduto costerebbe troppo). C’è della gente che non sente il bisogno di creare progetti ad hoc in cui inviti quello che poi ti fa guadagnare punti anche se è un cartone. Tutta questa moltitudine di gente è il jazz, quelli che sanno cos’è e che lo rispettano, quelli che sanno che il jazz è il linguaggio di un popolo vituperato e autoaffermatosi individualmente per ricostruire una identità collettiva accogliendo le diversità e riaffermandole arbitrariamente, riguadagnando quella dignità che era stata negata, loro sono il jazz. Tutti gli altri sono il sistema.

Chi è il compositore che apprezzi maggiormente?
Temo di avere una decisa predisposizione verso i compositori francesi del Novecento come Satie, Debussy e Olivier Messiaen e Grisey. Però io ascolto spessissimo Mahler, e anche Shostakovich. Sebbene io sia specialista delle forme primigenie del jazz alla fine quando scrivo non si sente, anzi emergono questo tipo di immagini. Io certe volte ascolterei per delle ore la Cathédrale Engloutie di Debussy. Se intendi quale compositore di jazz io ho una passione enorme per Carmichael, Strayhorn, Ellington e Cole Porter.

L’ultimo libro che hai letto (o stai leggendo)?
Ultimamente Paolo Birro mi ha regalato la biografia di Cole Porter scritta da William McBrien, intanto sto sbirciando L’interpretazione dei Sogni di Freud e Lingua Coreana 1 di Andrea De Benedittis: sono molto disordinata nelle mie letture. A volte sono inconcludente e passo da una cosa ad un’altra. Se mi capita sotto un manuale dei funghi parassitoidi magari finisce che mollo tutto e mi immergo in un approfondimento inutile di come la formica possa finire a crepare sulla punta più alta di un ramo di sequoia perché il cordiceps unilateralis le ha attaccato il cervello. Ma poi torno sui miei passi e qualcosa alla fine imparo, lentamente…ci vuole pazienza con me.

Cosa è scritto nell’agenda di Vanessa Tagliabue Yorke?
Ho appena finito la settimana più dura dell’anno perché ho fatto un dopo l’altro alcuni concerti di grande coinvolgimento emotivo e intellettuale per me, ci ho lavorato per sei mesi. Ho iniziato con la presentazione di «The Princess Theatre» a Mantova, nei Giardini Valentini il 26 Giugno poi sono subito approdata a Pordenone dove il Teatro Verdi di Pordenone, una realtà intellettualmente e creativamente all’avanguardia, ha organizzato sotto la direzione artistica di Francesco Bearzatti, una rassegna dedicata alla new wave del jazz europeo che si chiama Open Jazz dandomi la possibilità finalmente di portare sul palco del Teatro Verdi tutta la mia Yorkestra al completo, quella del disco “Diverso, Lontano, Incomprensibile” (Ed. Artesuono 2020): Vanessa (voce, arrangiamenti e composizioni originali), Paolo Birro (piano), Francesco Bearzatti (clarinetto e sax), Michele Rabbia (elettronica e drums), Enrico Terragnoli (banjo e guitar), Emanuele Parrini (violino), Paolo Botti (viola), Salvatore Maiore (Cello) e Giovanni Maier (contrabbasso). Poi sono subito volata a Sanremo dove la Fondazione Orchestra Sinfonica di Sanremo mi ha coinvolto nella progettazione di uno spettacolo assolutamente inedito con arrangiamenti scritti appositamente per me (da Walter Sivilotti) per ripercorrere una ricerca di qualità all’interno del repertorio dimenticato della grande canzone transitata sul palco di Sanremo dal 1951 ad oggi. Mi hanno dato carta bianca per scovare delle composizioni eleganti e ricche di valore artistico/letterario/musicale e ristabilire un criterio estetico. Adesso devo seguire gli esami del corso di canto jazz al conservatorio di Udine, dove sto insegnando al momento, e poi ci sono altri concerti e nuove avventure!
Alceste Ayroldi

Intervista pubblicata sul numero 861 di Musica Jazz (agosto 2022).