Quanto Tempo! Intervista a Marisa Monte

La grande cantante brasiliana è, da sempre, un’autentica esploratrice: innamorata del passato ma proiettata verso il futuro. In occasione del suo ritorno in Italia, dove ha vissuto qualche anno fa, le abbiamo chiesto di raccontarsi.

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Foto di Leo Aversa

La storia musicale del Brasile è costellata di artisti maiuscoli, che hanno contribuito non solo allo sviluppo della musica brasiliana, ma a quella dell’universo della popular music. Sciorinare nomi è pleonastico: moltissimi sono ben noti a tutti, perché hanno disegnato delle melodie immarcescibili e condiviso la bellezza del ritmo latino in tutto il mondo.
Marisa Monte appartiene a questo ampio novero di musicisti, di quelli che travolgono per creatività, bellezza della musica, e una voce ammaliante. Voce, è bene dirlo subito, che ha studiato canto lirico, anche in Italia, a Roma per l’esattezza, quando era appena maggiorenne. In realtà, il nostro Paese è presente da sempre nel codice genetico della vocalist brasiliana, visto che il padre Carlos ha radici italiane. Con ogni probabilità, è proprio a Roma che la sua carriera trovò una strada diversa dal Belcanto, visto che fu in un locale di Trastevere, dove si esibiva saltuariamente al fianco del pianista italo-brasiliano Jim Motta, che fu notata dal giornalista e produttore discografico Nelson Motta, che lavorava per la celebre Rede Globo. Nel 1988 arriva il suo primo lavoro discografico «MM», pubblicato dalla EMI, che contiene il brano che la consacra al grande pubblico, anche italiano: Bem que se quis, con tanto di videoclip seppiato che rende il tutto più affascinante. Si tratta della versione in portoghese di E po’ che fà di Pino Daniele, che è la punta di diamante di un disco fatto di cover pop-jazz-soul e brasilian music; brani riletti con autorevole personalità. Di qui in poi, la carriera di Marisa Monte è puntellata di successi e di collaborazioni importanti: già con la prima si confronta con la genialità di Arto Lindsay, che produce «Mais» (1991). Qui la Nostra esordì come compositrice e iniziò la sua collaborazione con Arnaldo Antunes e con Nando Reis. A incorniciare un album per lo più di inediti, troviamo Ryūichi Sakamoto, John Zorn e Marc Ribot. Nel 1994 arriva «Verde, anil, amarelo, cor-de-rosa e carvão», al fianco della Monte si schiera il gotha della creatività musicale contemporanea: Philip Glass, Bernie Worrell, Gilberto Gil, Paulinho da Viola, Laurie Anderson e Naná Vasconcelos.
La poliedria dell’artista di Rio de Janeiro, si concretizza ancor più nella collaborazione con Arnaldo Antunes e Carlinhos Brown, allorquando agli albori del Terzo Millennio danno vita a un album definito dai più come la rivoluzione copernicana della musica popolare brasiliana: Tribalistas, album eponimo e unica perla di briosa saggezza musicale licenziata dal trio. Marisa Monte è un’esploratrice, innamorata del passato, ma proiettata verso il futuro. E lo dimostra anche il suo ultimo lavoro discografico, del quale ne parla con maggior dettaglio nell’intervista, pubblicato nel 2021: «Portas», sedici brani pop-oriented, che non trascurano la bellezza della tradizione musicale brasiliana. Al suo fianco, a raccontare le riflessioni post-pandemia, che rispondono al disagio e alla negatività del momento storico con ottimismo, fiducia e bellezza, c’è ancora una volta Arto Lindsay e Seu Jorge.
Marisa Monte ha voluto rispondere alle domande che le abbiamo rivolto in italiano. E questo non può che farci piacere.

Foto di Leo Aversa

Inizierei con il parlare di «Portas», il tuo ultimo disco. Un lavoro che, ancora una volta, sposta il baricentro della tua musica verso un altro futuro. Cosa racconta questo disco e come è nato e perché hai scelto questo titolo?
La porta è un elemento molto simbolico che ci dà l’idea del cambio, del passaggio, delle scelte, delle opzioni, delle aperture e delle chiusure , che possono anche essere verso l’esterno e verso l’ interno. Penso che sia un’idea molto filosofica che può connetterci  con il mondo attorno a noi e anche con le nostre proprie intuizioni.

Un disco che, tra l’altro, arriva dopo 10 anni da «O Que Você Quer Saber De Verdade», a parte il disco live uscito nel 2014. Cosa è successo in questi 10 anni?
Ho fatto molte collaborazioni e anche molti concerti dal vivo dalle caratteristiche diverse. Dopo una grande tournée del mio ultimo disco in studio, ho fatto un progetto speciale per il Bam a New York , una grande tournée con mio maestro Paulinho da Viola di quasi un anno e un’ altra edizione del progetto Tribalistas con i miei amici Carlinhos Brown e Arnaldo Antunes e anche un tour internazionale con loro. Dopo tutti questi progetti  di collaborazione io sapevo che era arrivata l’ora di ritornare a pensare a me. Quando è arrivata la pandemia io ero pronta ad iniziare a registrare, siamo stati però obbligati a ritardare ancora un po’ i piani. Il disco è stato inciso con un metodo di produzione misto, un po’ in presenza un po’ da remoto. Con l’aiuto della tecnologia è stato possibile registrare con musicisti di diverse parti del mondo: Stati Uniti, Portogallo,Espagna, senza perdere lo spirito della presenza, e il calore che questa ci porta.

Il tuo primo successo di pubblico e commerciale è Bem que se quis, che è stata inclusa nella colonna sonora di una soap opera brasiliana nel 1989. Quando hai scoperto di essere una cantante e come sei diventata una professionista?
Per me è stato un processo molto naturale. Ho iniziato a cantare molto giovane. I miei amici hanno cominciato a chiedermi di farlo con insistenza ed io ho iniziato a cantare. E così, molto presto, ho iniziato a farmi conoscere per il mio lavoro dal vivo.

Hai collaborato e collabori tutt’ora anche con Arto Lindsay all’inizio della tua carriera. Come è andata? Come vi siete conosciuti e quali sono i temi che avete condiviso?
Arto è un collaboratore e amico da molti anni ed ha  anche lavorato con me in questo ultimo album. Lui ha coprodotto due canzoni che abbiamo registrato tra New York e Rio in remoto. E’ un grande punto di riferimento estetico per me. Lui ha un senso estetico molto sviluppato non solo su tutto ciò che lui conosce nell’ambito della musica ma anche nel campo della letteratura e delle arti visuali. E’ un piacere lavorare e cambiare con lui.

La musica dei Tribalistas ha cambiato la percezione della gran parte del pubblico della musica brasiliana, perché ne ha cambiato alcuni elementi identificativi e degli stereotipi. Come è nato il progetto Tribalistas e perché si è concluso?
Quando abbiamo realizzato il progetto Tribalistas nel 2001, noi eravamo già amici e collaboratori  da 10 anni. Non abbiamo mai smesso questa nostra relazione: siamo sempre amici e collaboratori. Abbiamo fatto un secondo album di questo nostro progetto nel 2018 e continuiamo ad essere tre artisti con carriere individuali che si sono uniti per realizzare questa idea senza esserci mai visti come un gruppo.  Tribalistas non è una band, è un progetto.

 «Verde, anil, amarelo, cor-de-rosa e carvão»: un disco che ha lasciato il segno per molti motivi, ma anche perché ci sono collaborazioni importanti, tra le altre quella di Philip Glass e di Laurie Anderson. Ci racconteresti la genesi di questo disco?
Il mio album del 1993, prodotto da Arto Lindsay, ha rappresentato un momento di consolidamento del mio lavoro di compositrice e di ampliamento delle mie relazioni creative. Lo abbiamo registrato in parte a Rio de Janeiro, con un gruppo di lavoro che rifletteva già le mie collaborazioni recenti ed ha goduto delle partecipazioni di Gilberto Gil, della Velha Guarda da Portela, Paulinho da Viola, Epoca de Ouro, Nando Reis e Carlinhos Brown. A New York Arto Lindsay ha avuto il compito di ampliare le mie relazioni invitando musicisti come Philip Glass e Laurie Anderson, in un dialogo fra il Brasile e il mondo.

Foto di Leo Aversa

Quest’estate sarai in tour in Italia. C’è un particolare legame tra te e l’Italia: se non sbaglio, hai studiato canto lirico a Roma. Cosa ricordi di quel periodo?
Ho abitato in Italia per quasi un anno, come studentessa di musica quando avevo 18 anni. E’ stato un momento di maturazione, di apprendistato, nel quale ho scoperto molto su me stessa, sulla mia cultura di appartenenza potendo vedere, da fuori, il Brasile. Un momento che è stato decisivo affinché io mi convincessi a ritornare in Brasile e fare musica popolare nel mio paese. Ho bellissimi ricordi e una relazione affettiva molto profonda verso l’Italia, ho molti amici e sono sempre molto felice di tornarci a cantare.

 Dal 1989 al 2021, dal lancio dell’album «MM» a «Portas», il modo in cui la musica viene consumata è cambiato molto a causa delle piattaforme, dello streaming e altro. In che modo questi cambiamenti hanno influenzato la creazione e la commercializzazione dei tuoi dischi?
Sono una artista che ha vissuto questo transito verso l’era digitale e tutti i cambiamenti che la tecnologia ha portato nel modo di consumare la musica. Dal punto di vista creativo non è cambiato molto: continua ad essere cuore, mente, intuizione, ispirazione. Per quello che riguarda le dinamiche di commercializzazione e di consumo, il cambiamento è stato radicale. Oggi ognuno di noi artisti ha tutto il suo repertorio in un supporto portatile individuale, non abbiamo più l’obbligo di essere legati al formato fisico e questo ci dà molta libertà di pensare a pubblicare caso per caso, ciò che creiamo. Alle volte le canzoni costruiscono un corpo unico e si relazionano fra di loro e questo caratterizza il concetto di un album. Ma alle volte sono brani individuali, che possono essere pubblicati in qualsiasi momento, cosa che ha, comunque, anche lei il suo valore.

Foto: Leo Aversa

Marisa qual è il tuo rapporto con il jazz?
Fra i miei riferimenti di base e di formazione ci sono molti musicisti jazz. Sono cresciuta ascoltando Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan e tutti quegli incredibili musicisti che sono riusciti a creare una base di formazione classica per la musica contemporanea. Chet Baker, Duke Ellington, Bill Evans, fra i tanti di questo olimpo.

Il presidente del Brasile Bolsonaro non sembra tenere a cuore la cultura. Qual è il tuo pensiero a riguardo della situazione politica attuale in Brasile e della revanche della destra politica anche in altre zone del mondo?
Mi dispiace molto che lui non abbia una visione della cultura come risorsa economica, oltre, è chiaro, alla sua forza creativa. Oltre al valore immateriale, del pensiero immaginario che il mondo ha del nostro paese, di ciò che la cultura e la musica brasiliana rappresentano come identità nazionale, il settore della cultura, in Brasile, genera 5 milioni di posti di lavoro in un paese con un alto indice di disoccupati. Il 5% del PIL è opera di questo nostro settore. L’attacco diretto alla cultura significa, oltre ad una scelta ideologica primitiva, un’ignoranza e uno spreco economico inspiegabile. Fare cultura in Brasile non è mai stato così importante come in questo momento.

Foto: Leo Aversa

Quali sono i progetti ai quali stai lavorando?
Sono in tour, dopo due anni di vita in casa. Ho iniziato a febbraio in Brasile. A marzo ho fatto anche vari show negli Stati Uniti. Ho un’agenda piena fino alla fine dell’anno che include Europa e America Latina. Molto felice di poter cantare ancora dal vivo, incontrando il mio pubblico, distribuire allegria e attivare incontri collettivi dopo tanto tempo di isolamento.
Alceste Ayroldi

Intervista pubblicata sul numero di luglio 2022