Sud, di Sergio Rubini con Michele Fazio Trio
Bari, teatro Nuovo Abeliano
15 gennaio 2017
Il Sud di Sergio Rubini è maledettamente ironico, triste, sorridente: un po’ guappo, claudicante, ma ricco di risorse che lo riescono sempre a tenere in gioco. E fra i colpi di maglio di Matteo Salvatore e le buriane sollevate in paradiso da De Pretore Vincenzo, mercé la penna incantata di Eduardo De Filippo, fra il sardonico periodare di Carlo Amicis ne La guerra dei cafoni e le atmosfere cupe de I Persiani di Eschilo, si annida il jazz del consolidato trio del pianista Michele Fazio, con Marco Loddo (contrabbasso) ed Emanuele Smimmo (batteria).
Ottanta minuti durante i quali la vis narrativa dell’attore e regista di Grumo Appula si intreccia con quella sprigionata dalle note originali del conterraneo pianista e compositore.
Apre il trio, con sicurezza e già preannunciando un racconto particolarmente sferzante, perché il pianoforte di Fazio ammicca, alza i toni e li abbassa tenendo sempre in proscenio la melodia. Rubini anima un’ intervista a Matteo Salvatore, uno dei più grandi poeti e cantori della cultura popolare della Daunia. Lo spettatore viene calato nella più angusta povertà di terra di Capitanata e nell’Italia che già sentiva l’odore della seconda guerra mondiale. Salvatore ragazzo, la fame atavica, il padre che s’ammazzava di fatica per portare un pezzo di pane a un numero imprecisato di figli. E, dall’altra parte, il rampollo del medico del paese che soffriva di inappetenza, tanto da dover essere stimolato da qualcuno che aveva una grande fame: Matteo, appunto.
Non sono intermezzi musicali quelli orditi da Fazio e sodali. Il trio interloquisce con Rubini e con i personaggi che la sua inimitabile verve attoriale vivifica, fino ad arrivare alla declamazione da poetry slam, perfettamente cadenzata, come nella chiosa di una spassosa poesia dialettale. Fazio sa alzare i toni e la sua musica sa essere narrativa, ricordando a tutti quanto sia italiano, armonizzando nella miglior maniera ogni accordo, ogni ponte con le parole dell’attore. L’improvvisazione è veemente, capace di tenere testa alle parole di Eduardo De Filippo nella arcinota commedia (dal sorriso amaro) De Pretore Vincenzo. E con lui i tamburi e i piatti di Emanuele Smimmo, che tesse trame, le tende e lancia spunti poetici tenuti assieme dalle corde pastose e attente del contrabbasso di Loddo. E così il trio sa lanciare anche gli anni Settanta vissuti in un Salento non ancora consapevole delle proprie capacità turistiche, splendidamente narrato ne La guerra dei cafoni di Carlo Amicis e intonato con rara maestria da Rubini, abile anche nel dare diverse inflessioni alle varie figure letterarie.
La chiusura è affidata ad Eschilo e alla bellezza della metrica de I Persiani, con i tamburi di Smimmo in bella evidenza.
Sud è uno spettacolo che può avvicinare il grande pubblico del teatro al jazz; quel pubblico che il jazz – per tante ragioni e un po’ di spocchia– tiene a debita distanza.
Alceste Ayroldi