Frequentando i giri giusti, all’alba dei Settanta non era affatto improbabile imbattersi in diversi americani a Parigi; non i turisti, ma quelli più o meno accasati temporaneamente nella Ville lumière. In particolare, poteva esser facile incontrare musicisti relativamente giovani, non affermati, alle prese con le esplorazioni sonore inaugurate dal free jazz d’oltreoceano. A iniziare dai componenti dell’Art Ensemble Of Chicago, oppure dal contrabbassista e compositore Alan Silva, che si rese responsabile di un monumentale triplo album, «Seasons», realizzato alla fine del 1969 e pubblicato dalla Byg/Actuel. L’album è ricomparso in un’edizione italiana agli inizi del Duemila (compattato in due dischetti digitali), al pari di diversi altri dischi del catalogo della storica etichetta (e collana) francese, tornando in seguito a essere nuovamente irreperibile. Il viavai di free improvisers era a ben vedere frutto della scarsa occupazione e dell’incomprensione in patria, ma fatto sta che la metropoli francese cullò nel post-Sessantotto non pochi talenti diventati in seguito protagonisti assoluti del jazz contemporaneo. Il regista Moshé Mizrahi colse quegli attimi nel 1970 quando girò Les Stances à Sophie, un film oramai di culto uscito nelle sale l’anno successivo, seppur assai fugacemente per la verità. Fu uno degli ultimi lampi della Nouvelle Vague, illuminato dalla presenza di Bernadette Lafont, volto-icona di quel cinema. Nel corso della storia, proprio Lafont nei panni di Céline, dapprima giovane emancipata poi moglie annoiata dalla vita borghese, si ritrova in un caffè dove l’AEOC (nella definitiva formazione a cinque con Don Moye) sta eseguendo Thème de Céline, un brano della colonna sonora interamente scritta da loro a esclusione di Lasciatemi morire dall’Arianna di Monteverdi, sul cui tema ricamarono due meravigliose variazioni. Sulle prime appare fugacemente anche Fontella Bass, che invece si ascolterà in un altro brano scritto per il film, il Thème de YoYo, irresistibile free rhythm & blues che apre le danze sul disco. Al termine del brano, la sequenza prosegue mettendo in scena emblematicamente quanto si diceva sopra: la brigata dell’AEOC va a prendersi qualcosa da bere mentre Jarman prende posto allo stesso tavolino dove siede l’affascinante Lafont, avviando con lei una conversazione piuttosto surreale. Céline sta scrivendo un libro sui «costumi sessuali degli indigeni dell’Europa occidentale», lui, dopo aver rapidamente preso visione del testo, lo approva e commenta a proposito delle suddette abitudini: «bisogna fare qualcosa […] perché sono un disastro». Chiacchiere da bistrot con un americano a Parigi dopo il Maggio…
Di lì a poco l’AEOC sarebbe ritornato in patria, ma Alan Silva fece a tempo a coinvolgerlo in un progetto tipico dei tempi, ovvero velleitario, azzardato e incurante dei rischi, insuccesso compreso: la Celestrial Communication Orchestra (CCO). Après mai funzionava in questo modo, le correnti rivoluzionarie e i riflussi si fronteggiavano in un braccio di ferro ancora dall’esito incerto. Ci si lanciava in imprese estemporanee il cui successo, o almeno la loro sopravvivenza, era affidato alla fede in un futuro prossimo egualitario e libertario. Tale era il progetto della CCO, che Silva aveva varato il 17 agosto del 1969, quando aveva registrato a Parigi, «Luna Surface». Un album che negli intenti dell’autore doveva raccontare in musica lo storico primo allunaggio avvenuto nel mese precedente. Per farlo Silva convocò due generazioni di liberi improvvisatori, che si ritrovarono per l’occasione fianco a fianco nell’ennesimo rimescolamento di carte operato tra i musicisti della giovane label transalpina. Qualcuno di loro è oramai solo un nome oscuro nelle discografie, ma diversi erano già famosi o lo sarebbero presto diventati: Grachan Moncur III, Archie Shepp, Anthony Braxton, Dave Burrell, Leroy Jenkins e vi compariva anche uno dei membri dell’Art Ensemble, Malachi Favors. Silva vantava non pochi crediti all’epoca, non era un pivello e a essere pignoli non era neanche nato negli Stati Uniti, ma era cittadino britannico. Venne alla luce nelle Bermuda, trasferendosi da piccolo a New York, crescendo ad Harlem e appassionandosi da subito al jazz, complice l’orchestra di Ellington che andò a suonare nel la sua chiesa. La grande passione e lo studio si concretizzarono nella creazione di un primo suo gruppo, il Free Form Improvisation Ensemble che includeva il pianista Burton Greene, il flautista Jon Winter, il sassofonista Gary Friedman, il trombettista Eddie Gale e Clarence Walker alla batteria. Si era nel 1962 e Silva a quel punto aveva ottenuto la cittadinanza statunitense. Quattro anni dopo era in studio con Cecil Taylor per registrare pietre angolari come «Unit Structures» e «Conquistador», era stato ingaggiato da Sun Ra e si era ritrovato a incidere anche con Albert Ayler. Nel bel mezzo del Sessantotto era a Parigi, poi tornò brevemente a casa, a New York, e fu lì che ideò la CCO. Fece una prova d’orchestra registrando Solestrial per la storica ESP, il brano che occupava il secondo lato di «Skillfullness». Un lavoro per sestetto nato all’ombra dell’insuperabile modello coltraniano di «Ascension». Soltanto al suo ritorno in Francia, però, fu possibile passare definitivamente dalle parole ai fatti.
Silva non era uno sprovveduto, cosicché la sua chiamata alle armi sonore per allestire la Celestrial Communication Orchestra non poteva rimanere inascoltata. Gli americani da coinvolgere in quel di Parigi non mancavano e anche i jazzisti francesi lo conoscevano bene, come Bernard Vitet con il quale aveva già suonato nel precedente soggiorno. A Parigi si era spostato da Roma Steve Lacy, per esempio, e con lui aveva traslocato un suo partner dell’epoca, Don Moye, che finì così per incrociare definitivamente l’AEOC (aveva già tentato l’aggancio in precedenza, ma senza riuscirci). Si era recato a Parigi anche Braxton con Leroy Jenkins e Leo Smith, trio poi evolutosi nella chimerica Creative Construction Company. Insomma, nella metropoli agiva un collettivo che si sarebbe potuto chiamare Art Ensemble Of Paris, prendendo a prestito il titolo di un capitolo della storia dell’AEOC scritta da Paul Steinbeck in Grande Musica Nera (edito in Italia da Quodlibet). A tenere tutti sotto lo stesso tetto o quasi ci pensarono Claude Decloo e Jean Georgakarakos. Batterista e organizzatore di concerti, il primo era il direttore artistico della Byg, una piccola etichetta discografica parigina, di cui il secondo era stato cofondatore nell’aprile del fatidico 1968 insieme ad altri due investitori, Fernand Boruso e Jean-Luc Young. Decloo era anche il direttore di una nuova rivista, Actuel, che rispecchiava perfettamente lo spirito dei tempi e quello del suo direttore, privilegiando «il jazz e le arti contemporanee», in particolare poesia e teatro sperimentale. Esordì nell’ottobre del 1968 e presto si instaurò una liason naturale tra rivista ed etichetta: la collana discografica Byg/Actuel, rivolta al medesimo pubblico, quello interessato alla sperimentazione tout court. Decloo continuava in parallelo a fare anche il batterista; tra l’altro fece parte dell’ensemble che registrò «Luna Surface».
Nell’album «Seasons», realizzato, come si è detto, alla fine di quello stesso anno, Silva alzò il tiro, consegnando alla storia del free jazz un documento di notevoli proporzioni per estensione e per concezione. Schierò quattro quinti dell’AEOC (senza Favors), i coniugi Lacy/Aebi e tra gli altri, Kent Carter, Michel Portal, Robin Kenyatta e Alan Shorter; a conti fatti, della precedente formazione rimasero soltanto Bernard Vitet e Burrell, affiancato da altri due pianisti: Joachim Kühn e Bobby Few, con il quale Silva si ritrovò in molte occasioni. A sua volta Silva ricambiò a molti il favore, recandosi in studio per un bel po’ di album della Byg/Actuel. «Seasons» fu un lavoro figlio del caso come pochi altri. Nacque per via di un forfait di Stan Getz che avrebbe dovuto tenere un concerto natalizio organizzato per l’ORTF da André Francis, una vera leggenda del jazz radiofonico. Getz saltò all’ultimo minuto e la segreteria di Francis contattò disperata Jacques Bisceglia, ai tempi fotografo per Actuel, il quale a sua volta interpellò Silva con il quale abitava. Questi non si perse d’animo e radunò una vera e propria All Star Band dell’improvvisazione.
Il concerto si tenne allo Studio 104 dell’ORTF, capace di seicento posti, ma vennero a saperlo molti di più grazie a Delfeil de Ton, uno dei primi redattori di un’altra rivista alternativa nata nei turbolenti Sessanta, Hebdo Hara-Kiri, in seguito diventata Charlie Hebdo. Fu lui a scrivere del concerto invitando gli studenti a parteciparvi e il risultato fu una folla di circa duemila persone in esubero all’ingresso dello studio. Un antenato dei flash mob, in altre parole. Si presentò la CRS, ovvero la polizia anti sommossa, ma a calmare gli animi ci pensarono degli altoparlanti sistemati all’esterno per consentire l’ascolto a tutti. L a Celestrial Communication Orchestra suonò ininterrottamente per due ore e mezza, dando vita a una musica complessa, niente affatto interessata a compiacere l’ascoltatore, poco commestibile tuttora. Eppure, il pubblico accettò la sfida e ne fu entusiasta. I calorosi e prolungati applausi a fine concerto ne sono la prova. Astratto, oscuro e misterioso, estatico, abbacinante, magmatico e furente a tratti, il flusso sonoro scorre senza tregua. In azione ci sono dei trii (tre flauti, tre pianoforti, tre contralti e così via) che si alternano con dei pieni orchestrali o fungono da supporto per dei singoli assoli. Superfluo evidenziarne qualcuno in una struttura concepita come un solo corpo pulsante diramato a mo’ di frattale. Riascoltando la registrazione Silva non ebbe dubbi sulla necessità di pubblicarla integralmente, pur sapendo che sarebbe occorso un triplo album, e così fu («siate realisti, chiedete l’impossibile» era uno slogan del Maggio). Per forza di cose, una formazione del genere non poteva mantenersi in attività, anche per via del ritorno negli Stati Uniti di diversi dei musicisti coinvolti. Ciononostante, le stagioni creative di Silva non finirono lì. Più stabile fu una successiva formazione di dimensioni assai più modeste, il Center Of The World, un quartetto con Few, Muhammad Ali alla batteria e il sassofonista Frank Wright. Ripropose una grande orchestra nel 1971, quando il Royan Contemporary Music Festival gli commissionò un lavoro da eseguire nel corso della manifestazione. Meno furibonda di Seasons, la composizione si intitolava My Country e venne registrata al festival, ma per vederla pubblicata occorsero diciotto anni, quando nel 1989 vide la luce grazie alla Leo. La COO si rivide in studio nel 1982, quando Silva autoprodusse «Desert Mirage». Nel frattempo, sempre a Parigi, aveva avviato la sua scuola di musica, IACP (Institute For Art, Culture And Perception), e ampliato le collaborazioni (Andrew Hill, Burton Greene, Bill Dixon, Alex von Schlippenbach e la Globe Unity Orchestra). In seguito iniziò a interessarsi di marchingegni elettronici e a fine secolo scorso allestì la Sound Visions Orchestra, rinnovando la stagione degli ensemble sontuosi. Oggi, a 82 anni, insegna, suona e forse aspetta una ristampa seria di «Seasons».
A cura di Gennaro Fucile