Brussels Jazz Festival 2024
Seconda Parte
La mattina del 19 (ore 12.30) la scena è di tre eleganti giovani donne che mettono insieme poesia e musica: Oerhert è il nome del sodalizio e loro sono Astrid Haerens (canto e parole), Mariske Broeckmeyer (tastiere, elettronica, canto), Jasijn Lootens (violoncello, canto, elettronica).
La musica corrobora i testi impegnati creati da Astrid Haerens, che raccontano la memoria e il lutto incarnati al femminile. Voce e musica viaggiano all’unisono, la voce della Haerens arriva avvolgente al cuore, anche quando il testo è in olandese e, quindi, per chi scrive, non comprensibile. Il violoncello disegna pedali armonici e pulsioni ritmiche, quest’ultime rinforzate dall’elettronica, dal loop che viene generato intorno alle melodie disegnate dalle tastiere e rincuorate dalle belle voci delle tre musiciste, che passano dalla solidità alla rarefazione con disarmante naturalezza.
La sera il primo set è di una band che meriterebbe maggiore attenzione a livello internazionale i Work Money Death, al secolo: Tony Burkill (sassofono tenore), John Ellis (pianoforte), Neil Innes (contrabbasso), Sam Hobbs (batteria), Daniel Templeman (percussioni), Steve Parry (percussioni, flauto, clarinetto basso). I sei di Leeds non hanno inventato nulla, per carità. Ma la loro abilità è nel riportare in auge una corrente che in buona parte d’Europa è tornata a farsi sentire (meno in Italia): lo Spiritual Jazz. Bene, il sestetto britannico sa fare tutto questo con una buona dose di originalità, di freschezza espositiva e di simpatia. Piuttosto limitata, ancora, la loro produzione discografica, che è fatta di due dischi: «Thought, Action, Reaction, Interaction» e «The Space in Which the Uncontrollable Unknown Resides, Can Be the Place from Which Creation Arises» che, a dispetto della lunghezza wertmulleriana del titolo, è composto da sole due suite: Dusk e Dawn. Ovviamente, il combo sciorina tutto la sua illuminante creatività. I WMD sono frizzanti, sia dal punto di vista musicale che scenico. Tony Burkill sa tenere la scena con torrenziali assolo e con una postura che ricorda (sarà anche per gli occhiali scuri) i Blues Brothers. Ma, scena a parte, è la sostanza musicale che convince. L’eco delle grandi orchestre si infrange sulle percussioni esotiche, primordiali, lounge; i contrasti stilistici s’addomesticano nei ritmi danzabili (con anche bei richiami come Love Theme From Spartacus), nel blues e negli slanci penetranti dei sopracuti o incursioni nei gravi più rauchi del sassofono. La loro gioia nel fare musica è empatica e travolge e coinvolge il pubblico con la corale Love is all I Give to You.
Il set che segue in quanto ad entusiasmo e brio non è secondo a nessuno. Scende in campo Kahil El’Zabar Ethnic Heritage Ensemble: un settetto sfavillante, che schiumeggia musica, ritmo e allegria a partire dal suo leader, il batterista e percussioni Kahil El’Zabar, anche lui di Chicago, già membro dell’AACM (Association for the Advancement of Creative Musicians), fondatore del Ritual Trio e al fianco di Cannonbal Adderley, Dizzy Gillespie, Stevie Wonder, Nina Simone, Paul Simon e molti altri. Con lui il suo concittadino Corey Wilkes alla tromba, l’esperto Alex Harding al baritono, David Murray al tenore, Joe Bowie al trombone, James Sanders al violino e viola e Ishmael Ali al violoncello.
Il risultato è a dir poco dirompente, perché l’ensemble funziona a meraviglia, tra le incursioni mozzafiato di David Murray, in grande spolvero, che balla à la Monk sull’assolo al cajon del leader, ai passaggi sottolineati dalla voce possente, penetrante e carica di energie provenienti da ogni dove, di Kahil El’Zabar, che inserisce anche tonalità che dispensano pura inquietudine. Poi, le armonie lasciano spazio alle scorribande nel free. Il suono grosso, la sonorità piena, acuti al limite della rottura, l’arrochimento geniale di Bowie, sono pennellate in un palazzo magistralmente costruito da El’Zabar. Un sound che mette insieme lo Spiritual Jazz, al quale la serata era dedicata, e il free, il rhythm and blues, il blues stesso. L’Ethnic Heritage Ensemble punta tanto sull’intensità quanto sulla musicalità. El’Zabar ha messo in atto forti poliritmie – a volte alla batteria, ma più spesso con la kalimba o il cajón e un set di campane che attacca al piede. Return of the Lost Tribe è l’ultimo nato in quanto a produzione discografica (singolo), ma il gruppo non dimentica il passato e lo mette al servizio del pubblico con piacere. Standing ovation e applausi a scena aperta.
La serata conclusiva del 20 gennaio è dedicata al jazz sudafricano e si apre con il quartetto di Asher Gamedze, batterista di Cape Town, che porta in scena il suo ultimo album «Turbulence and Pulse» (pubblicato dall’International Anthem), che è anche un documentario – cortometraggio (17 minuti); con Gamedze ci sono Buddy Wells al sassofono tenore, Robin Fassie alla tromba e Vimbs Mavimbs al basso. Gli assoli di Fassie e Wells sono feroci e il bassista Mavimbs brilla con per tonalità gravi, pesanti e linee intricate. Contrastando i pezzi più focosi con momenti più morbidi e contemplativi, l’ensemble di Gamedze è capace di suonare con grande sensibilità e attenzione ai dettagli su brani come Melancholia e Out Stepped Zim. C’è tempo per una bella dedica da parte del leader al popolo palestinese, con una dirompente Freedom.
Chiude i battenti il festival belga con quella che può dirsi, almeno in Europa, la star del pianoforte secondo la declinazione sudafricana: Nduduzo Makhatini, che vede al suo fianco il giovanissimo e bravissimo Zwelakhe-Duma bell La Père e il sempre strabiliante Francisco Mela alla batteria. Ed è quest’ultimo che porta seco la contaminazione con ritmi cubani, sciorinando saperi ed eredità latine che arricchiscono il sound del pianista e cantante di Umgungundlovu. Makhatini attinge dall’album «In the Spirit of Ntu», ma anche dalla sua discografia precedente. Sia nel canto, che nel parlato, il musicista sudafricano invia i suoi messaggi spirituali: parla della colonizzazione, dell’unicità dell’essere umano, della sua visione olistica della vita. Alterna un fraseggio di grana grossa, spezzato, con clusters stentorei, modulazioni scabre, accenti di bebop, che si alternano a soluzioni più mainstream, per poi tornare nella amata Africa. Ma questo non lo ferma, perché passa dal lirismo enfatico alla fusion, grazie anche a La Père e al suo tocco virtuoso, mobile, rapido, ricco di folgoranti sincopi. E allo scintillio di ritmi di Mela, che controlla le dinamiche e tiene banco in più di un’occasione suggerendo anche nuovi metri al leader.
Una parentesi conclusiva merita la presentatrice del festival e il suo singolare modo di introdurre i concerti, sciorinando con competenza le giuste informazioni mescolando, in un unico flusso, sapientemente inglese, francese e olandese.
Alceste Ayroldi
La prima parte è stata pubblicata giovedì 1 febbraio