Brussels Jazz Festival 2024
Prima Parte
Si premette che chi scrive ha assistito ai concerti che si sono tenuti dal 18 al 20 gennaio. E di tanto se ne darà conto.
Ciò non toglie, però, che il programma del festival della capitale belga abbia un cartellone particolarmente intenso, variegato e interessante. Un cartellone che non vede star da cassetta, nessun nome di quelli che si vedono transitare con periodica fissità nei cartelloni soprattutto italiani, di quelli di cui – sembra proprio – non se ne possa fare a meno, altrimenti “il pubblico non viene”. Ebbene, strano a dirsi, ma il festival diretto con particolare acume, attenzione e dedizione da Maarten Van Rousselt, nonostante non avesse nel carniere jazzisti da sterminio di massa, ha fatto il pieno di pubblico ogni sera: dall’11 al 20 gennaio con delle scelte illuminanti. Tutto ciò anche nei giorni della coda del festival, quelli più pieni di artisti belgi, e con la neve alta 17 centimetri e una fresca “brezza” da -4/-6 gradi.
E poi, udite udite, con una percentuale di pubblico fatto di giovani per oltre il 60%. Direte voi: sarà stato a ingresso libero. Nulla di tutto ciò, perché ogni concerto era a pagamento e con prezzi non scontati.
Quale sia lo strumento alchemico che il brillante staff del Brussels Jazz Festival utilizza? Semplice: proposte alternative con sonorità fresche e travolgenti.
Prima di arrivare alla data del 18, però, vale bene riassumere i concerti precedenti. La formula è sempre quella di un triplo (e anche quadruplo) set a serata (con inizio dalle 19.30) e, in alcuni casi, con un concerto che faceva da antipasto (per noi italiani) alle 12.30. Gli artisti? Ecco: da Marcin Wasilewski Trio a Rosa Brunello’s Sounds Like Freedom; da Casimir Liberski con Greg Osby, Larry Grenadier e Nasheet Waits, a Yoni Mariaz; da III Considered a Speakers Corner 4tet con Joe Armon-Jones. E poi: Donder, Ashiq Nargile con Dijf Sanders, Sophie Tassignon, GingerBlackGinger, schroothopp, Anneleen Boheme, Ntoumos, Wajidi Riahi Trio, Aka Moon & The Orchestral Constellation, Don Kapot e, quasi ogni sera, a chiudere i concerti un manipolatore di suoni con un deejay set.
Qualche parola la merita anche il Flagey. Una casa della cultura, deputata al cinema e alla musica con diverse sale-studio dalla perfetta acustica, con sedute comode e larghe nello spazio concesso alle gambe, gradata tanto da non dover fare i conti con la fisicità di chi è d’avanti; due punti ristoro affollati da gente che, però, al calare delle luci in sala era già seduta e pronta per ascoltare la musica, senza avere tra le mani costantemente lo smartphone.
Il 18 la terna dei concerti si apre con Casimir Liberski in piano solo. Il pianista gioca in casa, visto che Bruxelles è la sua città natia, anche se ha frequentato le aule del Berklee di Boston. Abile nella costruzione di architetture sonore per film, la sua musica è sì radicata nella tradizione europea, quella fatta di lanosi pensieri, sospensioni e acute soluzioni armoniche, ma anche di un codice linguistico costruito nelle migliori correnti americane non mainstream. Sarà perché i suoi grappoli di note vanno a braccetto con la sua bisbigliante voce, captata dai microfoni, e sollecitano il ricordo di Keith Jarrett e così anche il suo fraseggio, almeno in alcuni frangenti. La postura alla Glenn Gould, raccolta sul pianoforte partendo dal basso, stride con la corporatura aitante di Liberski, ma non per questo non la si apprezza, perché il giovane pianista belga (anche “uomo immagine” del festival, dato che la sua foto troneggiava sui manifesti ufficiali) dipinge le note, le scandisce con precisione e vigoria. White Lighter, Evanescence, e la sua personale dedica al tamagotchi, si ritagliano uno spazio di favore. Così anche i due encore, dalla matrice cinematografica, ricchi di fioriture. Liberski termina il set proprio quando aveva scaldato i motori: ma è giusto così.
La seconda parte è appannaggio di Marquis Hill’s Composers Collective. Accanto al trombettista di Chicago si accomodano Ashley Henry al pianoforte, Daniel Winshall al contrabbasso e Corey Fonville alla batteria. Il trombettista dà subito sfoggio di quanto ami utilizzare tutta una serie di piccole percussioni, di conchiglie, sonagli, oltre a aggeggi elettronici che cercano di dare una tessitura, non sempre perfetta. Il combo viaggia come un treno per i primi brani, rilasciando una staticità scenica non attesa. Poi, con Roy’s Natural il gruppo prende confidenza con il palco (ma forse era già tutto scritto) e, dopo aver licenziato un assolo, non da strapparsi i capelli, di Daniel Winshall che sfoggia un look à la Vinicio Capossela, e un bell’assolo di Fonville, Marquis Hill accende i riflettori sulla sua indubbia tecnica legata al timbro; aumenta il volume sonoro, con un attacco fulminante su ogni nota. Cresce la sensazione di R&B, si accentua il groove e arriva To Be Free, con le note ora soffiate con il mezzo pistone, ora rafforzate dal doppio colpo di lingua. La sensazione, però, è che, dal punto di vista compositivo, aleggi un deja écoute: insomma, che sia arrivato prima di Marquis Hill qualcun altro a dire le stesse cose. E ciò anche quando lascia il groove e intraprende la via dello Spiritual Jazz si avverte che qualcosa non giri completamente nel modo giusto.
Chiude la serata il solo di batteria, ben preparata di un artista poliedrico e ricco di inventiva qual è Vaague, anch’egli belga.
Alceste Ayroldi
La seconda parte sarà pubblicata sabato 3 febbraio