Anais Drago: improvviso e sperimento come musicista, ma non come persona

Intervista alla giovane violinista piemontese, uno dei talenti più brillanti della scena jazzistica italiana. A cura di Anita Soukizy

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Anais Drago

Dopo due anni di pausa forzata, Conad e Umbria Jazz tornano di nuovo insieme in occasione della 9° edizione del Conad Jazz Contest, il concorso che negli ultimi anni ha scoperto alcuni tra i più brillanti talenti della nuova generazione di musicisti italiani.

Uno dei tanti esempi? La rivelazione del Conad Jazz Contest 2019: la giovane violinista Anais Drago.

Se desiderate conoscerla meglio ecco a voi l’intervista della nostra Anita Soukizy.

Ciao Anais, e benvenuta. Ti faccio i complimenti per il disco, davvero straordinario. Ma te li faccio anche per la tua biografia, che trovo davvero singolare e piacevole da leggere. È proprio una delle prime frasi a colpirmi: «L’improvvisazione e la sperimentazione sono elementi che ricerco, in qualità di musicista, tanto quanto rifuggo in qualità di persona». Parlami di come vivi l’improvvisazione e di che cos’è per te.

In realtà è tutto sintetizzato in quella frase che riporti, nel senso che non so dirti se una volta ero più inquadrata in ambito musicale e forse meno come persona, magari è avvenuto uno switch e quindi è anche una situazione parecchio buffa. Sono una persona molto metodica, non sono amante dell’imprevisto, della sorpresa, dell’improvvisata; per farti un esempio, detesto quando mi squilla il telefono senza che sia stata avvisata prima. Quindi una persona abbastanza metodica, appunto, mi piace programmare le cose per fare in modo che vadano come ho deciso, anche se in realtà questa cosa poi ho imparato a gestirla perché, come ben sai, non è possibile vivere la vita in questo modo; bisogna sempre fare i conti con il fatto che siamo in tanti e non tutti la pensiamo nella stessa maniera. Però a livello musicale questa situazione si è rovesciata, nel senso che ho iniziato a studiare improvvisazione nel 2013 e in questi anni mi sono progressivamente allontanata dall’indicazione scritta. O meglio, la musica scritta esiste ancora, per me, e l’apprezzo anche molto, non è che mi piaccia solo improvvisare, però oggi sono molto tranquilla con l’improvvisazione. È come se si fosse invertito il modo in cui percepisco la musica sul palco, comunque devo dire che mi trovo bene. Alla fin fine quella attuale è una dimensione che mi piace molto, quindi sono contenta che sia andata così.

Anche perché dalla musica classica con cui hai iniziato sei approdata al jazz. Visto che hai iniziato a suonare da molto piccola, quando è arrivata la consapevolezza di voler diventare una musicista?

L’ho capito da grande. È molto poco romanzesca come storia, nel senso che ho studiato musica classica e mi sono diplomata nel 2013, ma prima di conoscere il jazz, che ho scoperto proprio nello stesso anno, avevo già fatto esperienze non classiche però in ambito soprattutto folk, rock, pop. Quindi già qualcosa d’altro, rispetto alla musica classica, era entrato nella mia mente, nelle mie corde, sia umane sia del violino. Però non avevo assolutamente intenzione di fare la musicista. Forse il motivo principale era che mia sorella è a sua volta una violinista, è una musicista classica professionista, lavora in un’orchestra in Germania. Non vive più in Italia da molti anni ma nel periodo in cui, appena diplomata, iniziava a fare la cosiddetta gavetta, io vedevo da dodicenne, tredicenne la sua vita e dicevo: «No, io non voglio fare questa vita!» Non era il fare musica a darmi fastidio, era tutto quello che le stava attorno; poi in realtà mi ci sono ritrovata dentro. E il motivo è stato che, finite le superiori, ho iniziato a suonare stabilmente con un po’ di gruppi e, in maniera banale, ho iniziato a sostenermi con quello. Così mi sono detta: «Ma forse si può fare», e così è andata.

Anche questa è improvvisazione!

Infatti, e ti dirò di più. Ho dato la maturità nel 2011 e mi sono presa un anno per preparare il diploma di violino, che invece non ho dato nel 2012 non perché non ce l’avessi pronto, ma perché in quell’anno è scattata la riforma dei Conservatori e non hanno più accettato domande da privatisti, per poi riaprire nel 2013 alcune finestre in cui mi sono riuscita a infilarmi. Comunque, mi ero presa quell’anno per preparare il diploma di violino. Ma siccome volevo iscrivermi a lettere classiche, andavo a lezione da quella che era stata la mia professoressa di latino e greco, più che altro per tenere un po’ viva la grammatica. Quindi andavo da lei una volta la settimana, ma nel frattempo si era aperta la possibilità di dare l’esame e allora, un lunedì piovosissimo di dicembre prima di Natale, vado a lezione e dico: «Professoressa, guardi, prima di iniziare, volevo dirle che questa è l’ultima lezione che prenderò perché ho deciso di fare la musicista». E lei ha letteralmente chiuso i vocabolari, esclamando: «Era ora!»

Insomma, è stata una specie di benedizione. Tra l’altro era un’insegnante che ammiravo e ammiro tantissimo, è stata una grande figura del della mia crescita non solo didattica ma anche umana, e il fatto che abbia avuto questa reazione è stato assai incoraggiante.

Anais Drago

Dicevi di quando ti sei avvicinata al jazz. Ma com’è successo?

È stato abbastanza per caso, come spesso accade nella mia vita. Un caro amico contrabbassista, con cui suonavo nel gruppo folk che è stato il mio primo, un giorno mi dice che l’hanno chiamato a fare un paio di brani di accompagnamento durante una serata di una associazione del territorio, e mi propone di leggere qualche standard jazz e di farlo in duo, e io cado come dalle nuvole. Nel senso che, una volta letto il tema, lui mi chiede di improvvisare ma io non so proprio cosa. E quindi è stato quasi uno smacco, devo dire la verità, cioè il fatto che io comunque – adesso non ricordo se mi fossi già diplomata o se mi stessi per diplomare – rimanessi basita di fronte a una canzone, non sapessi come affrontarla, mi ha fatto arrabbiare. Mi sono detta: «Non sono una musicista se esiste un intero mondo di cui non conosco assolutamente nulla», e quindi ho iniziato a studiare il jazz e mi sono intestardita, ma poi ci ho anche trovato la mia dimensione: Del resto la musica classica non era un ambito in cui mi interessasse cercare di costruire una carriera. Così mi sono lanciata in questo mondo e ho iniziato a studiare dal principio, dalle basi. Ho passato un periodo all’estero, poi sono tornata in Italia, ho fatto un biennio di composizione jazz ad Alessandria. Era un pretesto per stare dentro un ambiente in cui potessi scoprire delle cose, studiare delle cose, per suonarle sul violino. Ho scelto appositamente di non fare mai lezione con un violinista; devo dirti la verità, anche quando ho studiato a Londra, l’ho fatto con un sassofonista, con un batterista, non ho mai sentito la necessità di avere un violinista come esempio, cosa che non ho fatto neanche negli ascolti in questo percorso di studi che comunque continua tuttora, forse anche per non avere un modello che mi influenzasse troppo.

Parlando dei tuoi maestri, per primo mi viene in mente il grande Daniele Roccato. Mi parli di questo incontro?

Mi brillano gli occhi. La conoscenza di Daniele è arrivata in un momento secondo me importante. Sia per la fase mia personale e musicale in cui ero arrivata, sia perché – ti sembrerà banale – ho conosciuto Daniele, ho fatto tre settimane di masterclass con lui, e dopo un mese eravamo di nuovo in lockdown. Tutto quello che ho imparato in quelle tre settimane, se non avessi avuto sei mesi di blocco domestico, forse non sarebbe stato così fruttuoso come in realtà è stato. Perché nel secondo lockdown, quello che è andato dalla fine del 2020 a maggio del 2021, peraltro il periodo in cui ho scritto il disco, ho cambiato per certi versi rotta, per alcune cose, o semplicemente ho aggiunto un’altra rotta a quelle che già stavo percorrendo, e ciò che mi ha insegnato Daniele è stato fondamentale.

Quindi è stata un’esperienza che ha avuto anche un suo «peso» su «Solitudo».

Proprio così. Mi ha fatto innanzitutto riconnettere con lo strumento in quanto tale, che in tutti questi anni di studio e di improvvisazione avevo accantonato in favore dello studio di uno o più linguaggi. In questi sette anni ho cercato di imparare quanti più linguaggi improvvisativi possibile, tralasciando invece la questione timbrica, la questione delle possibilità espressive dello strumento, tralasciando il fatto che io comunque, a prescindere, stessi suonando un violino. Anche perché, come ti dicevo, come modelli nello studio dell’improvvisazione ho seguito tantissimi strumenti tranne il mio, e quindi è stato proprio importante perché mi ha spinto di nuovo dentro al violino. Daniele è uno che fa dell’esplorazione timbrica dello strumento il suo cavallo di battaglia. Nel senso che, al di là della sua tecnica incredibile, della sua musicalità, ha proprio una competenza, una conoscenza totale del proprio strumento, cioè sa esattamente tutte le possibilità espressive che può tirar fuori dal proprio strumento e mi ha spinto a farlo sul mio. E questa cosa, collegata poi alla musica classica che comunque fa parte della mia vita perché ci sono cresciuta, e questi anni di studio intenso del linguaggio di improvvisazione jazzistico, swing, fusion, rock, blues, mi ha aperto ulteriormente le porte perché ognuno di questi linguaggi a sua volta si può combinare con espressioni timbriche differenti, mentre invece prima era una cosa che avevo lasciato in disparte, anche ovviamente per forza di cose perché non potevo fare tutto in una volta.

Ecco, rispetto al fatto che un musicista investa tutto, e tutto se stesso, come si rapporta la musica a questa epoca in cui ogni cosa scorre veloce? La musica ha un tempo per essere ascoltata, oggi?

Secondo me no, ma non soltanto la musica,  e questo mi «consola». Nel senso che mi sembra che sia una condizione in cui si trovano tutte le arti ma anche tutte le attività, tutti i rapporti umani, non si ha più tempo neanche per quelli. Quindi la grande domanda è quale sia diventato il ruolo del musicista, dell’artista in generale, anche in rapporto al lavoro discografico che forse si sta separando sempre di più dal live. Paradossalmente il live, secondo me, sta ricominciando ad avere più importanza di quanta non ne abbia avuto negli ultimi anni. Perché, tutto sommato, se una persona si trova fisicamente in un luogo ad ascoltare, la sua attenzione è più coinvolta in questo modo che non all’ascolto di un disco. Ritengo che il coinvolgimento sensoriale in un’attività, qualunque essa sia, ti liberi da questa presunta mancanza di tempo, e quindi di disponibilità, e quindi di attenzione… Motivo per cui, e ne sono davvero contenta, io punto molto sul live. Tra l’altro ho un’attività didattica pressoché nulla, e di conseguenza il mio principale impegno lavorativo, ovvero il mio reddito, deriva in larga parte dalla musica dal vivo. Ma anche perché credo che il live sia un’ultima chimera per poter avere un contatto con le altre persone.

Avvicinandoci al disco, come vivi la dimensione del suonare da sola rispetto al suonare con gli altri?

È difficile, perché sicuramente suonare in solo ha dei limiti. Chiariamo anche una cosa: il mio solo, sia nel disco, sia nel live che sto portando in giro, è un solo camuffato, nel senso che comunque mi sdoppio e mi triplico con le apparecchiature elettroniche, cambio il suono dello strumento, non solo con le esplorazioni timbriche di cui parlavamo prima, ma anche proprio utilizzando gli effetti. Questo sicuramente mi fa sentire meno sola, meno esposta, ma al contempo mi piace moltissimo che ci siano momenti di libertà totale e altri più organizzati, perché secondo me tutto questo riflette in maniera più completa ciò che sono io come persona, anzitutto. È ovvio che la situazione ha dei limiti perché anche tutte le parti più strutturate, visto che le faccio utilizzando macchine, non possono essere lasciate totalmente alla libertà e al caso; bisogna essere precisi e questo è di sicuro vincolante. Però l’ho fatto così tante volte il mio solo, quest’estate, e sono partita con grande entusiasmo, con una grande energia. Poi ci sono state alcune date in cui ero forse un po’ scarica di idee. Quindi iniziavo a soffrire la situazione, perché suonando da sola non hai stimoli esterni, se non dal luogo in cui ti trovi, e comunque non sono stimoli musicali. Invece negli ultimi due concerti che ho dato ho riscoperto una nuova energia, visto che ormai padroneggio talmente bene il materiale prestabilito da riuscire a giocarci sopra anche dal vivo. Ho imparato a non avere più paura del gesto tecnico, che comunque devi fare al meglio.

Anche l’incognita e l’eventualità di fare un errore con la macchina diventano gestibili, quindi mi assumo più rischi e la cosa mi diverte molto, tanto che gli ultimi due concerti me li sono davvero goduti. Un’altra cosa positiva, ma questo è un lato caratteriale, è che credo di essere una personalità ingombrante in primis per me stessa, e quindi nel solo riesco a dare spazio a tutti gli elementi che mi costituiscono e che posso così distribuire. Suonare con gli altri è sempre più bello e mi piace tantissimo, però  – e questa una cosa che ho notato e che mi hanno fatto notare – quando suono con altre persone in progetti anche non miei emerge un lato diverso della mia musicalità, tanto che alcune persone che mi conoscevano all’interno di un progetto, quando hanno sentito il solo sono rimaste stupite, nel senso che non si aspettavano assolutamente un concerto di quel genere. E questa cosa mi piace molto.

Quindi cosa emerge quando sei da sola?

Nel solo non c’è «solo» la Anais violinista e musicista, ma ci sono proprio io. Mentre in tutte le altre situazioni, anche progetti miei ma con situazioni più ampie, ci sono io come musicista e come violinista, con le mie competenze e capacità: insomma, sono meno messa a nudo come persona. Non so per quale motivo succeda ed è anche bello forse non saperlo, ma nei concerti in solo c’è qualcos’altro che passa al di là della musica. Molto spesso mi capita di avere un’espressività che va al di là della musica, di quello che suono, che probabilmente esce proprio come persona, ecco. Mentre quando suono in un gruppo questa cosa viene fuori meno.

La situazione mi va anche bene, nel senso che sono abbastanza convinta che questa cosa al contempo mi stanchi molto di più, mi prosciughi molto di più. Infatti, dopo che ho fatto un’estate suonando moltissimo questo solo, sono esausta come non mi sono mai sentita in vita mia.

Lo immagino, e legandomi a questo ti chiedo del titolo, «Solitudo». Immagino che non si riferisca esclusivamente alla situazione musicale ma che magari voglia parlare di te in maniera più ampia.

È proprio così. È un concetto che ho cercato di declinare in diverse situazioni. Diciamo che mi sono posta una domanda, anzi due. La prima: la solitudine è una condizione che può presentarsi come conseguenza di cosa? La seconda: la solitudine è una condizione necessaria per raggiungerne altre? Ecco, ho esplorato questo concetto dal punto di vista della causa che genera un effetto e dal punto di vista dell’effetto generato da una causa, se vogliamo schematizzare. Poi, ovvio che tutte queste sono suggestioni, nel senso che sono idee dalle quali mi sono fatta ispirare per comporre musica, quindi il tutto è altamente opinabile; resta il fatto che alcune riflessioni di questo tipo mi hanno avvicinato a certe atmosfere. Ho tradotto il tutto in atmosfere musicali ben precise. Ti faccio un esempio. Oblivion è un pezzo molto descrittivo, in base a quel che avevo in mente. Oblivion è il dimenticare, ed è il dimenticare dato da condizioni quasi patologiche, per le quali la nostra mente dimentica, quindi ad esempio la demenza senile o l’Alzheimer delle persone anziane, che hanno sprazzi, barlumi di memoria che però vengono di nuovo offuscati dalla loro incapacità di riuscire ad acchiappare i ricordi. Quindi hanno ricordi vecchissimi e invece non riescono ad essere nel presente, vivendo in un specie di passato nebbioso. E pertanto sono molto soli perché, non potendo vivere nel presente ma soltanto con i ricordi del passato, di fatto si ritrovano soli perché il passato è una cosa che esiste esclusivamente nella memoria. Quindi questa è una possibile definizione del concetto di solitudine.

I primi tre pezzi invece sono dedicati a tematiche spirituali, direi più spirituali che religiose. Quindi Ascesis è l’abbandonare tutto il superfluo e anche tutto ciò che è esterno per compiere un percorso individuale che porta ad uno stadio superiore di coscienza e di benessere interiore. Gnossienne invece è basato sul concetto di gnosticismo, sul fatto che la salvezza passa dalla conoscenza e quindi si tratta comunque di un percorso non necessariamente ma molto probabilmente individuale di ricerca e di conoscenza per raggiungere la salvezza. Insomma, una serie di suggestioni di questo genere. CiI tengo a precisare di non essere un’esperta né di filosofia né di religioni né di patologie neurologiche, si tratta di semplici suggestioni che ho preso ed elaborato.

Come hai avuto l’idea di fare il disco in solo?

Avevo già un solo che non si chiamava Solitudo, aveva un altro titolo ed era più che altro un percorso tematico. E l’ho presentato un po’ di volte, dalla fine del 2018 a tutto il 2019, anni in cui ho avuto una serie di occasioni che mi sono servite più che altro per iniziare a prendere le misure con l’attrezzatura elettronica. Inizialmente il repertorio era composto in larga parte da standard riadattati, da pezzi miei composti per altri gruppi più numerosi e poi adattati per me sola; poi ho rovesciato la situazione, ho iniziato a comporre per il solo e ad arrangiare per band più grandi. Negli ultimi tempi, ogni volta che mi viene un guizzo compositivo parte dal solo e poi si espande. Diciamo che c’erano già tutti gli elementi che avevo accumulato in questa ricerca, i suoni, le possibilità anche logistiche dell’utilizzare gli effetti, qualche melodia buttata qua e là, poi  ho raccolto tutto questo materiale negli anni. Comunque ne ho aggiunto tanto altro, per questo disco, però non è stata una cosa decisa a tavolino.

Anais Drago

Quindi quando sei entrata in studio avevi già tutto pronto e chiaro, come anche il fatto di dedicarti sia alla parte elettronica sia acustica, come stavi facendo nei live?

Il solo che stavo portando in giro era principalmente basato sull’uso di effetti, loops e così via, poi nell’ultimo anno – grazie alla folgorante masterclass di Daniele Roccato e ad altre cose che erano successe prima – avevo iniziato a esplorare la dimensione del solo col violino acustico. A un certo punto mi ero ritrovata ad avere due programmi da concerto in solo, uno acustico e uno elettrico. Il che era assurdo. Ecco, l’unica cosa che ho deciso, nel pensare al disco, è stata quella di racchiudere entrambe le anime in una maniera sensata, quindi non facendo un patchwork, ma cercando un senso generale. Tendenzialmente i pezzi in cui ho usato sovraincisioni, dove ci sono delle melodie e anche degli assolo, erano già abbastanza definiti, ma è anche vero che avevo fatto un grosso lavoro di pre-produzione sui suoni: quelli con gli effetti li ho realizzati tutti io. Abbiamo messo pochissime cose in post-produzione. La maggior parte dei suoni li ho fatti io, li ho creati io e li ho suonati io dal vivo in studio. Le parti più spontanee delle giornate in studio sono stati il momento di violino acustico in solo e i tre Halucinari. Anche perché nella costruzione del disco avevo già gran parte dei brani, e poi cavalcando l’onda del concept mi erano venuti in mente i titoli. La maggior parte dei brani ha quindi preso un titolo seguendo il concept, ma poi continuando su questa falsariga mi erano venuti in mente altri titoli belli su cui costruire dei brani. È nata così l’idea dei tre Halucinari, dal verbo che indica l’allucinazione. Nel primo c’è un violino solo, nel secondo ce ne sono due, e nel terzo (che è completamente improvvisato) ce ne sono tre.

L’ultimo brano invece, l’unico dal titolo in inglese, si distacca molto dalla linea generale del disco, quasi come a presagire idee future, o quasi come un’anteprima di un avvenire. Me ne parli?

Dimenticavo che anche quello è completamente improvvisato. Ne approfitto per darti questa informazione, cioè che in quel pezzo e anche in Minotauros, ma lì è meno evidente, ho usato un violino che non è né il mio violino acustico né il mio violino elettrico. È uno strumento acustico, ma si tratta di un oggetto a forma di violino che ho comprato dieci anni fa per fare busking in strada con i miei amici. L’ho sempre conservato per le occasioni in cui bisognava andare a girare videoclip e far finta di suonare, oppure in situazioni meteorologicamente non idonee, insomma è un violino da battaglia. In questo lockdown l’ho riscoperto cambiandogli accordatura, un’accordatura non da violino, e passandolo attraverso alcuni effetti della pedaliera ne è uscito un suono che mi piace da morire. Il pezzo in sé, tolta l’improvvisazione iniziale, che è più un divertirsi con questo violino che non è un violino, è nato da un giochetto ritmico, nel senso che è l’incastro di più ritmi insieme che creano quello che sembra quasi un pezzo dance ma che poi in realtà è storto e sul quale ho messo un semplicissimo testo, Just Talking To Myself. Come a voler dire che tutto il disco è molto concettuale, potrei stare ore a parlare a te, ascoltatore, di tutto ciò che c’è dentro queste tracce, però la verità è che sto parlando con me stessa. Vuole essere da una parte un alleggerimento, dall’altro un invito a non farci troppe domande. Alla fine, quindi, sono io che dico tutta una serie di cose. Che vengano capite o no, tutto sommato cambia poco, stavo solo parlando con me stessa.

Per completare la risposta, sicuramente un seguito di questo lavoro in solo mi piacerebbe già fin da adesso, però il titolo non vuole in alcun modo essere un’allusione.

A questo punto dimmi qualcosa in più di Firma Mentis, Horror Vacui e Manteia.

Firma Mentis, che è anche il singolo che ho fatto uscire in anteprima, il titolo è un gioco di parole fra «forma mentis» e «firmamento» ed è basato sull’idea che ho commissionato come concept per il video, ovvero che la nostra mente sia infinitamente espandibile come l l’universo, quindi si tratta di un paragone tra l’infinitamente grande dell’universo e l’infinitamente piccolo della nostra mente. È stato molto difficile scegliere un singolo, però avevo un’idea forte per il video e quindi è stato questo che mi ha fatto decidere: era il pezzo su cui avevo le idee più chiare dal punto di vista video. Horror Vacui invece è nato abbastanza spontaneamente in studio, nel senso che avevo composto cellule melodiche e ritmiche con l’idea di creare spazi vuoti che si alternassero, avevo dei suoni che avevo selezionato, è stato molto divertente da costruire e si basa sull’idea che l’horror vacui sia parte integrante della persona e in qualche modo uno deve accettarla. Nel senso che, quando lo provi, non puoi fare altro.

Manteia invece è una ballad che simbolicamente chiude il disco, non fosse per il Just Talking To Myself di cui dicevamo. Manteia è il nome antico della città di Mantova e l’ho chiamata così perché, molto banalmente, l’ho scritta una volta che stavo andando a Mantova. Però Manteia è anche il termine greco che indica il vaticinio. Quando le persone si recavano dall’oracolo per avere una profezia, che molto spesso era come un gesto di affidamento alla divinità, speravano che la divinità tramite la Pizia desse responsi. Quindi è un messaggio di speranza, parafrasando e contestualizzando.

Cosa pensi arriverà all’ascoltatore?

Ritengo che ogni brano crei una un’atmosfera piuttosto precisa, che poi ognuno percepirà in maniera soggettiva. La mia analisi del disco è talmente piena di significati, di cose non dette, di sfumature, di messaggi subliminali, che in realtà preferisco che l’ascoltatore si costruisca un suo proprio mondo. Ho fatto un live in solo a metà ottobre a Torino, e tutti coloro che mi hanno fornito la loro impressione hanno detto cose completamente diverse riguardo a ciò che avevano percepito, alle possibilità che avevo proposto, ai riferimenti che loro stessi pensavano di trovare. È uscito fuori di tutto e di più, da Branduardi alla Turchia passando per il Sud America. E mi piace molto che sia così.

Accordi Disaccordi – “Magnolia” feat. Anais Drago (violin) al festival Umbria Jazz 2019

Intervista a cura di Anita Soukizy.

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