Abbiamo seguito sempre con grande attenzione Amaro Freitas nella sua carriera, che sinora lo ha posto in evidenza con quattro album di sicuro valore, sino ad arrivare a «Y’Y», che lo scorso anno ha reso quasi impossibile non notare la sua figura, e la sua musica.
Buona parte del merito va riconosciuto al «nostro» Pietro Scaramuzzo, che lo ha intervistato sia in occasione della pubblicazione di «Rasif» (disco del 2018, qui l’intervista di Gennaio 2019), sia più di recente (qui, Marzo 2024).
Non stupisce, dunque, che per il pianista di Recife il Teatro Studio Borgna dell’Auditorium romano fosse gremito, di un pubblico attento, con la presenza di molti suoi connazionali.
Il set si è sviluppato suddividendosi in tre porzioni ideali: una prima parte prettamente pianistica; una seconda «amazzonica», carica delle suggestioni del viaggio, che ha fatto particolare riferimento all’ultimo disco; una terza, infine, che il pianista ha dedicato, nella sua peculiare forma di relazionalità estesa, al gioco con il pubblico, prima di arrivare alla coda del concerto e al bis, nel quale ha omaggiato Milton Nascimento con il pezzo omonimo (che è in «Sankofa», disco del 2021).

La prima frazione è stata quella più interessante, nel corso della quale Freitas ha avuto modo di dimostrarsi pianista di notevole solidità, capace di alcuni interessanti approcci non del tutto convenzionali, consistenti soprattutto in una valorizzazione spiccatamente percussiva dello strumento, nelle sue molteplici possibilità, anche oltre la tastiera, sino a trasformarlo, attraverso la preparazione con oggetti vari e la manipolazione della meccanica, in un vettore di suoni diversi, che sa ricondurre in modo pertinente al proprio mondo folclorico. Molto godibili le esecuzioni di Ayeye e Baquaqua.
Si è riportata tuttavia l’impressione che questo approccio performativo, sicuramente stimabile, soprattutto nella parte in cui sa richiamarsi ad una tradizione così tanto imponente – riproponendola attraverso quello che Gianni Gualberto ha definito «tocco decolonizzato» -, non possegga ancora una forza ideativa adeguata a sorreggerlo per un intero set solistico. In certe iterazioni può mancare, a volte, il respiro; certi blocchi martellanti possono ricordare un trenzinho che sembra non trovare uno stazione d’arrivo; l’evocazione degli elementi africani può risultare un dato formale.
Ma Freitas, a cui non difetta evidentemente anche una certa consapevolezza dei propri attuali confini, unita tuttavia a una onnivora volontà di ampliarli – anche attraverso una felice facondia relazionale, sulla quale sa fare abilmente leva nell’interazione col pubblico -, ha virato il set verso quella parte che, in pieno accordo con il leitmotiv di «Y’Y», celebra il viaggio amazzonico, la Natura e l’acqua, evocando forze ancestrali.

Si potrà dire che in questo suggestivo scenario, quasi un presepe, sorretto da basi e suoni campionati (in cui ha spiccato, positivamente, la semplice naturalezza di Viva Naná), si ripropone in modo assai simile un viaggio di formazione già fatto – e ben a fondo – da altri prima di lui (Gismonti, ad esempio, compì il proprio tra gli indios Xingu negli anni Settanta e, in fondo «Sol Do Meio Dia» volge quasi verso il cinquantesimo compleanno, senza per questo aver perso nulla della propria forza).
Ma ci parrebbero critiche ingiustamente acrimoniose, perché in qualche modo l’opera di Freitas ha il pregio di ri-attualizzare quella riflessione, in un momento in cui essa è tanto più difficile quanto più si offre come necessaria, per le condizioni tanto gravemente mutate di un Pianeta al tracollo.
In tale contesto, l’evidente sforzo che il giovane musicista fa di proporsi come medium, rispetto a una cultura tanto vasta come quella che ha alle spalle, non appare insincero neppure nel gioco, forse un po’ ingenuo, che instaura con un pubblico-familia, al quale fa intonare brevi frammenti melodici come parte di un lessico famigliare, o parla di cibo, di casa, di padre e di madre, creando un canale di comunicazione empatica.
Proprio in questo recupero relazionale, in questa connessione – che è anche la «riunificazione delle radici della musica nera», puntualmente osservata da Scaramuzzo – sta, forse, la sintesi che può legare tutto. Ed evidentemente questo messaggio, che ha una sua integralità (e integrità), passa diretto verso un pubblico che lo recepisce, grato.