Umbria Jazz 2023: parla Francesco Fratini

A colloquio con il trombettista romano, elemento di spicco della Umbria Jazz Orchestra

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Foto cortesia di Francesco Fratini

Quando Enrico Pieranunzi, uno dei nostri top players per eccellenza, è entrato per la prima volta come solista nel cartellone di Umbria Jazz era il 1975: aveva venticinque anni. Un tempo difficile da misurare, specie considerando il fatto che oggi è pressoché impensabile trovare un talento nazionale con tale risalto nei cartelloni dei festival. Qualcosa sarà successo: quanto meno in cinquant’anni la figura del musicista jazz ha del tutto cambiato volto e il lavoro, che solo un approccio gerontocratico può considerare assimilabile ad allora, è diventato tutt’altra partita. Accade così che quella che i senatori del jazz nostrano considerano spesso la nuova leva, nuova leva non lo è per niente, trattandosi di professionisti bell’e formati, trentenni, con dieci o quindici anni di attività alle spalle e che guardano, piuttosto, alla «vera» nuova leva, quella dei nati dopo il 2000, il che potrà pur fare effetto ma resta una realtà ineludibile. Basta saperlo.

La cattiva notizia è che quindi, con tutta probabilità, s’è sfilacciata la consapevolezza del talento autonomo, il «solista», cui non viene lasciato spazio d’espressione autonomo nella Serie A; la buona notizia è che questi talenti si sono già riorganizzati, hanno fatto rete e hanno trovato tra nuove tecnologie, sistemi di produzione, distribuzione e diffusione il modo di creare un collettivo in buona parte autosufficiente, incaricato di disegnare, per dirla con Ornette Coleman, «the shape of jazz to come». Non è una notizia da poco.

Una delle modalità più vitali di questa riorganizzazione si è rivelata l’Umbria Jazz Orchestra, un progetto felice nato nel 2017 dove confluiscono i migliori talenti italiani ed internazionali, pronta a collaborare con star del panorama musicale internazionale, grazie ad una eccellente preparazione tecnica e all’estrema versatilità di linguaggio. Si tratta, per lo più, di musicisti giovani, che sostengono nei progetti cameristici, sinfonici e di larghi ensemble molti degli ospiti di prima filma della rassegna (estiva e invernale) umbra, i quali – a loro volta – si trovano servito un «piatto caldo» di super-musicisti niente affatto complessi da dirigere, abituati a saltare da partiture dodecafoniche o romantiche ad altre Swing o contemporanee. L’orchestra è stata diretta, tanto per fare un nome, da Quincy Jones e ha lavorato al fianco di Bill Frisell, John Scofield, Uri Caine e con altre direzioni eccellenti, da Ethan Iverson a Steve Wilson, dando vita a registrazioni di qualità eccelsa e performance che finiscono per essere tra le più apprezzate del Festival.

Uno di quelli che nell’Umbria Jazz Orchestra lavorano già da molti anni è Francesco Fratini, trombettista romano, classe 1990, diventato nel giro di pochi anni un punto di riferimento del jazz capitolino ma non solo. Innamorato del lavoro d’orchestra, complice un diploma brillante al Conservatorio di Santa Cecilia, è conosciuto e conteso in una pluralità di produzioni, che appaia al lavoro di scrittura, arrangiamento e registrazione come solista. Dal suo «The Best of All Possible Worlds» (Jando Music & Via Veneto Jazz) del 2019 ad una serie di produzioni home made, distribuite da La Reserve, che matureranno a giorni con l’uscita del nuovo singolo.

Fratini nei giorni di questo Cinquantesimo Umbria Jazz fa la spola tra Roma e Perugia. Qui ha offerto sostegno al quintetto di Kyle Eastwood per la serata di apertura, in un ambizioso progetto sinfonico e cameristico, e giovedì sarà con Steward Copeland per un reload della musica dei Police. Incontrarlo è l’occasione per fare il punto sul lavoro con l’Umbria Jazz Orchestra e discutere i problemi del mercato contemporaneo del jazz.

Come sei entrato nell’UJO?
Anni fa sono stato indicato dal sassofonista Manuele Morbidini e da Mirco Rubegni, di solito prima tromba (come sarà con Steward Copeland); immagino che i capo sezioni abbiano un po’ di voce in capitolo sui musicisti che vorrebbero al fianco. Il primo progetto fu una magnifica versione di Porgy and Bess per UJ Winter 2018 a Orvieto, con Lewis Nash alla batteria, Jay Anderson al contrabbasso e Paolo Fresu: è stato bello soprattutto lavorare sulle partiture originali di Gershwin. Poi, solo per citarne alcuni, abbiamo suonato il repertorio di Bud Powell diretti da Ethan Iverson o quello di Quincy Jones…

Diretti da lui?
Ha diretto un brano e seguito le prove, per il resto abbiamo avuto John Clayton, che non conoscevo personalmente ma ha avuto la capacità di tenere insieme una sinfonica in modo perfetto, che non è esattamente una cosa semplice. Sai, lavorare con questi giganti è un’esperienza difficile da raccontare, hanno un’aura fatta di storia, di genialità, di estro… Già la presenza trasmette questo tipo di carisma, che ha spesso un comun denominatore: sono estremamente alla mano, ben disposti verso i componenti dell’Orchestra.

C’è una parte stabile e una variabile nella formazione dell’UJO?
Sì, diciamo che c’è uno zoccolo duro di musicisti nelle diverse sezioni. È uno dei motivi per cui sono felice di essere in Orchestra, perché almeno è l’occasione d’oro per suonare e rivedere colleghi e amici sparsi in Italia, con i quali diventa difficile incontrarsi col nostro lavoro.

Vi vedete per provare solo in occasione di un concerto o ci sono incontri stabili?
È difficile organizzarsi in modo diverso se non per l’occasione del concerto. Il tutto varia dal tipo di produzione e anche, quindi, di disponibilità economica, perché le prove possono durare da poche ore fino a qualche giorno, non molti in verità. Quando abbiamo suonato l’altra sera con Kyle Eastwood credo sia stata la più «cotta e mangiata», abbiamo avuto un giorno di prove; ovviamente ci mandano le parti prima e quando arriviamo siamo già attrezzati alla sfida…

Aver così poco tempo per provare influisce, secondo te, sul risultato finale, soprattutto in termini di compattezza sonora dell’Orchestra?
Guarda, sì, sinceramente, cosa che si affianca al naturale margine di successo del progetto per il quale suoniamo, ma è certo che trovarsi accanto super-professionisti fa in modo che tutto funzioni al meglio. Un’altra variabile è il repertorio, ci sono cose estremamente difficili, sono quelle in cui è assolutamente necessario seguire la direzione. In quei casi, se vuoi il risultato, bisogna suonare insieme, fare più prove. Altri repertori più classici richiedono, nei limiti, minor fuoco sulla direzione, perché magari si tratta di brani che già conosciamo. Detto questo, con meno diplomazia, se vuoi la mia opinione è che si sente abbastanza se si prova di più o di meno.

L’altra sera con Eastwood, per esempio, è stato difficile, perché c’erano molte parti, come l’Overture, dove la ritmica non suonava, la scrittura era complessa e il direttore è stato fondamentale. In questi casi ci troviamo di fronte a partizioni di tempo meno definite che nelle orchestrazioni jazz, dove c’è una vera e propria «religione del tempo», che è una garanzia nella gestione del suono complessivo. Con quello di Copeland, che suoneremo giovedì, la difficoltà è in alcuni passaggi, ma ovviamente, essendoci lui, il tempo è definito, chiaro.

Che qualità professionali servono per suonare nel gruppo dell’UJO?
Serve certamente una buona preparazione classica, anche se l’esperienza in molti casi può sopperire alle lacune. Direi che la prima dote è quella di una lettura molto veloce e poi comunque occorre aver avuto pratica d’Orchestra, perché è una competenza molto specifica che non si può improvvisare. In quel contesto i ruoli sono definiti: per esempio io non sono una prima tromba e non potrei mai farlo, perché è un ruolo che richiede un profilo specifico e diverso rispetto a ciò su cui sto lavorando da una vita. Io sono più un improvvisatore, mentre la prima tromba è una figura musicale tecnica, «performante», affidabile e carismatica, anche perché si porta dietro tutta l’orchestra e, come capirai, non le sono concessi errori. Un’altra figura centrale è il batterista o percussionista: se sbagliano loro, il gruppo si pianta, non funziona.

A parte le orchestre, tu fai parte di molte formazioni, sei richiestissimo: l’altra sera a Roma eri alla Casa del Jazz per un progetto di Paolo Damiani.
E quella è ancora un’altra estetica, un altro tipo di lavoro! Di progetti, per fortuna, ne ho tanti, ma Roma, dove sono nato e per lo più lavoro, ha una solida tradizione di big band, anche se come è noto si tratta di formazioni con sempre maggiori difficoltà da affrontare, a partire dai soldi per sostenerle. Per questo Umbria Jazz è l’unica organizzazione, per dimensioni e prestigio, che può permettersi di tenerne in vita una tanto importante. A ogni modo ho suonato fin da bambino con molti bravi direttori: Roberto Spadoni, i fratelli Corvini, Massimo Nunzi…

Alla lunga, il tuo desiderio è quello di sganciarti dall’Orchestra e portare avanti solo la tua musica come solista?
Ma no! Anche perché una cosa non esclude affatto l’altra. Sono sempre stato solista, ma ho avuto tante soddisfazioni dal lavoro con le orchestre, che faccio con autentica passione. Anzi, una cosa fa bene all’altra.

Tempo per scrivere nei hai? Stai facendo qualcosa di nuovo?
Qualche anno fa sono uscito con «The Best of All Possible Worlds» grazie a Jando Music. Erano pezzi scritti e arrangiati da me. Poi, durante il lockdown, avendo la fortuna di avere uno spazio dove registrare e provare, siamo riusciti col Trio, con Matteo Bultrini e Giuseppe Romagnoli, ad auto.produrci e così è nato «Home Made», che ha anche inaugurato la collaborazione con un’etichetta indipendente di New York, La Reserve. Adesso a luglio, sempre con loro, uscirà un brano che anticipa l’album previsto per il 13 ottobre prossimo e che abbiamo già registrato; andrà su tutte le piattaforme digitali, ovviamente, ma stavolta abbiamo deciso anche di stampare i cd.

A questo punto ti faccio una domanda a bruciapelo e tu rispondi con la diplomazia che vuoi: il rapporto con i senatori del jazz italiano com’è?
Figurati, nessun problema. Partiamo col fatto che si tratta di personalità molto diverse tra loro, anche se puoi metterle sotto lo stesso cappello del jazz «italiano». Per questo, ci sono delle figure a cui sono molto affezionato, perché mi hanno fatto crescere moltissimo; uno su tutti Enrico Rava, una persona meravigliosa che mi ha dato fiducia quando avevo diciotto anni per un progetto su Gershwin.

Di altri, dirò cautamente questo: la mia è una generazione nuova, che si è liberata in modo virtuoso da certe dinamiche proprie dell’ambiente. Parti dal fatto che viviamo dei tempi ben più complessi a livello lavorativo o di opportunità, siamo cresciuti un po’ più nella giungla. E questo fa sì che riusciamo a fare più «comunità» di quanto non sia riuscita a fare la generazione più anziana. Ne sono molto contento, anzi proprio orgoglioso.

Ma il famoso scambio generazionale?
Non sempre accade, lo dico senza polemica. Questo dovrebbe essere il processo naturale, ma sai una cosa? Vedo che funziona in modo migliore tra musicisti della mia generazione che ormai comincia ad avere trent’anni e un buon bagaglio di esperienze e quella nuova. A Roma, per parlarti della mia città, c’è un gruppo di giovanissimi, ti parlo di gente del 2000 o successivi, che suona benissimo; ragazzi con i quali non c’è alcun tipo di invidia, tensione, «nonnismo» o semplice gelosia. Probabilmente, ripeto, è anche perché facciamo riferimento a due diversi momenti storici della professione musicale: oggi non ha più senso riferirsi a quel passato.

Una qualche resistenza a entrare con i vostri progetti solistici nei cartelloni principali c’è, in effetti.
Altro che «qualche»: direi enorme, forse impossibile …

Quindi state trovando nuovi canali, giustamente.
Ecco, in quello, per fortuna, siamo molto bravi… Anche perché il motore è il dover rispondere a un’esigenza esistenziale, quella di trovare e coltivare spazi di espressione. Aggiungo, anche come didatta, che ci sono musicisti in erba davvero, ma davvero fortissimi, con i quali è un piacere suonare.

Eppure un nuovo corso originale nella composizione jazz sembra mancare.
Solo su una cosa sono esterofilo e cioè che la musica jazz più forte, oggi, viene ancora dagli Stati Uniti. Per quanto riguarda noi, è drammaticamente semplice: dove non ci sono occasioni, non ci può essere sviluppo.

Paolo Romano