Umbria Jazz 2023, Michael Mwenso

Parliamo con Michael Mwenso, leader degli Shakes, un collettivo nato una quindicina di anni fa, che ha infiammato il palco di Umbria Jazz.

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Al quarto giorno di performance ai Giardini Carducci battuti da quaranta caldissimi gradi che infiammano Perugia, salgono in otto sul palco, saltano come grilli, indifferenti al taglio di sole che insiste di sguincio giusto sui loro volti. Michael Mwenso è stretto in una tuta attillata rosso fiammante, sette dei suoi “Shakes” partono con una medley che attraversa ogni radice del blues, ma sarebbe riduttivo parlare di un crossover tra r&b, soul, blues o jazz. Come parte la musica, fa praticamente l’appello di chiunque passi per strada e lo convoca a ballare, a cantare, a muoversi come può; è la sua idea musicale che deve aver colpito Wynton Marsalis una sera al Ronnie Scott’s, che diede il via al successo portando il leader al Dizzy’s Club e al Jazz at Lincoln Center. Alla base un progetto nuovo, in cui una non comune capacità d’arrangiamento e la naturale propensione all’entertainment si ibridano, lasciando interrogare chi ascolta se prevalga la parte di performance o quella musicale. A loro spetta cavalcare ogni giorno l’intenso programma di questa cinquantesima edizione di Umbria Jazz, un concerto al giorno che è una prova non solo mentale, ma anche fisica.

«Ok, ciao, che musica ascolti?» chiede Mwenso a cena sedendosi in mezzo a un gruppetto di addetti ai lavori. Escono fuori i nomi di Fats Waller, di James Brown, di John Coltrane e altri ancora, il suo carisma è piuttosto palpabile ed è quasi impossibile sfuggire a quel magnetismo energico che porta questo omone altissimo (e un filo stravagante) a incontrare persone e a intrecciare relazioni che mette subito sul personale. «Allora facciamo che stasera a mezzanotte e mezzo venite tutti a lato del palco a sentirci, poi ne riparliamo domattina». Sguardi perplessi, imbarazzo sibilato, occhiali appannati, ma una decina di giornalisti sono lì, all’ora esatta della convocazione.

Zhanna Reed Foto di Rhea Anna Photo + Motion

Al quinto giorno, a poche ore del nuovo tour de force performativo, sono buttati in quattro sui divani di pelle della hall dell’albergo, stanchissimi, occhialoni scuri a coprire le occhiaie. «Ieri è stata durissima», ammette Zhanna Reed, cantante e corista degli Shakes, «caldo davvero ingestibile, ma ci siamo divertiti, sta venendo sempre più gente e di questo siamo contenti». «Ehi», contrappunta il batterista, Ahmad Johnson, «ti piace il tuo lavoro? Ti piace quello che fai, intervistare musicisti?» «Soprattutto quando posso parlare in modo rilassato e di persona con gli artisti, come adesso con voi», confessa con un filo di imbarazzo il cronista; «Ecco, per noi è lo stesso: amiamo straordinariamente incontrare persone, scambiarsi idee, condividere un feeling».

Xander Naylor Foto cortesia di Michael Mwenso

Questi ragazzi non sono un gruppo musicale, sono un collettivo (o una comune) in senso proprio, i loro pezzi sono costruiti su un incastro complicatissimo di stacchi, riprese, scambi e passi di danza, digressioni improvvisative, riprese e cambi di tempo continui. Qualcosa che, obiettivamente, richiede solidissima professionalità e un interplay corroborato dal tempo. «Vuoi la verità su quanto ci abbiamo messo a trovare l’interplay?», interviene Xander Naylor, chitarrista del gruppo, «un secondo. Mai stato più facile; certo ovviamente devi sapere il fatto tuo con lo strumento, ma il resto è venuto subito, perché c’è un rapporto tra di noi che esclude qualunque rivalità, gelosia, gerarchia, roba di cui la musica è piena. Non è una gara, non ci sono medaglie da assegnare”. «Siamo ancora qualcosa in più di un collettivo, siamo una famiglia e questo si sente quando suoniamo. Come adesso, su un divano stanchi stiamo parlando dei pezzi e a modo nostro stiamo facendo le prove, d’altronde stando tutti i giorni sul palco ci basta giusto qualche accenno», sottolinea Johnson. Quel che segue è dunque un racconto collettivo, dove i larghi assensi l’uno con l’altro esonerano da puntute virgolettature.

Ruben Fox Foto cortesia di Michael Mwenso

«Siamo nati una quindicina di anni fa e abbiamo iniziato a costruire un repertorio piuttosto vasto. E infatti la scaletta la decide Michael, anche una mezz’ora prima del concerto, anzi spesso ci dice i pezzi sul palco, in baso all’energia che si crea con il pubblico, alla durata programmata del concerto (noi andremmo avanti di più), al tipo di feeling che costruiamo tra di noi in scena e questo è molto divertente, perché non solo il pubblico vede ogni sera uno show diverso, ma anche noi nell’estemporaneità rendiamo di più.

Facciamo base ad Harlem, è un posto che amiamo molto, anche se prosegue il preoccupante tema della gentrification: ogni anno gli affitti e i prezzi delle case salgono del 30 o 40 per cento, così da costringere i tanti che qui hanno le loro radici a lasciare appartamenti che non si possono più permettere. Per il resto, veniamo tutti da parti diverse dal mondo: qualcuno da Buffalo, qualcuno da NYC, qualcuno da Londra o dall’Africa occidentale, dove lo stesso Mwenso è nato e cresciuto, in Sierra Leone, prima di trasferirsi a Londra e dopo ancora ad Harlem. Lì puoi trovare un mucchio di club e spazi dove suonare, l’ambiente adattissimo ad esprimerci al nostro top; certo, siamo consapevoli che essere per così tanti giorni qui a Umbria Jazz è una straordinaria vetrina per farci conoscere in Europa, ci piacerebbe molto – per esempio – poter suonare a Roma, non ci siamo mai stati».

Netanya Thompson Foto cortesia di Michael Mwenso

Mwenso, a detta di tutti loro, è un leader impagabile, la parola d’ordine è amore, la condivisione di un’esperienza condivisa di musica; a Perugia lo show è impreziosito dalla performer e danzatrice West-africana Netanya Thompson, alla quale è affidata la gestione del movimento improvvisativo, del linguaggio e della semantica del corpo che si porta nel proprio DNA. Durante le loro esibizioni, il mattatore dirige la sezione dei fiati, le dinamiche della sezione ritmica, canta e fa cantare, «è lui, davvero, a portare questo largo ensemble a funzionare come una macchina del divertimento sul palco; gli dobbiamo tutto, da questo punto di vista». Mentre parlano, c’è un andirivieni in hotel di gente che vuole salutarli e complimentarsi, qui ormai li conoscono tutti. Gli chiedono foto e a che ora è previsto il concerto della sera, a tutti rispondono con gentilezza, tentando di abbozzare qualche parola in italiano. «La formazione», spiegano, «non è fissa, ma cambia continuamente. Siamo arrivati a suonare in sedici, con tre batterie e due bassi; altre volte ci stringiamo in quartetto o ottetto; non ci sono regole predefinite».

Chris Smith Foto cortesia di Michael Mwenso

A Perugia ne approfittano anche per presentare il loro album più recente, «Emergence (The Process of Coming into Being)», registrato dal vivo a NYC, dodici pezzi in cui mescolano Brilliant Corners di Monk a You Can Do No Wrong di Cole Porter, con il resto dei pezzi a firma di Mwenso.

Anche loro fanno parte di questo Festival umbro, che conferma la vocazione a presentare in modo completo tendenze, idee e suoni del mondo afferenti a vario titolo al grande corso del jazz; è il collage tra istrionismi, sperimentalismo, tradizione che, più di ogni tavola rotonda o dibattito occhialuto a tavolino, a fornire spunti e visioni da costruire per una musica che, a dispetto dei corvi neri appollaiati nel (pre)giudizio, gode di ottimissima salute.

Paolo Romano