«The Big Gundown»: l’omaggio a Ennio Morricone dello scettico John Zorn

Compie quarant’anni l’intuizione di un disco che ha segnato un’epoca, anche per il suo autore

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Quando questo disco prese a fiorire, nell’estate del 1984, John Zorn aveva trentun anni ed era noto solo presso i circoli del jazz estremo, per certi suoi interventi in tema di improvvisazione che lo avevano portato a lavorare soprattutto su una serie di game pieces, in cui i musicisti coinvolti si esprimevano liberamente all’interno di determinate regole di struttura. Fu il suo manager di allora, Yale Evelev, a chiedergli di cambiare spartito, attingendo alla sua enciclopedica cultura; fra le mille cose era un appassionato di cinemusica, dunque perché non un personale omaggio a Ennio Morricone? Zorn fece resistenza. Amava quella musica ma era convinto che fosse in qualche modo «perfetta», intoccabile; e poi si sentiva un compositore, un improvvisatore, il ruolo di traduttore gli pareva un minus. A fargli cambiare idea provvide Hal Willner, che giusto in quei primi Ottanta stava cominciando a elaborare i suoi celeberrimi omaggi. Willner coinvolse Zorn in un paio di questi progetti, per Thelonious Monk e Kurt Weill, e lo scettico John fu piacevolmente stupito di ciò che riuscì a fare, smontando e rimontando la musica di quegli autori senza limitarsi semplicemente a citare o a sottolineare. Scoprì lo studio di registrazione come strumento creativo e d’improvviso gli si schiuse un nuovo orizzonte, in cui l’opera del maestro italiano assumeva nuova luce.

Il punto di partenza fu proprio l’enorme massa di dati che fluttuava nelle sue fantasie sonore. «Nessuna generazione di compositori è mai stata esposta all’offerta di musica che oggi abbiamo», ragionò, prima ancora che Spotify e gli archivi della Rete scolpissero quel pensiero nella roccia; free jazz, bebop, country, rock, blues ma anche la cinemusica, anche lo sterminato catalogo delle tradizioni popolari e le avanguardie nelle loro molteplici declinazioni, tutto poteva essere a disposizione del musicista creatore, come un enorme astuccio di colori da usare a piacimento. Con quello spirito Zorn affrontò il progetto, indagando la profonda natura dei brani selezionati e per ciascuno scegliendo, ecco un altro decisivo plus del disco, i musicisti che parevano più adatti a interpretare le sue permutazioni. Sarebbe stato sciatto e per certi versi irrispettoso impiegare una sola band, di fronte al ventaglio di stimoli e idee che il repertorio morriconiano spalancava.

John Zorn

Dunque dieci formazioni diverse per i dieci brani in scaletta, dal potente ensemble che tramortisce l’ascoltatore nella iniziale title-track (il tema di La resa dei conti, spaghetti western del 1967) allo spartano trio guidato dal venerabile armonicista Toots Thielemans che mormora un tema di C’era una volta in America, dalle corde frementi di Fred Frith, Jody Harris, Arto Lindsay e Melvin Gibbs in Milano Odea (sic!) al chiaroscuro di voce, chitarra e Hammond (Big John Patton!) che disegna il tema erotico degli Scassinatori di Henri Verneuil. Zorn è eccitato, irrefrenabile, non si nasconde tra le pieghe di un repertorio che cela tesori fino agli angoli più oscuri ma affronta impavido i classici; come la memorabile cadenza della Battaglia di Algeri, riproposta tale quale da Wayne Horvitz ma immersa poi in una densa foschia noise. L’incipit che dicevamo, La resa dei conti, è esemplare dello stato d’animo e delle intenzioni del traduttore/re-inventore; concepito in origine come un brano tropicale investito da onde di chitarre surf, diventa un tumultuoso collage di ritmi, rumori, citazioni, forsennato zapping in una immaginaria radio secondo un procedimento di cut-up che Zorn in quella stagione predilige. Anche Tre nel 5000, unico pezzo che non porta la firma di Morricone, parla quella lingua. Il leader immagina una sua colonna sonora dirigendo un’orchestrina di improvvisatori (di provocatori) e fidando nella collisione tra nastri, trombone, tastiere e micro-computer, con i virtuosismi del grande Christian Marclay con il suo esplosivo giradischi.

Alla fine l’omaggio fu sottoposto a Morricone, che apprezzò. Le orecchie del maestro erano aperte e non gli fu difficile trovare «idee fresche, buone e intelligenti» in quelle ri-creazioni e re-invenzioni. Non era tutto, tra l’altro; la versione cd uscita quindici anni più tardi avrebbe aggiunto sei altri pezzi rimasti nel cassetto, e niente affatto di scarsa qualità.

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